giovedì 23 febbraio 2017

Alla Camerata dei Poeti l'Antologia "Poesie 2009- 2016"


 E’ stata presentata il 15 febbraio al’Auditorium della Cassa di Risparmio l’Antologia “Poesie 2009-2016” di Roberto Mosi (pubblicata recentemente da Ladolfi Editore) in occasione della 6° Tornata dell’87° anno accademico.
         La presentazione ha avuto luogo davanti a un numeroso pubblico, nell’ampia sala impreziosita da alcuni disegni di Enrico Guerrini, pittore che ha seguito in molteplici incontri con le proprie opere il percorso poetico degli ultimi sette anni dell’autore, ripreso nelle pagine dell’Antologia. 

         Ha introdotto l’iniziativa il presidente della Camerata dei Poeti, Carmelo Consoli:
“Roberto Mosi lega indissolubilmente l'immagine al verso – ha esordito - il visibile nella sua accesa realtà alla successiva trasmutazione poetica, come se egli fosse toccato da una esigenza impellente di trasfigurare nella sua mente ogni percorso quotidiano ed esistenziale, sia suo che della società che lo circonda.
            E così facendo rappresenta nella sua poesia il moderno homo viator coinvolto nelle proprie peregrinazioni esistenziali dentro ai mutevoli percorsi del dolore, della felicità, dei sogni, del disincanto all'interno di quelli che il poeta definisce inonluoghi”  e dell'incanto di quelli invece del “mito” ossia della pura bellezza e di accesso alla divinità.
            Crea quindi sia con la sua camera mobile( egli è anche un abile fotografo) che con la sua parola suggestivi itinerari poetici che sono l'espressione dei travagli e delle aspirazioni di una società contemporanea vista nelle molteplici sfumature della sua dinamicità comportamentale.” 

“Leggere questo libro – ha concluso Carmelo Consoli - oltre che darci la possibilità di comprendere bene la poetica dell'autore nel tempo è come partire per un viaggio di infinite tappe in cui stupirsi, perdersi, indignarsi, esaltarsi, essere preda di quelle tante emozioni del cuore e dell'anima  che hanno attraversato il nostro poeta nella sua lunga ricerca umana e spirituale della vicenda esistenziale.” 

Andrea Pericoli ha letto alcune poesie dalle parti che compongono l’Antologia, dai “Nonluoghi” a “Florentia” a “Viaggi”, da “Aquiloni” a “L’Invasione degli storni”. L’autore ha interpretato alcune poesie dal capitolo dell’Antologia “Luoghi del Mito”, accompagnato dalla chitarra solista di Franco Margari e dalla chitarra ritmica di Angiolo Pergolini (si veda il video youtube : https://youtu.be/4E0NOxhRs4g) .

         Prima dell’avvio dell’incontro il presidente della Camerata dei Poeti ha posto alcune domande a Mosi sulle scelte alla base dell’Antologia, registrate dal video youtube: https://youtu.be/1lXXE9X4VLo .

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Incontro: Maurizio Cucchi e Alberto Bertoni a Villa Arrivabene

 
         Villa Arrivabene, Firenze 10 febbraio 2017 - Appunti di Anna Maria Volpini

            Presenta Francesco Stella che ricorda altri incontri con il poeta Maurizio Cucchi e con lo scrittore Alberto Bertoni più volte ospiti di Semicerchio. Poi prende la parola Bertoni e dice che presentare questo volume “POESIE 1963-2015” Oscar Mondadori del 2016, è una grande occasione che gli permette di esplorare a fondo tutte le tematiche di questo poeta. Nel suo saggio introduttivo Bertoni per definirlo usa questa frase “è un vero classico della modernità”, volendo significare che è più di un importante poeta perché per lui è l’ultimo dei classici. Cucchi ha una lunga storia editoriale che inizia quando pubblica “Paradossalmente e con affanno: trentatré poesie, Milano, 1971”, cui fa seguito dopo qualche anno il secondo libro di poesie Il disperso” (Mondadori 1976, poi ripubblicato con alcune varianti da Guanda nel 1994). Questo è un libro giovanile, già articolato e complesso, dove possiamo leggere una lingua poetica nuova ma fortemente comunicativa, e che è stato decisivo per le vicende storiche della nostra poesia. In seguito pubblica “Le meraviglie dell’acqua” (Mondadori 1980), e “Glenn” (San Marco dei Giustiniani 1982, Premio Viareggio 1983).     
                                                                                 
