mercoledì 22 dicembre 2021

"Presso il Bisenzio", Mario Luzi - Dalla Raccolta "Nel Magma" 1963


 

Mario Luzi, Presso il Bisenzio

(Nel magma, 1963)

.


La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia

e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro

non so se visti o non mai visti prima,

pigri nell'andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.




Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,

mi si fa incontro, mi dice: Tu? Non sei dei nostri.

Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta

quando divampava e ardevano nel rogo bene e male".

Lo fisso senza dar risposta nei suoi occhi vizzi, deboli,

e colgo mentre guizza lungo il labbro di sotto un'inquietudine.

Ci fu solo un tempo per redimersi qui il tremito

si torce in tic convulso o perdersi, e fu quello.

Gli altri costretti a una sosta impreveduta

dànno segni di fastidio, ma non fiatano,

muovono i piedi in cadenza contro il freddo

e masticano gomma guardando me o nessuno.

Dunque sei muto? imprecano le labbra tormentate

mentre lui si fa sotto e retrocede

frenetico, più volte, finché‚ è là

fermo, addossato a un palo, che mi guarda

tra ironico e furente. E aspetta. Il luogo,

quel poco ch'è visibile, è deserto;

la nebbia stringe dappresso le persone

e non lascia apparire che la terra fradicia dell'argine

e il cigaro, la pianta grassa dei fossati che stilla muco.

E io: E' difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino

per me era più lungo che per voi

e passava da altre parti Quali parti?

Come io non vado avanti,

mi fissa a lungo ed aspetta. Quali parti?

I compagni, uno si dondola, uno molleggia il corpo sui garetti

e tutti masticano gomma e mi guardano, me oppure il vuoto.

E' difficile, difficile spiegarti.

C'è silenzio a lungo,

mentre tutto è fermo,

mentre l'acqua della gora fruscia.

Poi mi lasciano lì e io li seguo a distanza.



.

Ma uno d'essi, il più giovane, mi pare, e il più malcerto,

si fa da un lato, s'attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi

mentre seguo lento loro inghiottiti dalla nebbia. A un passo

ormai, ma senza ch'io mi fermi, ci guardiamo,

poi abbassando gli occhi lui ha un sorriso da infermo.

O Mario dice e mi si mette al fianco

per quella strada che non è una strada

ma una traccia tortuosa che si perde nel fango

guardati, guardati d'attorno. Mentre pensi

e accordi le sfere d'orologio della mente

sul moto dei pianeti per un presente eterno

che non è il nostro, che non è qui né ora,

volgiti e guarda il mondo come è divenuto,

poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,

non la profondità, né l'ardimento,

ma la ripetizione di parole,

la mimesi senza perché né come

dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine

morsa dalla tarantola della vita, e basta.

Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze,

e non senti che è troppo. Troppo, intendo,

per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,

giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza umiliante.

 


Ascolto insieme i passi nella nebbia dei compagni che si eclissano

e questa voce venire a strappi rotta da un ansito.

Rispondo: Lavoro anche per voi, per amor vostro.

Lui tace per un po' quasi a ricever questa pietra in cambio

del sacco doloroso vuotato ai miei piedi e spanto.

E come io non dico altro, lui di nuovo: O Mario,

com'è triste essere ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,

né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende.

Lascio placarsi a poco a poco il suo respiro mozzato dall'affanno

mentre i passi dei compagni si spengono

e solo l'acqua della gora fruscia di quando in quando.

E' triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo

e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,

ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte.

E lui, ora smarrito ed indignato: Tu? tu solamente?

Ma poi desiste dallo sfogo, mi stringe la mano con le sue convulse

e agita il capo: O Mario, ma è terribile, è terribile tu non sia dei nostri.

E piange, e anche io piangerei

se non fosse che devo mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti.

Poi corre via succhiato dalla nebbia del viottolo.

.


