Roberto
Mosi, “Orfeo in Fonte Santa, G. Ladolfi Editore, Borgomanero (No), 2019
Recensione
di Simone Siliani
“Roberto
Mosi, poeta prolifico e animatore culturale di tante esperienze, ha dato alle
stampe un piccolo e prezioso libretto, “Orfeo in Fonte Santa” (Giuliano Ladolfi
Editore Borgomanero, Novara). Un poemetto, composta da diciotto stanze,
accompagnato da belle foto, che potrei dire, definisce il mondo, le sue
tragedie, i suoi miti, visti da questo luogo magico, appunto Fonte Santa, nella
zona sud di Firenze.
È
qui che si incontravano i “Pastori Antellesi”, gruppo di artisti e
intellettuali che avevano costituito una sorta di Arcadia fiorentina di cui fu
mentore Buonarroti il Giovane, alla fine del XV secolo. E da qui, la “Fonte dei
Baci” la chiamavano, guardavano a quel loro mondo percorso da conflitti, lotte
di potere eppure da una rinascenza delle arti e della cultura a cui ancora oggi
guardiamo come a una sorta di età dell’oro, di cui non comprendiamo i contenuti
profondi. In questo luogo avevano costruiti i primi insediamenti gli Etruschi,
il popolo delle ombre che pure lasciò qui tracce della propria scrittura e
della sua organizzazione politica, con il confine della giurisdizione amministrativa.
È sempre da Fonte Santa passa il sentiero della transumanza di pastori,
pellegrini e mercanti verso la Maremma. E ancora ci testimonia Mosi con la sua poesia,
le storie di lotta partigiana fino ad un triste fatto di cronaca dei nostri
giorni, l’uccisione di una giovane donna per mano dell’ex fidanzato che poi si
uccide.
I
punti di vista laterali, periferici sul mondo, sono spesso quelli più carichi
di possibilità; certo lo sono di poesia, se per questa vogliamo intendere la
discesa nelle profondità della vitta. Certo, questa voce interiore è colta da
Roberto Mosi che traccia in diciotto stanze questa linea rossa che unisce
passato e presente, storia e natura, umano e non umano (stanza III):
“…
L’assenza
si capovolge
in
presenza, attività e passività,
si
integrano, figure immobili
sono
superate da immagini
in
movimento. “Alla terra
immobile” dico:
“Io scorro”
all’acqua
rapida: “Io sono”.
All’oblio
che si distende
risponde
il canto che afferra
l’esistenza,
“io sono”, “io sono”.
Il
mito, che il titolo suggerisce quale collante di tutto, è in realtà il basso
costante, sottofondo e quasi escamotage per annullare il tempo storico e
collegare David giovane partigiano che nasconde a Fonte Santa la bandiera rossa
che tornerà a sventolare alla Liberazione, con l’eversione artistica di
Buonarroti. Come Orfeo è coesistenza di otto diverse personalità e identità,
anche la storia si ripresenta nelle sue molteplici forme in una unità naturale.
È la lezione di Rainer Maria Rilke dei “Sonetti a Orfeo”, cui Mosi
esplicitamente si riconnette: l’esistenza come canto continuo e la poesia come
miracoloso equilibrio di contrasti. La poesia più vera è quella che canta
quello che Elio Vittorini chiamava, nella “Conversazione in Sicilia”, il mondo offeso, quella parte di umanità
che viene quotidianamente oppressa e affronta con rassegnazione il proprio
destino. Da lì scaturisce il canto. In Vittorini avviene nell’incontro di
Silvestro e alcune figure archetipiche del paese, fra le quali Calogero
l’arrotino; qui in Mosi (stanza XVIII):
“
…
Il
richiamo risuona da lontano:
“Arrotino”,
“Arrotino”
…
Migranti
giunti dall’Africa,
dalla
Siria, seguono l’anello
delle
colline. In testa Jemal,
l’etiope
guidato dal cane.”
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