                  Glenn è la prima delle sue maschere allegoriche (Glenn come il nome dell’attore hollywoodiano o come il famoso cosmonauta americano) e in questo libro porta la poesia in una dimensione allegorica. L’io è un io che non s’identifica con la persona autobiografica ma che agisce su diversi piani storici, che può raccontare aneddoti della vita privata ma anche inventarli. Cucchi è un poeta con molti libri di poesia diversificati ma è anche un prosatore. Infatti, specialmente dal 1970 in poi, quando non ha più senso tenere “steccati“ di generi, lui come tanti altri autori si cimenta con libri di narrativa: “Il male è nelle cose” (Mondadori, 2005), “La traversata di Milano” (Mondadori, 2007), facendo intendere la scrittura come un viaggio, come un camminare. Esplora la sua Milano camminando a piedi, un modo che può sembrare anacronistico ma che gli serve per farci ritrovare delle tematiche dominanti. Abbiamo, infatti, quella del realismo profondo, quella descrittiva, la dominante della luce e delle ombre (che ricorda i quadri del Caravaggio) e quella onirica, liquida, acquatica, amniotica e anche piovosa. Nelle sue poesie usa una metrica molto variegata e il verso libero ha una profonda necessità ritmica che rivela, a volte, un realismo fotografico e cinematografico come se ci fosse una macchina da presa con primi piani assoluti e con sfondi e paesaggi.           
                                                                                                                                   Troviamo in Cucchi varie dimensioni e una è quella che lo incardina perfettamente in una scuola milanese perchè qualunque fatto storico letterario ha anche una collocazione geografica. Questa scuola milanese che nasce con Parini, prosegue poi con altri autori come Carlo Porta (Milano, 15 giugno 1775 – Milano, 5 gennaio 1821 un poeta italiano, nato a Milano sotto la dominazione austriaca. È considerato il maggior poeta in milanese), arrivando fino al nostro ‘900 con Giovanni Giudici e Antonia Pozzi, con Vittorio Sereni e Giovanni Raboni e anche con l’ultimo Montale.                                                                                                                                                                 Un'altra dimensione importante è quella dell’anno di nascita, il 1945, che lo fa appartenere alla generazione dei nati all’indomani della seconda guerra mondiale, di chi si lascia le esperienze belliche alle spalle e si avvia verso il periodo storico della ricostruzione, di chi cresce tra i fervori del boom economico e del ’68 cui appartengono anche Giuseppe Conte e Dario Bellezza, poeti con cui è entrato in dialogo diretto.                                                                                                            Un’importante tematica che possiamo ritrovare nella raccolta Il disperso è quella del padre, non solo una figura di padre biografico ma molto di più. Si può intendere come un elemento che, pur seguendo una linea della cultura psicanalitica mostra sia le proprie contraddizioni interiori sia anche un forte senso onirico. E’ una raccolta che si può addirittura leggere come un canzoniere di cui ha la densità tanto da farlo risalire fino alle origini petrarchesche, ma che diventa anche un romanzo perchè ne possiede tutte le libertà interiori.      
    
                                                                                                                                                 Un’altra peculiarità di questo poeta è di appartenere al secondo ‘900 un periodo molto oscuro per la poesia: nonostante quest’oscurità lui riesce a essere comunicativo, senza essere banalmente informativo o melodico, e leggerlo è un’avventura dello spirito che arricchisce molto l’interiorità dei lettori.