Rimango a misurare il poco detto,

il molto udito, mentre l'acqua della gora fruscia,

mentre ronzano fili alti nella nebbia sopra pali e antenne.

Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,

mi dico, potranno altri in un tempo diverso.

Prega che la loro anima sia spoglia

e la loro pietà sia più perfetti. 


 

******

 

A Vittorio Sereni, che pubblicò su “Questo e altro” la prima serie di testi il 25 marzo 1963:

 

Caro Vittorio,

 

ecco dunque i versi. Quando li avrai letti capirai perché ho aspettato tanto a decidermi a riprenderli

in mano e copiarli. Sono stato trascinato a scriverli al di là di ogni ragionevole previsione. A

rileggerli sono rimasto di nuovo sottilmente stregato. Non li conosce nessuno. Io stesso non ho

termini di confronto per giudicarli: se sono uno sviluppo interno di certi atteggiamenti e nuclei

anteriori, o debba considerarli davvero come un’intuizione medianica sull’ordine del mio lavoro.

Ma intanto mi hanno prospettato certi modi di cui non potrei forse più fare a meno. La seconda di

queste composizioni (“Tra le cliniche”) forse non è necessaria, voglio dire non serve veramente

all’insieme. Te la mando perché è stata scritta nello stesso spirito e in quell’ordine. Dopo avermi

detto sinceramente quel che pensi di queste pagine (e attendo il tuo giudizio con vera trepidazione),

nel caso che il tutto ti sembri qualcosa, deciderai tu di quel particolare. Con molto e vivo affetto, il

tuo


***


Vittorio Sereni a Mario Luzi, Milano 5 maggio 1963:

[_] Ricorderai che volevo scriverti più a lungo per le poesie. Non ce l’ho fatta, non ce la faccio

nemmeno ora. Ripeto che ne sono stato ammirato, ma non è vero solo questo: confesso di esserne

rimasto sconvolto. Aggiungo che sono entrato in crisi – non benefica, in quel momento; forse

benefica a distanza – non perché sentivo che avevo a che fare con uno più “bravo” di me, ma perché

inopinatamente quell’uno aveva “già fatto”, dimostrava d’aver fatto organicamente, qualcosa di

molto simile a quello che io vedevo, per me, come naturale sbocco o conclusione dei miei tentativi.

Pensa a come eravamo “diversi”, pur se affettivamente vicini, nel ’40, ancora dopo il ’45 e pensa ad ora. Se


non addirittura sullo stesso terreno, siamo su terreni straordinariamente simili. Dicevo una

volta sbrigativamente a qualcuno che pensavo a te come a un saggio e a me come a un peccatore –

almeno nel rapporto tra i due. Non vederci né una volontaria autoumiliazione né una presunzione

alla rovescia. Era un modo imperfetto di stabilire un confronto. Questa imperfetta distinzione resiste

ancora, nonostante le cose che ci avvicinano: in essa si sente la costante presenza in te di un punto

fisso, diciamo di una “fede” (per quanto saltuariamente oscurata, messa in forse, costretta a

disperare di sé); e l’assenza di questa in me, totale o quasi, mal compensata dall’accendersi

intermittente di qualcosa che le assomiglia, simulacro di essa o surrogato che sia, da un’occasione

all’altra, da una cosa scritta all’altra. Questo era un po’ il senso di quanto volevo scriverti, ma allora

con un discorso più circostanziato e magari con le tue poesie davanti agli occhi. Sappi comunque

che, sebbene anche dolorosamente, mi sono rimasti nella testa certi accenti per giorni e giorni – mi

hanno accompagnato e un po’ perso quei testi. Spero di vederti presto. Ti abbraccio.

