domenica 31 luglio 2022

Giuseppe Panella commenta "Luoghi del mito", Roberto Mosi - Incontro al Circolo Artisti "Casa di Dante"






QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.55: L’accostamento al mito. Roberto Mosi, “Luoghi del mito”

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di Giuseppe Panella*

Dopo aver poeticamente investigato i non-luoghi del Moderno e della sua apoteosi in postmodernità velocizzata e implacabile verso i residui della cultura tradizionale sopravvissuta alla terza Rivoluzione industriale del Novecento, quella telematica, Roberto Mosi si attesta sul versante di ciò che è il Non-Luogo per eccellenza e da sempre: il mito classico.

«[…] il mito ci parla di eventi che non sono mai accaduti ma che sempre “sono”, non nella realtà della storia, ma nella realtà delle parole che usiamo per costruire possibili orizzonti di senso. E’ un percorso del pensiero che ci porta a non relegare il mito in una dimensione arcaica; al contrario, il mito è, per così dire, declinato al futuro. “Se ne può appropriare o riappropriare solo chi disponga di grande consapevolezza critica e di altrettanto grande fantasia creativa” (Sergio Givone). L’uomo contemporaneo è come chiamato ad un’impresa: deve imparare, per dirla con le parole di Nietzsche, a “sognare sapendo di sognare”. In questa ricerca possono essere liberate le energie che in potenza sono racchiuse nel mito» (p. 10)

scrive Mosi nella sua breve Premessa al volume. Giustamente l’autore rileva la perennità del mito rispetto allo scorrere continuo e implacabile della storia e del suo corso transitorio e legato alla realtà dell’attimo vissuto. Anche la poesia, per questo motivo – la sua ricerca di eternità – invoca il privilegio di non passare invano, di permanere, di conservarsi nel suo statuto di possibile non-mortalità ad opera dei suoi valori formali e dei suoi contenuti condivisi. Riprendendo anche alcuni testi già apparsi in altre sue raccolte qui ben integrati con la sua produzione nuova, la ricerca poetica di Mosi vuole andare nella direzione di una riutilizzazione dei materiali mitologici per verificarne la possibilità ermeneutica e la qualità espressiva dal punto di vista della scrittura. In questa sua aspirazione, allora, è chiara la volontà di utilizzare l’a-temporalità classica del mito in chiave dinamica per assecondarne l’adattabilità alle situazioni e alle proposte culturali di oggi. Ne è espressione simbolica la divaricata cibernetizzazione del mito del dio Ermes:

«Ermes. Bit, bit, byte, post, blog: / sventolano strisce di blog / dai calzari alati di Hermes, / sono messaggi d’amore / in corsa nell’algida rete / alla ricerca dell’altro. // www.poesia3000.splinder. com / blog di trecento giorni / striscia di cinquanta post / poesie pensieri info diari / profilo, foto dell’autore. / Cinquemila visitatori, / cinquemila nasi, bocche / diecimila orecchie, occhi / cinquantamila dita. / Contatti brevi, lunghi, / meraviglia negli sguardi / bocche storte, in tralice: / “Si tratta di vera poesia?”» (p. 32).

In questa sua provocazione fortemente accentuata sul piano espressivo, il poeta fiorentino sembra sposare una delle tesi forti che già furono del compianto Furio Jesi:

«Si potrà obiettare che il tempo del mito è immobile, e dunque che nella sfera del mito un istante vale l’eternità. Ma anche se il tempo del mito è effettivamente immobile, esiste nella percezione di esso una costante che definiamo “lunghezza” anziché “durata”: lunghezza tutta simultaneamente percepita, così come è percepita ogni sua frazione, e tale quindi da far coincidere con l’istante di chi percepisce sia l’intera realtà del tempo mitico sia le parcelle di esso. La realtà essenziale di quella durata è intrinseca non solo alla struttura di un mitologhema quale vicenda narrata, ma anche al più intimo valore di rivelazione assunto da esso. Si dovrebbe anzi dire che quella lunghezza diviene reale quanto più un mitologhema acquista in un determinato contesto religioso valore di rivelazione e di redenzione. In questo senso, nell’ambito del mito, l’“una volta tanto” porta l’uomo più vicino al dio, mentre il “da oggi per sempre” avvicina il dio all’uomo» (Furio Jesi, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino, Einaudi, 1979, p. 122).