            Cucchi prende la parola e, prima di declamare dalla raccolta Il disperso la poesia “Coincidenze” del 1973, precisa che ogni riferimento alla figura di suo padre è un’esemplificazione banale.  E’ vero che ognuno trae ispirazione dalla propria esperienza ma questa può essere anche una condizione fantastica se non addirittura onirica. A volte, leggendo, la consequenzialità del discorso può essere sfuggente ma quando incontriamo una narrazione sempre franta, sono proprio le infrazioni e le interferenze all’interno di un discorso che creano una maggiore energia e una maggiore produzione di senso, fuori da un percorso logico cui siamo stati educati. E se ci liberiamo di certi ingombri, possiamo avere delle reazioni e delle emozioni maggiori.                                                                                                                       NOTA: non sono riuscita a trovare su Internet tutte le poesie lette, di alcune trascrivo solo qualche verso.)                                                                                                                                    Coincidenze “Poveri fantasmi, trame scucite. Ogni tanto                                                                            una frase. Così… un barlume nella compagnia, nel dormiveglia;                                                     buttata là ad illustrare; nella conversazione stenta.                                                                                     In questa poesia ha introdotto una frase di un suo alunno (ha insegnato per sette anni alle scuole medie) che gli era piaciuta molto perché era l’osservazione di un bambino che si interroga senza saperlo sul mondo.                                                                                                                “Sto seduto in giardino, guardo la mia tartaruga: mi domando se anche lei,                                                                                                                                        si sarà accorta che è passata l’estate…”                                                                                                            Spesso gli è capitato di usare parole e frasi che aveva sentito dire dalla gente e una volta copiò in un testo delle frasi che aveva ascoltato mentre faceva un viaggio in treno. Oggi non lo può più fare: la gente parla malissimo e la maggior parte delle volte ripete quello che sente dire alla TV, parla male e non inventa più una lingua perché prima era il popolo che la creava. Rimpiange la perdita di queste possibilità di creazione di un nuovo linguaggio. Oggi le parole appartengono alla lingua sessuale e fecale, spesso sono usate anche impropriamente e i romanzieri che le usano troppo spesso o a sproposito sono scrittori da poco. Può succedere che la stessa parola se la dico o la scrivo o la canto abbia una valenza diversa perciò se voglio riprodurre la realtà non posso semplicemente copiarla. I romanzieri scadenti quelli che vincono i premi POP (popolari) credono che essere realisti significhi copiare la realtà, mentre ciò non è vero e non si deve fare.                                                                                                                                                                     Cucchi col passare del tempo ha un po’ cambiato registro a proposito della liricità perchè quando era giovane la lirica, si doveva togliere dalla poesia. Però una volta andò ad ascoltare la presentazione di un libro e capì invece che la lirica bisogna recuperarla e a ben guardare tanti grumi nel brano che ha letto, sono tutti di ordine lirico. In seguito trattò la tematica dell’amore e le poesie d’amore sono le più praticate ma le più difficili da fare.                                                                                                               Da “Le meraviglie dell’acqua” legge “Stazione paradiso”, alcuni testi, dove si ritrova la “gabbia” di una struttura classica e, infatti, sono poesie di tre quartine.                                                                           “Dipingerò come il cinese anch’io                                                                                                                                   la morte del fiore sulla terracotta                                                                                                                                     con un tratto lieve sul bianco candido                                                                                                       della tazza: ultimo meccanico
 approccio…”   
            Legge poi da “ La poesia della fonte “ le “Lettere di Carlo Michelstaedter
Vi siete accorti, dal modo come scrivo,
che ho molto sonno…
Però non mi lasciate senza lettere,
scrivetemi, vi supplico…
Sarò calmo e normale,
ma che angoscia il distacco, non è vero?
E tu, mamma, non puoi non esserne contenta:
sono con tutti allegro, sempre,
sono stato sincero con voi,
sono sempre lo stesso…
Ma le strade hanno in fondo
come una nebbia dorata e gli occhi
non vedevano che buio da ogni parte…
È un incubo d’inerzia faticosa,
l’inerzia nemica delle cose…
Il porto è la furia del mare,
