sabato 25 dicembre 2021

"SHINE", la mostra di Jeff Koons a Palazzo Strozzi


 Dal 2 ottobre 2021 al 30 gennaio 2022 Palazzo Strozzi ospita una nuova grande mostra dedicata a Jeff Koons, una delle figure più importanti e discusse dell’arte contemporanea a livello globale. A cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro, la mostra porta a Firenze una selezione delle più celebri opere di un artista che, dalla metà degli anni Settanta a oggi, ha rivoluzionato il sistema dell’arte internazionale.



Sviluppata in stretto dialogo con l’artista, la mostra Jeff Koons. Shine ospita prestiti provenienti dalle più importanti collezioni e dai maggiori musei internazionali, proponendo come originale chiave di lettura dell’arte di Jeff Koons il concetto di “shine” (lucentezza) inteso come gioco di ambiguità tra splendore e bagliore, essere e apparire.

Autore di opere entrate nell’immaginario collettivo grazie alla capacità di unire cultura alta e popolare, dai raffinati riferimenti alla storia dell’arte alle citazioni del mondo del consumismo, Jeff Koons trova nell’idea di “lucentezza” (shine) un principio chiave delle sue innovative sculture e installazioni che mirano a mettere in discussione il nostro rapporto con la realtà ma anche il concetto stesso di opera d’arte. Le opere dell’artista americano pongono lo spettatore davanti a uno specchio in cui riflettersi e lo collocano al centro dell’ambiente che lo circonda. Come afferma lo stesso Koons: “Il lavoro dell’artista consiste in un gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte”.



La mostra è promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi. Sostenitori: Comune di Firenze, Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze, Fondazione CR Firenze, Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi. Main partner: Intesa Sanpaolo.



Jeff Koons nasce nel 1955 a York, Pennsylvania. Ha studiato al Maryland Institute College of Art di Baltimora e alla School of the Art Institute di Chicago. Vive e lavora a New York.

Dalla prima mostra personale nel 1980, le sue opere sono state esposte nelle principali gallerie e istituzioni di tutto il mondo. Nel 2014 il Whitney Museum of American Art lo ha celebrato con Jeff Koons: A Retrospective, ospitata poi dal Centre Pompidou di Parigi e dal Guggenheim Museum di Bilbao.


Jeff Koons è noto per opere iconiche come Rabbit Balloon Dog o per la monumentale scultura floreale Puppy (1992), esposta al Rockefeller Center e in seguito installata permanentemente al Guggenheim Museum di Bilbao. L’artista ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il “Distinguished Arts Award” del Governor’s Awards for the Arts dal Pennsylvania Council on the Arts e il “Golden Plate Award” dell’American Academy of Achievement. Nel 2001 il presidente Jacques Chirac lo ha nominato “Officier de la Legion d’Honneur”, e nel 2013 il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton gli ha tributato la U.S Department of State’s Medal of Arts. Nel 2017 è stato il primo ospite nella residenza d’artista Mortimer B. Zuckerman Mind Brain Behavior Institute della Columbia University ed è stato nominato membro onorario della Edgar Wind Society dell’Università di Oxford. Dal 2002 è membro del Board dell’International Center for Missing & Exploited Children (ICMEC), ed è co-fondatore del Koons Family International Law and Policy Institute, istituzioni che si prefiggono di contrastare lo sfruttamento dei minori e la protezione dell’infanzia a livello globale.


Tra le sue mostre più recenti: Jeff Koons: Absolute Value. Selected works from the Collection of Marie and Jose Mugrabi (Tel Aviv Museum of Art 10 marzo 20​20-​3 aprile 2021), Appearance Stripped Bare: Desire and Object in the Work of Marcel Duchamp and Jeff Koons, Even (Museo Jumex, Mexico City 19 maggio-29 settembre 2019), Jeff Koons at the Ashmolean (Ashmolean Museum, Oxford 7 febbraio-9 giugno 2019) e Jeff Koons: Mucem. Works from the Pinault Collection (Mucem, Marsiglia, 19 maggio-18 ottobre 2021).



























mercoledì 22 dicembre 2021

"Presso il Bisenzio", Mario Luzi - Dalla Raccolta "Nel Magma" 1963


 

Mario Luzi, Presso il Bisenzio

(Nel magma, 1963)

.