In questo tentativo – trasformare in realtà di oggi l’istante eternizzato del mito – risiede il merito principale della ritrascrizione dei “luoghi del mito” da parte di Mosi. Si tratta, in sostanza, di trasformare ciò che è acquisito come mitologhema (per dirla con il linguaggio più tecnico di Jesi) – il culto di diana, la vicenda di Orfeo ed Euridice o il mito della Sfinge, a esempio – in dato comprensibile con la percezione di oggi e usarlo non tanto come simbolo di un “passato che non passa” quanto come metafora del presente.

Così come si avvia sui percorsi del mito greco-arcaico allo stesso modo Mosi ritrova nella poesia antica o in altre mitologie diverse da quella classica (quella nordica, ad esempio, di wagneriana ossessione) lo spunto per una riflessione tra il serio e il leggero (l’ironico è tra i modi di quest’ultimo periodo dello scrittore) che sappia però parlare al lettore del presente. La rivisitazione del mito di Ulisse sembra, in effetti, particolarmente riuscita sotto questo profilo:

«Ulisse. L’alba sorprende / l’eroe volo AZ1414 / le armi in pugno / il computer per scudo / il telefono in mano, / altri cento achei / infossati nei sedili. / Sulla terra le ombre / cedono alla luce, / le strade vomitano / macchine nervose. // Alla sera la flotta / attende il decollo / le truppe ammassate / nelle piccole navi. / Infine il balzo / nella notte di pece. / Il porto d’Itaca è chiuso / per la furia dei venti, / il riparo oltre i monti. // L’eroe raggiunge / la reggia del sonno. / Penelope dorme stizzita, / solo Arturo saluta / il ritorno, la coda ritta. / L’eroe guarda la posta, / pone in ordine le armi / si distende sul letto. / Il risveglio è vicino. // Ogni sera Ulisse / torna a Itaca» (pp. 30-31).

Anche nell’età postmoderna delle comunicazioni di massa e dei trasporti ultraveloci, Ulisse è sempre lo stesso. Tornare a casa è il suo mestiere e lo fa allo stesso modo che nel poema di Omero, solo che qui usa strumenti diversi dall’eroe antico ma con desideri e ambizioni antiche.

Anche Orfeo viene riletto in una dimensione modernizzata che ne esalta i caratteri imperituri e convenienti alla nostra epoca (così come aveva fatto anche Dino Buzzati nel suo Poema a fumetti):

«Orfeo. Se Orfeo poté col suono della canore / corde della sua cétera treicia / evocar l’ombra della sua consorte (Virgilio, Eneide, c. VI, vv. 173-175, trad. it. di G. Vitali) Cerbero il gigante dalle teste / rotanti ha trafitto Firenze, / nove chilometri di galleria. / Il treno è in arrivo in mezzo alla folla. / “Orfeo è alla guida del treno” / sospira una voce innamorata. / “Euridice è vestita di bianco”. // Nella città divisa dall’odio / la vita si è accesa. / Orfeo ha convinto tutti / a scendere all’inferno / a gettare i simboli dell’odio / nelle voragini profonde / oltre il suono dell’eco. // “Il canto ci ha conquistati, / siamo scesi in fila indiana / seguendo il suono della voce”. / Davanti ceste di retorica / simboli della Chiesa trionfante / insegne della massoneria / bandiere d’ogni ideologia / paraventi per tramare nell’ombra. // Euridice è alla guida di Cerbero / nella melma degli ultimi strati, / la tuta bianca, l’elmetto sopra / i capelli biondi. Orfeo / s’innamorò al primo sguardo. / Implorò Ade di lasciarla salire. / “Uscirà alla fine dello scavo / quando passerà il primo treno”. // “Orfeo ha distrutto, Orfeo / ha creato”. Il suo canto / ha scolpito Firenze: / musica, libertà, uguaglianza. / Il centro è diventato periferia / la periferia centro. In ogni / quartiere un luogo per l’incontro / con i popoli del mondo. // Un boato scuote la terra, / un vortice acre di fumo. / Sul silenzio di gelo le parole / di Orfeo alla radio: “I binari / hanno ceduto. Scendiamo / sotto la terra per gettare altre / scorie. Euridice è già al lavoro / i motori di Cerbero accesi” » (pp. 27-28).