Vi bacio, miei stronzetti adorati.
            Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 giugno 1887 e muore suicida per un colpo di rivoltella, sempre a Gorizia, il 17 ottobre 1910. Nell'arco dei suoi ultimi cinque anni, elabora la tesi di laurea “La persuasione e la retorica” e affianca agli studi universitari la composizione di saggi, racconti e poesie. Michelstaedter ha scritto molto, sperimentando diversi generi letterari.  Questo nucleo è costituito dalla riflessione sul rapporto tra individuo, vita e morte. Cucchi ha letto tutti i suoi scritti e rimanendo molto impressionato ha composto quella poesia usando le sue parole e le sue frasi. Resta però il fatto che questo testo, anche se è un collage, risulta un’opera assolutamente originale. Per quanto riguarda il suicidio Cucchi azzarda questa ipotesi: la percezione del non esserci più aveva talmente travolto il giovane che non è riuscito ad affrontare questa situazione e così si è suicidato.
            Poi legge una prosa davvero bellissima “E’ un’ora così bella di tarda mattina che vorrei essere meglio nel mondo, esserci dentro con più vita, con maggiore naturalezza … mi piace esserci, vivere. Mi piace.” e scrivendola ha voluto fare qualcosa che oltrepassasse un determinato genere letterario perchè la poesia può essere in grado di riassumere in sé la narrazione, la tensione lirica, la riflessione. Quando si riesce ad attenersi alla ossessiva economia della parola, rendendosi conto che ogni minimo dettaglio produce senso, quando la parola è pregnante non importa che sia scritta in versi o in prosa e ci può essere scrittura poetica al di là della versificazione: pure Leopardi diceva che il verso non è indispensabile alla poesia. Cita “Gaspard de la nuit” di Aloysius Bertrand (20 aprile 1807Parigi 29 aprile 1841)  Un poeta francese nato a Ceva, in Piemonte, da un ufficiale napoleonico e da madre italiana che rimase in Italia fino al 1815, quando il padre si ritirò a Digione. Qui compì gli studi (1826) e cominciò ad interessarsi di letteratura. Considerato l'inventore del poema in prosa, è l'autore di un'opera unica e postuma passata alla posterità, Gaspard de la Nuit (1842). Riconosciuto come un poeta maledetto, diverrà l'ispiratore di Charles Baudelaire il quale confesserà che la tentazione di scrivere “Le Spleen de Paris” gli venne dopo aver letto molte volte quel libro, opera da lui molto ammirata, come lo sarà, più tardi, dai surrealisti. Un volume interessante, un libro scritto ai primi dell’800 in una prosa poetica, narrativa e lirica allo stesso tempo, realizzata con piccoli blocchetti di prosa e cioè raccontini su varie situazioni, di tre o quattro righe e di poesie. Non è interessante per quello che dice ma perché è riuscito a introdurre una novità formale che potrebbe essere utilissima anche per noi oggi.                                                                                                                              
          Poi fa una riflessione sulla struttura della versificazione avendo sempre tenuto molto al fatto che ogni verso avesse una sua necessità. Il verso deve poter avere una consistenza reale e forte, non può essere un punto di passaggio vuoto. Anche l’andare a capo deve avere una sua necessità, deve avere un suo potente significato perché è lì che s’introduce il silenzio. Il verso non deve corrispondere all’unità di senso logico e grammaticale del testo. Per esempio: gli attori quando recitano un copione non necessariamente scandiscono la loro recitazione secondo l’unità di senso perchè magari, volendo sottolineare una parola, fanno un attimo di sospensione, una pausa. La poesia quando usa il verso libero dovrebbe seguire questo tipo di movimento, dovrebbe sottolineare e giustificare la musica d’insieme e non limitarsi agli accenti e alla quantità.
            Prima di leggere un altro testo da “Poesia della fonte” racconta un aneddoto che riguarda due visite che aveva fatto alla casa del Petrarca ma non essendo mai riuscito ad entrare perché l’aveva sempre trovata chiusa, allora gli venne da pensare “Forse il Petrarca mi vuole punire perché non l’ho amato abbastanza”. Considera questo poeta un genio assoluto che ha creato una lingua, inventandola, una lingua che arriva fino ad oggi con tutti i secoli che sono passati, con una limpidezza e una grandezza mostruosa e che ha inventato la lirica di tutti secoli successivi.                                                                                                                                                                        Cita il verso“Passa la nave mia colma d’oblio”. Ogni volta che incontra versi come questi gli vengono i brividi e rimane annichilito dalla meraviglia. Col passare del tempo la stima per il Petrarca gli cresce sempre di più e spesso gli viene da pensare che l’uomo non è solo cattivo ma ha risorse straordinarie verso il bene e la bellezza che in un certo senso lo consolano di tutte le brutture che oggi ci circondano, ci assillano e ci asfissiano.
Salire e infossare lo sguardo:
nel cupo ci dev'essere un punto geometrico,
fra questi blocchi di pietra
e questa spaccatura e ogni volta
appare, sgorga, va e allora è
come se fosse incessantemente
nel chiuso della valle.
  