                                                                Vittorio

***

 

A Vittorio Sereni, il 12 maggio 1963:

 

Carissimo Vittorio,

la tua lettera mi ha commosso e anche un po’ sorpreso – una gradita sorpresa. È vero, le strade in

cui ci mettemmo da giovani sembravano più divergenti, ma avevano, a ben guardare, questo in

comune: l’ambizione di lasciar parlare le cose, di non prevenirle con il nostro giudizio, con nessun

apriori teoretico. Il modo di percepire e anche la volontà di significazione potevano essere ben

distinti come ancora lo sono: l’educazione e, non sottovalutiamola, la “forma mentis” naturale

potevano e possono orientarci in atteggiamenti e posizioni distanti – e io ho sempre ammirato la tua

intima duttilità e la tua capacità di illuminare vitalmente il contenuto senza bloccarlo,

investendotene e passandovi in mezzo come la corrente elettrica – ma, a seguirle fino in fondo,

quando ci fossimo liberati di molte soggettive parzialità (gravi sopra tutto da parte mia), quelle

strade dovevano condurci a osservare oggettivamente uno stesso ordine di fenomeni, a “far parlare”

le cose che esistono, che ci sono ora. Il fatto che tu le senta vicine mi conforta della loro oggettiva

realtà, che era il mio proposito più forte. Quanto a ciò che facciamo loro dire o tentiamo, mi pare –

e anche tu del resto – che ci siano tutte nelle differenze le quali giustificano la nostra assoluta

indipendenza sebbene – chi potrebbe escluderlo? – anche il tuo esempio e la tua presenza abbiano

probabilmente avuto per me il loro peso. L’interesse e il favore che hanno incontrato le tue vecchie

e nuove poesie ti assicurano che si tratta di esperienze ben tue le quali non ammettono confronti se

non a spese di chi volesse provocarli. E io mi auguro proprio per me che non venga in mente a

nessuno di impostarlo – il che del resto sarebbe contrario a ogni sia pur modesta facoltà di lettura e

di critica. Per questo, caro Vittorio, penso che la crisi, non benefica, di cui mi parli sia una fugace

impasse psicologica che non può avere fondamento sulle considerazioni che fai per eccesso. E sono

certo che crisi non è, e tanto meno malefica. Hai trovato così nettamente il tuo filone che non puoi

lasciarlo insabbiare. E non saprei proprio dire chi di noi due è il peccatore, chi il saggio. Avevo a

questo proposito tutt’altra idea dalla tua. Non credere poi che anche io non sia nelle peste. Avevo a

lungo sognato di spingere più oltre di quanto avessi fatto nell”Onore” la captazione del reale e

l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua – ma quante sollecitazioni contrastanti, di cui

è difficile trovare il bandolo! O è meglio non cercarlo neppure? Ti abbraccio con tanto affetto, il tuo Mario


 

Da “Un viaggio nella memoria”, a colloquio con L. Luisi, in “Mario Luzi. Una vita per la cultura”,

a cura di L. Luisi con la collaborazione di M.C. Becattelli, Ente Fiuggi, Fiuggi 1983, p. 87:

 

Il “Magma” fu un libro per me quasi imprevisto, almeno programmaticamente […] io il “Magma”

non l’avrei immaginato. Anzi io potrei dire che ebbe una nascita medianica e debbo dire che mi fece

molto effetto. […] Cominciai a sentire queste voci che in qualche modo cercavano di contendersi e

nello stesso tempo cercavano di essere ascoltate. Il primo componimento è “Presso il Bisenzio” e ti

dico che ho registrato queste voci e ho sentito che c’era un tipo di vocalità e di ritmica, allora per

me non usuale, e ho sentito che venivano da uno strato più latente della mia osservazione, forse

della mia percezione. Ma una realtà non del tutto chiarita, non del tutto visibile: qualcosa che stava

piuttosto facendosi, formandosi, qualcosa che era in corso. Allora ho avvertito la possibilità

formale, artistica, di questo procedimento, di una cosa che nasce dal suo volersi fare e sistemare, e

voler arrivare alla dignità della musica e della forma

 

1 commento:

  1. La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia

    e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro

    non so se visti o non mai visti prima,

    pigri nell'andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.

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