Orfeo è un uomo moderno, un politico abile e capace che cerca di mediare attraverso lo scontro delle più disparate ideologie e produrre un’unità reale tra gli uomini. Ma di fronte a Euridice il suo cuore vacilla. Innamorato, cerca di salvarla dal possibile sacrificio richiesto dal progresso umano ma nulla può contro il destino. C’è una speranza, però: alla fine degli scavi e del lavoro rotante di Cerbero forse ritornerà alla superficie. Versione ironica e attualizzata del mito, questo testo poetico conferma la limpidezza usata da Mosi nella costruzione del verso e nel ritmo dello stile poetico (semplicità che non scade, tuttavia, mai nel semplicismo e nell’autoevidenza eccessiva). Essa cerca conferma in una scrittura senza forzature né sovratoni ma in un progetto di rilettura della temporalità del presente che si riannoda al suo sostrato più profondo e alla sua valenza non eludibile di richiamo al passato remoto.

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            Presentazione al Circolo degli Artisti "Casa di Dante"

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sabato 30 luglio 2022

Poesia a Moscheta, nella valle dell'Inferno - Campana, Morini, Scarpelli - La valle e "L' invasione degli storni"

                                      L’invasione degli storni (p. 143-163)

Nell’aria viola del tramonto egli guarda

affiorare da una parte del cielo un pulviscolo 

minutissimo, una nuvola d’ali

che volano. S’accorge che sono migliaia

e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa.

                              Palomar, Italo Calvino

 

Valle dell’Inferno

Il Gigante si scuote dal sonno

si alza vacillando in piedi

le mani alla fronte.

Un lampo illumina la Cupola

il boato squarcia la notte.

Il Palazzo è avvolto dal fumo,

giungono nubi di voci:

“La bomba!”, “Gli Uffizi!”

Il gigante maledice,

gli occhi caverne di fuoco.

La bocca schiuma di bava.

Trema la terra del prato,

si apre il labirinto, cado

come corpo morto cade.

 

La Cornacchia conta gli arrivi

li moltiplica per i numeri primi.

Ad ogni arrivo batte le ali

scrive il nome sulla lavagna.

Gracida contenta, mostra

le gore d’acqua putrida

abitate dal gracidio delle rane.

L’occhio del campanile

di Casetta di Tiara si affaccia

sopra i miasmi della valle.

Il treno attraversa la galleria

nel pulsare delle vene d’acqua,

tremano le radici del bosco.

Il cervo scappa spaventato

sul fianco la ferita di uno sparo.+







Il Terzo Paesaggio invade 

la casa di Ivo Morini












 


Omaggio a Dino Campana e Sibilla Aleramo



"La valle dell'Inferno" 

da

"L'invasione degli storni"




- L’invasione degli storni -

1. Valle dell’Inferno

La cornacchia conta gli arrivi (ROBERTO)

li moltiplica per i numeri primi.

Ad ogni arrivo batte le ali

scrive il nome sulla lavagna.

Gracida contenta, mostra

le gore d’acqua putrida

abitate dal gracidio delle rane.

L’occhio del campanile

di Casetta di Tiara si affaccia

sopra i miasmi della valle.

La macchina cattura immagini

a misura dell’occhio digitale.

Il treno attraversa la galleria

nel pulsare delle vene d’acqua,

tremano le radici del bosco.

Il cervo scappa spaventato

sul fianco la ferita di uno sparo.


Il Gigante si scuote dal sonno (RENATO)

si alza vacillando in piedi

le mani alla fronte.