Sul tetto di roccia strapiombano
le rovine dell'ospite.
Io mi incammino tra i passeggeri e i vigili
in nulla differente divisibile.
Però cerco una fonte che sia solo mia.

Qui parlo per me
senza schermo o figura
e mi basto com'ero:
questa sola radice ricoperta di terra.

Forse la fonte è una frase,
una domanda spaccata, una figura
che copre un'altra figura
e un'altra ancora.
Ma non all'infinito.

Infine venga al sole sgominando
tra due attimi altissimi.
I miei volti abolisca,
luce nella luce
Ho bussato per la seconda volta
alla piccola casa del poeta.
Alle spalle un verde senza roccia,
acque rimaste dolci
e quasi una pianura.
Mi respinge, pensavo,
per non averlo abbastanza amato.

Nell'imbrunire tornavo a crogiolarmi
e la mia luna era l'elogio dell'oblìo.

Da “L’ultimo viaggio di Glenn” legge questo testo :                                                                                        
Glenn, come lo chiamavo nella mia mente io,
o com'è più dolce e semplice
com'è più vero:
Luigi.
Resti per me una crepa d'affetto
o un lampo intermittente nel cervello.
E anche tu, che non l'hai mai visto,
lo ami.
Tu che hai taciuto, e oggi non taci più,
hai la memoria smangiata come la tua macula:
cerchi e non trovi più
nemmeno la sua voce.
  
Facevo il viale: per arrivare al campo.
Attorno, uomini coi badili,
e io piangevo poco.
Ma davanti alla scatola col tuo vago sorriso,
bellissimo, con la camicia scura aperta
e il distintivo del ferito,
il gelo mi è venuto dentro.
<<Cosa vuoi che ti dica?>> ho fatto allora
con le mie rose in mano e con paura,
<<forse è già il tempo dell'indifferenza>>
Forse sono decotto, forse io stesso,
sono solo memoria di me stesso.

 Lui se ne andò gettandoci
nell'improvviso smarrimento.
In un sacchetto della polizia,
ecco gli assegni, il pettine,
la benda per il polso...

Ciao, dico adesso senza più tremare.
Io ti ho salvato, ascoltami.
Ti lascio il meglio del mio cuore
e con il bacio della gratitudine,
questa serenità commossa.