La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia

e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro

non so se visti o non mai visti prima,

pigri nell'andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.




Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,

mi si fa incontro, mi dice: Tu? Non sei dei nostri.

Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta

quando divampava e ardevano nel rogo bene e male".

Lo fisso senza dar risposta nei suoi occhi vizzi, deboli,

e colgo mentre guizza lungo il labbro di sotto un'inquietudine.

Ci fu solo un tempo per redimersi qui il tremito

si torce in tic convulso o perdersi, e fu quello.

Gli altri costretti a una sosta impreveduta

dànno segni di fastidio, ma non fiatano,

muovono i piedi in cadenza contro il freddo

e masticano gomma guardando me o nessuno.

Dunque sei muto? imprecano le labbra tormentate

mentre lui si fa sotto e retrocede

frenetico, più volte, finché‚ è là

fermo, addossato a un palo, che mi guarda

tra ironico e furente. E aspetta. Il luogo,

quel poco ch'è visibile, è deserto;

la nebbia stringe dappresso le persone

e non lascia apparire che la terra fradicia dell'argine

e il cigaro, la pianta grassa dei fossati che stilla muco.

E io: E' difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino

per me era più lungo che per voi

e passava da altre parti Quali parti?

Come io non vado avanti,

mi fissa a lungo ed aspetta. Quali parti?

I compagni, uno si dondola, uno molleggia il corpo sui garetti

e tutti masticano gomma e mi guardano, me oppure il vuoto.

E' difficile, difficile spiegarti.

C'è silenzio a lungo,

mentre tutto è fermo,

mentre l'acqua della gora fruscia.

Poi mi lasciano lì e io li seguo a distanza.



.

Ma uno d'essi, il più giovane, mi pare, e il più malcerto,

si fa da un lato, s'attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi

mentre seguo lento loro inghiottiti dalla nebbia. A un passo

ormai, ma senza ch'io mi fermi, ci guardiamo,

poi abbassando gli occhi lui ha un sorriso da infermo.

O Mario dice e mi si mette al fianco

per quella strada che non è una strada

ma una traccia tortuosa che si perde nel fango

guardati, guardati d'attorno. Mentre pensi

e accordi le sfere d'orologio della mente

sul moto dei pianeti per un presente eterno

che non è il nostro, che non è qui né ora,

volgiti e guarda il mondo come è divenuto,

poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,

non la profondità, né l'ardimento,

ma la ripetizione di parole,

la mimesi senza perché né come

dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine

morsa dalla tarantola della vita, e basta.

Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze,

e non senti che è troppo. Troppo, intendo,

per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,

giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza umiliante.

 


Ascolto insieme i passi nella nebbia dei compagni che si eclissano

e questa voce venire a strappi rotta da un ansito.

Rispondo: Lavoro anche per voi, per amor vostro.

Lui tace per un po' quasi a ricever questa pietra in cambio

del sacco doloroso vuotato ai miei piedi e spanto.

E come io non dico altro, lui di nuovo: O Mario,

com'è triste essere ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,

né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende.

Lascio placarsi a poco a poco il suo respiro mozzato dall'affanno

mentre i passi dei compagni si spengono

e solo l'acqua della gora fruscia di quando in quando.

E' triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo

e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,

ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte.

E lui, ora smarrito ed indignato: Tu? tu solamente?

Ma poi desiste dallo sfogo, mi stringe la mano con le sue convulse

e agita il capo: O Mario, ma è terribile, è terribile tu non sia dei nostri.

E piange, e anche io piangerei

se non fosse che devo mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti.

Poi corre via succhiato dalla nebbia del viottolo.

.


Rimango a misurare il poco detto,

il molto udito, mentre l'acqua della gora fruscia,

mentre ronzano fili alti nella nebbia sopra pali e antenne.

Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,

mi dico, potranno altri in un tempo diverso.

Prega che la loro anima sia spoglia

e la loro pietà sia più perfetti. 