Un lampo illumina la Cupola,

il boato squarcia la notte.

Il Palazzo è avvolto dal fumo,

giungono nubi di voci:

La bomba!”, “Gli Uffizi!”

Il Gigante maledice,

gli occhi caverne di fuoco.

La bocca schiuma di bava.

Trema la terra del prato,

si apre il labirinto, cado

come corpo morto cade.


L’acqua canta tra il muschio (GIULIA)

dei massi, si disperde in correnti,

si compone in pozze

sommerse dai cespugli.

Gabriella, coronata di luce

nella radura mostra la strada

che dalla valle sale

per i fianchi della montagna.

Sopra la cima dei castagni

la vertigine delle rocce,

colonne aeree di una cattedrale

aperta sul candeggiare del cielo.

Mi perdo in questi boschi

- le parole di Dino - ritrovo

il centro di me stesso tra i fumi

della Follia. Casetta di Tiara

oltre i fianchi della valle,

approdo per l’incendio d’amore.”


Le rocce parlano dell’essere (Roberto)

le acque giocano con l’apparire.

Le piene dell’inverno trascinano

pupazzi bianchi caduti dal cielo.

Sulle camicie ricamate, Libertà

Uguaglianza Fraternità

si disfano, approdano sui massi.

Immagini di pietra alle pareti,

ideologie sedimentate:

ora il volo libero del gabbiano

ora colonne fino alle guglie

della cattedrale attraversate

da oriente a occidente

da armenti ricamati di nuvole,

guidati dal fantasma della Ragione.


La Ragione sposò il Progresso (Renato)

si unì alla Giustizia Sociale,

bambini rossi sono nati

sono cresciuti bambini rossi

dispersi dalle piene del fiume.

E’ strana la sera di Mosca

suona il carillon della Piazza,

Mezzanotte a Mosca”, brilla

la stella rossa sul Cremlino,

vibrano bandiere rosse, rosse

al vento sulle mura, sventolano

all’aeroporto di Mosca.

S’illumina la stella rossa sopra

la Casa del Popolo all’Impruneta,

resiste al maglio della Storia.


Congestione di rifiuti urbani (Roberto)

nelle discariche a cielo aperto,

i topi si tengono per la coda

fanno festa gabbiani in volo

gatti impigriti dal grasso.

Ogni rifiuto giunge alla meta

differenziato per contenitore,

la Coscienza divide i rifiuti.

Umido organico: scarti

di cucina, erbe del prato.

Carta e cartone: giornali,

libri, fumetti, quaderni.

Plastica: bottiglie d’acqua,

involucri, piatti, sacchetti.

Vetro: vasetti, brocche,

specchi, lampade, bicchieri .

Mondo virtuale: baci, amore,

passione, sentimento, emozione.


La lucciola abbandona (Giulia)

lo sciame per baciare il led

pulsante di luce rossa,

ronza intorno al blackberry.

Nella gora putrida d’acqua

frammenti dell’uomo digitale

bit byte zero uno zero uno

individui scissi in frammenti,

tele comando nella testa:

consenso ordine sicurezza.


Nella prima pagina il vincitore, (RENATO)

la foto dello spaventapasseri.

In ordine, cristalli di zolfo

fotografie di guerra

ampolle putride d’acqua.

Per ogni foglio l’eco di un canto:

Alla mattina, appena alzata”,

Debout, les damnès de la terre!

Debout, les forçats de la faim!”

Il canto svanisce

nel silenzio di pagine bianche.


La cornacchia sfoglia (Giulia)

le pagine, scuote la testa

mi spinge fuori dalla valle.

La cascata sbarra il sentiero

l’acqua scende fragorosa.

Salto tra le onde, sui massi

in cerca della via d’uscita.

Scopro la grotta oltre il salto

dell’acqua, Gabriella mi porge

la mano: “Dopo la valle

scoprirai il tempo dell’Attesa.”

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Disegno di Enrico Guerrini

 



In ricordo del poeta 

Natale Scarpelli








Estate 2022 "Barche Amorrate", Dino Campana




La Badia di Moscheta