            Alla domanda di spiegare meglio cosa intende con la frase ”è un classico della modernità”, Bertoni fa questa precisazione e spiega che Cucchi è qualcosa di più di un poeta importante, che c’è una differenza e una distinzione tra la persona (che può essere un amico o un’amica) e la realtà testuale che è soggetta al tempo, giudice inappellabile per qualunque produzione artistica. Continua dicendo che ogni giorno legge una o più poesie di vari autori e quando ha più tempo legge e rilegge anche i loro libri e trova che ci possono essere punti di caduta e tanti difetti. Alcuni hanno libri meravigliosi ma unici, invece non trova in Cucchi punti di caduta e ogni suo libro è migliore dell’altro: il Disperso è uno dei più grandi libri del ‘900. Lui sa considerare e vivere e praticare la poesia con una sorta di perno che ruota con la vita quotidiana e con altre arti come la narrativa, la musica, la pittura e il cinema. Importante è il suo rapporto rispettoso con chi è venuto prima e con cui ha avuto sempre un dialogo. Per esempio sono molto importanti i suoi rapporti con i grandi maestri della cultura francese ma anche con quelli italiani come Montale, Sereni, Giudici, Raboni e succede che, pur avendoli frequentati così da vicino, lui non abbia mai perso la propria voce. Data anche la sua forte cultura storica si può ben definire l’ultimo dei classici.
            Alla domanda “Quanto lavora un poeta sull’unità libro per creare una raccolta che abbia unità di significato?” Cucchi risponde che gli è sempre sembrata un’ottima idea pensare un libro come un organismo e non solo un repertorio di testi. Questa è assolutamente un’idea del ‘900 e la trova straordinaria perca in un percorso di scrittura ci sono sempre richiami, simmetrie e ci deve essere un’architettura, dove ogni elemento deve trovare il suo spazio e il suo tempo e non limitarsi a essere una sequenza di testi magari messi in ordine cronologico. Di ogni cosa di cui siamo autori, dobbiamo essere responsabili e ciò che spinge a dire una parola, a usare un’immagine piuttosto che un’altra, a introdurre un qualsiasi dettaglio, tutto deve essere motivato. La grandezza dell’arte deve essere motivata dalla necessità di farlo. Quando era ragazzo faceva il confronto tra la Nuova Avanguardia degli anni ’60 e gli autori della scuola milanese come Sereni, Giudici, Raboni, Tiziano Rossi e trovava che questi ultimi avevano portato una innovazione nel linguaggio e nella forma senza volerlo fare, invece leggendo i testi degli scrittori della Nuova Avanguardia scoprì che il loro progetto era quello di intervenire sulla lingua e sulla forma diventando così un’operazione letteraria.                                                                 Avanguardia è la denominazione attribuita ai fenomeni del comportamento o dell'opinione intellettuale, soprattutto artistici e letterari, più estremisti, audaci, innovativi. In Italia abbiamo un primo periodo che parte dal 1956, anno in cui fu fondata la rivista Il Verri e pubblicata l'opera di Edoardo Sanguineti Laborintus, che termina nel 1962. Nel secondo periodo si delimita il momento di maggior forza del Gruppo 63 con Angelo GuglielmiAlfredo GiulianiRenato BarilliUmberto Eco e Alberto Arbasino che cercarono di modificare il rapporto tra linguaggio e letteratura decretando il primato del primo nella costruzione dei significati di un testo. Cucchi non voleva fare nessuna operazione letteraria però quello che lo aveva preceduto era stato di così grande livello che certo lo ha influenzato. Comunque è molto contento di sentirsi parte di quell’insieme di scrittori che sanno produrre opere altissime, è contento di aver dedicato tutta la sua vita alla poesia e, anche se pensa di non esserci riuscito in pieno, l’intenzione era buona. Poi ricorda Guido Cavalcanti e il verso “Perch’i non spero di tornar giammai” un verso addirittura sublime che gli pare rappresenti l’epitaffio dell’intera umanità.