 

******

 

A Vittorio Sereni, che pubblicò su “Questo e altro” la prima serie di testi il 25 marzo 1963:

 

Caro Vittorio,

 

ecco dunque i versi. Quando li avrai letti capirai perché ho aspettato tanto a decidermi a riprenderli

in mano e copiarli. Sono stato trascinato a scriverli al di là di ogni ragionevole previsione. A

rileggerli sono rimasto di nuovo sottilmente stregato. Non li conosce nessuno. Io stesso non ho

termini di confronto per giudicarli: se sono uno sviluppo interno di certi atteggiamenti e nuclei

anteriori, o debba considerarli davvero come un’intuizione medianica sull’ordine del mio lavoro.

Ma intanto mi hanno prospettato certi modi di cui non potrei forse più fare a meno. La seconda di

queste composizioni (“Tra le cliniche”) forse non è necessaria, voglio dire non serve veramente

all’insieme. Te la mando perché è stata scritta nello stesso spirito e in quell’ordine. Dopo avermi

detto sinceramente quel che pensi di queste pagine (e attendo il tuo giudizio con vera trepidazione),

nel caso che il tutto ti sembri qualcosa, deciderai tu di quel particolare. Con molto e vivo affetto, il

tuo


***


Vittorio Sereni a Mario Luzi, Milano 5 maggio 1963:

[_] Ricorderai che volevo scriverti più a lungo per le poesie. Non ce l’ho fatta, non ce la faccio

nemmeno ora. Ripeto che ne sono stato ammirato, ma non è vero solo questo: confesso di esserne

rimasto sconvolto. Aggiungo che sono entrato in crisi – non benefica, in quel momento; forse

benefica a distanza – non perché sentivo che avevo a che fare con uno più “bravo” di me, ma perché

inopinatamente quell’uno aveva “già fatto”, dimostrava d’aver fatto organicamente, qualcosa di

molto simile a quello che io vedevo, per me, come naturale sbocco o conclusione dei miei tentativi.

Pensa a come eravamo “diversi”, pur se affettivamente vicini, nel ’40, ancora dopo il ’45 e pensa ad ora. Se


non addirittura sullo stesso terreno, siamo su terreni straordinariamente simili. Dicevo una

volta sbrigativamente a qualcuno che pensavo a te come a un saggio e a me come a un peccatore –

almeno nel rapporto tra i due. Non vederci né una volontaria autoumiliazione né una presunzione

alla rovescia. Era un modo imperfetto di stabilire un confronto. Questa imperfetta distinzione resiste

ancora, nonostante le cose che ci avvicinano: in essa si sente la costante presenza in te di un punto

fisso, diciamo di una “fede” (per quanto saltuariamente oscurata, messa in forse, costretta a

disperare di sé); e l’assenza di questa in me, totale o quasi, mal compensata dall’accendersi

intermittente di qualcosa che le assomiglia, simulacro di essa o surrogato che sia, da un’occasione

all’altra, da una cosa scritta all’altra. Questo era un po’ il senso di quanto volevo scriverti, ma allora

con un discorso più circostanziato e magari con le tue poesie davanti agli occhi. Sappi comunque

che, sebbene anche dolorosamente, mi sono rimasti nella testa certi accenti per giorni e giorni – mi

hanno accompagnato e un po’ perso quei testi. Spero di vederti presto. Ti abbraccio.

                                                                Vittorio

***

 

A Vittorio Sereni, il 12 maggio 1963:

 

Carissimo Vittorio,

la tua lettera mi ha commosso e anche un po’ sorpreso – una gradita sorpresa. È vero, le strade in

cui ci mettemmo da giovani sembravano più divergenti, ma avevano, a ben guardare, questo in

comune: l’ambizione di lasciar parlare le cose, di non prevenirle con il nostro giudizio, con nessun

apriori teoretico. Il modo di percepire e anche la volontà di significazione potevano essere ben

distinti come ancora lo sono: l’educazione e, non sottovalutiamola, la “forma mentis” naturale

potevano e possono orientarci in atteggiamenti e posizioni distanti – e io ho sempre ammirato la tua

intima duttilità e la tua capacità di illuminare vitalmente il contenuto senza bloccarlo,

investendotene e passandovi in mezzo come la corrente elettrica – ma, a seguirle fino in fondo,

quando ci fossimo liberati di molte soggettive parzialità (gravi sopra tutto da parte mia), quelle

strade dovevano condurci a osservare oggettivamente uno stesso ordine di fenomeni, a “far parlare”

le cose che esistono, che ci sono ora. Il fatto che tu le senta vicine mi conforta della loro oggettiva

realtà, che era il mio proposito più forte. Quanto a ciò che facciamo loro dire o tentiamo, mi pare –

e anche tu del resto – che ci siano tutte nelle differenze le quali giustificano la nostra assoluta

indipendenza sebbene – chi potrebbe escluderlo? – anche il tuo esempio e la tua presenza abbiano

probabilmente avuto per me il loro peso. L’interesse e il favore che hanno incontrato le tue vecchie

e nuove poesie ti assicurano che si tratta di esperienze ben tue le quali non ammettono confronti se

non a spese di chi volesse provocarli. E io mi auguro proprio per me che non venga in mente a

nessuno di impostarlo – il che del resto sarebbe contrario a ogni sia pur modesta facoltà di lettura e

di critica. Per questo, caro Vittorio, penso che la crisi, non benefica, di cui mi parli sia una fugace

impasse psicologica che non può avere fondamento sulle considerazioni che fai per eccesso. E sono

certo che crisi non è, e tanto meno malefica. Hai trovato così nettamente il tuo filone che non puoi

lasciarlo insabbiare. E non saprei proprio dire chi di noi due è il peccatore, chi il saggio. Avevo a

questo proposito tutt’altra idea dalla tua. Non credere poi che anche io non sia nelle peste. Avevo a

lungo sognato di spingere più oltre di quanto avessi fatto nell”Onore” la captazione del reale e

l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua – ma quante sollecitazioni contrastanti, di cui

è difficile trovare il bandolo! O è meglio non cercarlo neppure? Ti abbraccio con tanto affetto, il tuo Mario


 

Da “Un viaggio nella memoria”, a colloquio con L. Luisi, in “Mario Luzi. Una vita per la cultura”,

a cura di L. Luisi con la collaborazione di M.C. Becattelli, Ente Fiuggi, Fiuggi 1983, p. 87:

 

Il “Magma” fu un libro per me quasi imprevisto, almeno programmaticamente […] io il “Magma”

non l’avrei immaginato. Anzi io potrei dire che ebbe una nascita medianica e debbo dire che mi fece

molto effetto. […] Cominciai a sentire queste voci che in qualche modo cercavano di contendersi e

nello stesso tempo cercavano di essere ascoltate. Il primo componimento è “Presso il Bisenzio” e ti

dico che ho registrato queste voci e ho sentito che c’era un tipo di vocalità e di ritmica, allora per

me non usuale, e ho sentito che venivano da uno strato più latente della mia osservazione, forse

della mia percezione. Ma una realtà non del tutto chiarita, non del tutto visibile: qualcosa che stava

piuttosto facendosi, formandosi, qualcosa che era in corso. Allora ho avvertito la possibilità

formale, artistica, di questo procedimento, di una cosa che nasce dal suo volersi fare e sistemare, e

voler arrivare alla dignità della musica e della forma

 

martedì 14 dicembre 2021

"Vivere in pace con la Natura" e il "Manifesto del Terzo Paesaggio", di Gilles Clemént - Il Giardino Planetario

 

MANIFESTO DEL TERZO PAESAGGIO

o del "vivere in pace con la Natura"

Con l’espressione “Terzo paesaggio”, Gilles Clément indica i “luoghi abbandonati dall’uomo”: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate del pianeta, ma anche spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili: le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico… Sono spazi diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati solo dall’assenza di ogni attività umana, ma che presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica

Il libro "Manifesto del Terzo Paesaggio" ne mostra i meccanismi evolutivi, le connessioni reciproche, l’importanza per il futuro del pianeta. È un’opera che apre un campo di riflessione aperto anche ad implicazioni politiche. 