            Alla domanda “C’è una poesia che gli ha fatto scattare l’innamoramento verso questo genere?” risponde di sì. Infatti quando aveva circa 16 anni andava alla biblioteca americana USIS dove davano in prestito libri di autori stranieri e lui lesse una poesia di Eliot che gli piacque moltissimo e che gli fece capire che ciò che sentiva oscuramente dentro di sé poteva diventare materia di poesia. Infatti pensa che qualunque elemento dell’esperienza e del linguaggio se l’autore è capace di reggerlo può diventare materia di poesia. Oltre a Eliot in quel periodo lesse Pound, i narratori americani, Kafka e capì non solo la bellezza della poesia ma anche l’importanza di avere maestri e polemizza con chi dice che non serve avere un padre: questo per lui non è vero perché avendolo perso molto presto ne ha sentito sempre la mancanza.                                                                                                                                                               Parla poi di Caproni, un poeta che ha personalmente conosciuto e che era una persona semplice ma grande e pur consapevole dei propri limiti. Nelle raccolte “Il seme del piangere” e “Annina” riesce a utilizzare elementi linguistici nuovi con estrema impeccabilità e nel suo ultimo libro ”Il muro della terra” del 1975 introduce una modalità espressiva completamente nuova per lui e per la nostra letteratura. E’ impressionante il suo senso musicale della parola e Cucchi fa una distinzione tra musica, intesa come matematica associata al suono con fortissima e fondamentale precisione, e musicalità che invece può essere semplice cantabilità. 
ANCH’IO                                   Ho provato anch'io.
È stata tutta una guerra
d'unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.                                                                                                                                                            (
da Il muro della terra, Garzanti, 1975)
            Parla poi quei poeti nati negli anni 10 del novecento che comprendono Caproni1912, Luzi1914, Bertolucci1911, Sereni1913, Bellintani1914, cioè quella generazione bersagliata dalla storia che hanno attraversato la prima guerra mondiale quando erano piccoli, il ventennio fascista da giovani e infine furono coinvolti nella seconda guerra mondiale. Nonostante ciò quella generazione ne venne fuori con una robustezza morale che consentì loro di migliorarsi, di inventare nuovi linguaggi e rinnovarsi fino all’ultimo. Avere la possibilità di leggere e rileggere le loro opere è sempre un’emozione grandissima. A volte ci sono testi del passato che deludono, si sente che sono datati, mentre altri testi riescono migliorati.                                                                                            Cucchi conclude il suo incontro dicendo che, come un vasaio che sa far bene i vasi, il poeta deve essere capace di far bene il suo mestiere.
Maurizio Cucchi è nato a Milano, dove vive, il 20 settembre 1945. È consulente editoriale e pubblicista. Collabora attualmente al quotidiano “La Stampa”. Ha pubblicato questi libri di poesia: Il disperso (Mondadori 1976 e Guanda 1994), Poesia della fonte (Mondadori 1993. Premio Montale), L’ultimo viaggio di Glenn (Mondadori 1999), Poesie 1965-2000 (Mondadori, 2001), Per un secondo o un secolo (Mondadori, 2003), Jeanne d’Arc e il suo doppio (Guanda, 2008, ) Vite pulviscolari (Mondadori, 2009). Malaspina (Mondadori, 2014).                                                                                                                                                                                   Ha inoltre curato un’antologia di Poeti dell’Ottocento (Garzanti 1978), il Dizionario della poesia italiana (Mondadori 1983 e 1990), ha tradotto un'antologia di Fiabe lombarde (1986) e con Stefano Giovanardi, l’antologia Poeti italiani del secondo Novecento (Mondadori 1996). In prosa ha scritto: Il male è nelle cose (Mondadori, 2005), La traversata di Milano (Mondadori, 2007), La maschera ritratto (Mondadori, 2011). ) Ha diretto per due anni la rivista “Poesia” (1989-1991), ha tradotto dal francese opere di vari autori tra cui Stendhal, Flaubert, Lamartine, Villiers-de-I’Isle Adam, Valéry.   

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