"Le sfide poste dal Terzo Paesaggio sono le sfide della diversità"

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L'AUTORE

GILLES CLÉMENT

Gilles Clément (1943), docente presso l’École Nationale Supérieure du Paysage de Versailles e scrittore, ha influenzato con le proprie teorie e con le proprie realizzazioni (tra queste il Parc André Citroën e il Musée du quai Branly, entrambi a Parigi) un’intera generazione di paesaggisti europei. Ha pubblicato tra l’altro, Le jardin planétaire (catalogo della mostra alla Villette di Parigi, 1999), La sagesse du jardinier (2004), e due romanzi, Thomas et le voyageur (1997) e La dernière pierre (1999). In italiano sono stati pubblicati l’antologia Il giardiniere planetario (22 publishing, 2008) e Elogio delle vagabonde (DeriveApprodi 2010). Quodlibet ha pubblicato Manifesto del Terzo paesaggio (2005), Il giardino in movimento (2011), Breve storia del giardino (2012), Giardini, paesaggio e genio naturale (2013) e Ho costruito una casa da giardiniere (2014).

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"Giardino planetario


Partendo dallo spazio incolto, abitato dalle erbacce del Padiglione delle Agitate dell’ex ospedale di San Salvi, vorremmo gettare lo sguardo in avanti, nel mondo dell’utopia, assumere questo spazio come punto di partenza, di ricerca, di attenzione verso nuove sensibilità per l’uomo e per l’ambiente, spinti anche dalle urgenze dei nostri giorni.

È utile il riferimento al libro “Manifesto del Terzo paesaggio” di Gilles Clément (Edizioni Quodlibet 2005). Con l’espressione “Terzo paesaggio” egli indica “i luoghi non direttamente curati dall’uomo: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate del pianeta, ma anche spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili: le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico … Sono spazi diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati dall’assenza dell’attività umana (o dalla minima attività) che presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica”.

Il libro di Gilles Clément definisce i singoli spazi, pur diversi nella forma e nell’estensione, con il termine di “giardino”, un territorio di rifugio per la diversità biologica: altrove – negli spazi direttamente curati dall’uomo - questa diversità è scacciata. Aggiunge, per le aree del “Terzo paesaggio”, l’appellativo di “giardini in movimento”, per la loro vitalità, dove si possono osservare “fiori, alberi, insetti, uccelli, tutti intrecciati in una concatenazione complicata e magnifica”. Si tratta, ci sembra, di una categoria che si addice ai caratteri dell’area erbosa che circonda il Padiglione delle Agitate.

È importante poi cogliere le interrelazioni fra i diversi “giardini in movimento”. “Le erbe si spostano in silenzio, seguendo i venti. Non si può nulla contro il vento”. Il vento, dunque, padrone degli scenari naturali.

Gilles Clément conia il termine di “giardino planetario”. “La Terra come territorio riservato alla vita è uno spazio chiuso […]. È un giardino. Non appena enunciata, questa constatazione rinvia ogni umano, passeggero della Terra, alle proprie responsabilità. Eccolo divenuto giardiniere”.

Il “giardino planetario” chiama in causa “l’umanità intera”, l’uomo si presenta come “giardiniere planetario”: vi è un salto di scala rispetto ai frammenti considerati in precedenza, siamo in presenza di una “mescolanza planetaria”. Una delle ragioni di fondo del giardinaggio planetario sta nel non ostacolare questo movimento, perché “la molteplicità degli incontri e la diversità degli esseri” sono “altrettante ricchezze aggiunte al territorio”. E, diremmo, all’umanità." 

("Sinfonia per San Salvi", Il Foglio")

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Elogio delle erbacce


Quando intralciano i nostri piani o le nostre mappe ordinate del mondo, le piante diventano erbacce (p.11).

Quella vegetazione non aveva nullo di bello o affascinante, non richiamava i fiori selvatici della poesia bucolica …. Eppure pulsava di vita, una vita primitiva, cosmopolita, …. Queste piante erano avvolte da un’aura magica, come se l’incantesimo dell’“area dismessa” rendesse tutto possibile (p.12-13).

Naturalmente, “tutto dipende da cosa si intende per erbacce”. La definizione è la storia culturale dell’erbacce. Come, dove e perché classifichiamo come indesiderabile una pianta fa parte della storia dei nostri incessanti tentativi di tracciare i confini tra natura e cultura, stato selvaggio e domesticazione (p. 15).

Per certi versi questo libro [“Elogio delle erbacce”] è … l’invito a considerare queste piante fuorilegge per quelle che sono, capire come crescono e perché le riteniamo un problema. Per altri versi è una storia umana. Le piante diventano erbacce perché è così che la gente le etichetta. … Le erbacce compaiono quando viene meno questa precisa divisione in compartimenti. Il selvaggio s’intrufola nella nostra sfera civilizzata, e l’addomesticato fugge e perde il controllo. Le erbacce dimostrano che la vita naturale (e lo stesso corso dell’evoluzione) si ribella ai nostri vincoli culturali. Facendo ciò, ci pongono sotto gli occhi l’idea stessa di un universo spaccato in due (p. 31-32).

Le erbacce rompono i confini, sono la minoranza apolide che sta a ricordarci che la vita non è poi così ordinata, ed è proprio da loro che potremmo imparare a vivere – come accadeva un tempo – a cavallo delle linee di confine della natura (p. 337).”


Richard Mabey, “Elogio delle erbacce”, Ponte alle Grazie

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Cigli erbosi

Frammento indeciso del giardino planetario, il Terzo paesaggio 

è costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo. 

Questi margini raccolgono ua diversità biologica 

che non è a tutt’oggirubricata come ricchezza".

Gilles Clément, “Manifesto del Terzo paesaggio”, pag.11

 

Al margine della città

i cigli erbosi della strada

i bordi dei campi dove nasce

un’erba strana, senza nome

l’aiuola dismessa, indecisa

sulla sua natura,

indefinita sul suo destino.

Zone libere

zone che sfuggono al nostro controllo,

meritano rispetto per la loro verginità

per la loro disposizione naturale all’indecisione.

La diversità

trova rifugio su il ciglio della strada

l’orlo dei campi, un acquitrinio

o un piccolo orto non più coltivato

un piazzale invaso da erbacce

o il margine di un’area industriale

laddove non ci sia l’intervento dell’uomo.

Residui dove nascono cose nuove,

idee nuove, forze nuove. No.

Potrebbero nascere

    ma non è detto che nascano.


[R. Mosi, Sinfonia per San Salvi, Il Foglio]



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La fotografia

"Terzo paesaggio. Fotografia italiana oggi – autori vari"

 Damiani, 2009, 92 pagine, fotografie in b/n e a colori

"La XXIII edizione del Premio Nazionale Arti Visive Città di Gallarate si confronta con la fotografia. Undici fotografi italiani selezionati dalla Commissione Scientifica presentano nella mostra del 2009 intitolata Terzo Paesaggio. Fotografia italiana oggi. Lo sguardo che gli undici artisti invitati posano sulla realtà e che ci rimandano attraverso i loro lavori, linguisticamente caratterizzati da una precisa identità, è spesso rivolto verso situazioni marginali, nascoste, apparentemente poco visibili a occhi distratti o bombardati da un immaginario aggressivo e ridondante. E’ rivolto dunque verso i territori della diversità, dei residui visivi ed emotivi il più delle volte relegati a situazioni di passaggio, poco interessanti e laterali. Proprio quest’idea di marginalità, quest’attenzione al non visto e non detto, ad aspetti e spazi residuali che, in quanto residuali, accolgono le diversità e la vita, è il principale filo conduttore che sottende le opere in mostra."

Fotografie di Luca Andreoni, Andrea Galvani, Tancredi Mangano, Maurizio Montagna, Armida Gandini, Moira Ricci, Francesca Rivetti, Alessandro Sambini, Marco Signorini, Alessandra Spranzi e Richard Sympson

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FOTO DEL TERZO PAESAGGIO [R. Mosi]