Mario Luzi, Presso il Bisenzio
(Nel magma, 1963)
.
La nebbia ghiacciata
affumica la gora della concia
e il viottolo che segue
la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai
visti prima,
pigri nell'andatura,
pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da
smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi
dice: Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come
noi al fuoco della lotta
quando divampava e
ardevano nel rogo bene e male".
Lo fisso senza dar
risposta nei suoi occhi vizzi, deboli,
e colgo mentre guizza
lungo il labbro di sotto un'inquietudine.
Ci fu solo un tempo per
redimersi qui il tremito
si torce in tic convulso
o perdersi, e fu quello.
Gli altri costretti a una
sosta impreveduta
dànno segni di fastidio,
ma non fiatano,
muovono i piedi in
cadenza contro il freddo
e masticano gomma
guardando me o nessuno.
Dunque sei muto?
imprecano le labbra tormentate
mentre lui si fa sotto e
retrocede
frenetico, più volte,
finché‚ è là
fermo, addossato a un
palo, che mi guarda
tra ironico e furente. E
aspetta. Il luogo,
quel poco ch'è visibile,
è deserto;
la nebbia stringe
dappresso le persone
e non lascia apparire che
la terra fradicia dell'argine
e il cigaro, la pianta
grassa dei fossati che stilla muco.
E io: E' difficile spiegarti.
Ma sappi che il cammino
per me era più lungo che
per voi
e passava da altre parti
Quali parti?
Come io non vado avanti,
mi fissa a lungo ed
aspetta. Quali parti?
I compagni, uno si
dondola, uno molleggia il corpo sui garetti
e tutti masticano gomma e
mi guardano, me oppure il vuoto.
E' difficile, difficile
spiegarti.
C'è silenzio a lungo,
mentre tutto è fermo,
mentre l'acqua della gora
fruscia.
Poi mi lasciano lì e io li seguo a distanza.
.
Ma uno d'essi, il più
giovane, mi pare, e il più malcerto,
si fa da un lato,
s'attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi
mentre seguo lento loro
inghiottiti dalla nebbia. A un passo
ormai, ma senza ch'io mi
fermi, ci guardiamo,
poi abbassando gli occhi
lui ha un sorriso da infermo.
O Mario dice e mi si
mette al fianco
per quella strada che non
è una strada
ma una traccia tortuosa
che si perde nel fango
guardati, guardati
d'attorno. Mentre pensi
e accordi le sfere
d'orologio della mente
sul moto dei pianeti per
un presente eterno
che non è il nostro, che
non è qui né ora,
volgiti e guarda il mondo
come è divenuto,
poni mente a che cosa
questo tempo ti richiede,
non la profondità, né
l'ardimento,
ma la ripetizione di
parole,
la mimesi senza perché né
come
dei gesti in cui si
sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola
della vita, e basta.
Tu dici di puntare alto,
di là dalle apparenze,
e non senti che è troppo.
Troppo, intendo,
per noi che siamo dopo
tutto i tuoi compagni,
giovani ma logorati dalla
lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza umiliante.
Ascolto insieme i passi
nella nebbia dei compagni che si eclissano
e questa voce venire a
strappi rotta da un ansito.
Rispondo: Lavoro anche
per voi, per amor vostro.
Lui tace per un po' quasi
a ricever questa pietra in cambio
del sacco doloroso
vuotato ai miei piedi e spanto.
E come io non dico altro,
lui di nuovo: O Mario,
com'è triste essere
ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,
né mangiamo del cibo che
ci porgi, dirti che ci offende.
Lascio placarsi a poco a
poco il suo respiro mozzato dall'affanno
mentre i passi dei
compagni si spengono
e solo l'acqua della gora
fruscia di quando in quando.
E' triste, ma è il nostro
destino: convivere in uno stesso tempo e luogo
e farci guerra per amore.
Intendo la tua angoscia,
ma sono io che pago tutto
il debito. E ho accettato questa sorte.
E lui, ora smarrito ed
indignato: Tu? tu solamente?
Ma poi desiste dallo
sfogo, mi stringe la mano con le sue convulse
e agita il capo: O Mario,
ma è terribile, è terribile tu non sia dei nostri.
E piange, e anche io
piangerei
se non fosse che devo
mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti.
Poi corre via succhiato
dalla nebbia del viottolo.
.
Rimango a misurare il
poco detto,
il molto udito, mentre
l'acqua della gora fruscia,
mentre ronzano fili alti
nella nebbia sopra pali e antenne.
Non potrai giudicare di
questi anni vissuti a cuore duro,
mi dico, potranno altri
in un tempo diverso.
Prega che la loro anima
sia spoglia
e la loro pietà sia più perfetti.
******
A Vittorio Sereni, che pubblicò su
“Questo e altro” la prima serie di testi il 25 marzo 1963:
Caro Vittorio,
ecco dunque i versi. Quando li
avrai letti capirai perché ho aspettato tanto a decidermi a riprenderli
in mano e copiarli. Sono stato
trascinato a scriverli al di là di ogni ragionevole previsione. A
rileggerli sono rimasto di nuovo
sottilmente stregato. Non li conosce nessuno. Io stesso non ho
termini di confronto per
giudicarli: se sono uno sviluppo interno di certi atteggiamenti e nuclei
anteriori, o debba considerarli
davvero come un’intuizione medianica sull’ordine del mio lavoro.
Ma intanto mi hanno prospettato certi
modi di cui non potrei forse più fare a meno. La seconda di
queste composizioni (“Tra le
cliniche”) forse non è necessaria, voglio dire non serve veramente
all’insieme. Te la mando perché è
stata scritta nello stesso spirito e in quell’ordine. Dopo avermi
detto sinceramente quel che pensi
di queste pagine (e attendo il tuo giudizio con vera trepidazione),
nel caso che il tutto ti sembri
qualcosa, deciderai tu di quel particolare. Con molto e vivo affetto, il
tuo
***
Vittorio Sereni a Mario Luzi,
Milano 5 maggio 1963:
[_] Ricorderai che volevo scriverti
più a lungo per le poesie. Non ce l’ho fatta, non ce la faccio
nemmeno ora. Ripeto che ne sono
stato ammirato, ma non è vero solo questo: confesso di esserne
rimasto sconvolto. Aggiungo che
sono entrato in crisi – non benefica, in quel momento; forse
benefica a distanza – non perché
sentivo che avevo a che fare con uno più “bravo” di me, ma perché
inopinatamente quell’uno aveva “già
fatto”, dimostrava d’aver fatto organicamente, qualcosa di
molto simile a quello che io
vedevo, per me, come naturale sbocco o conclusione dei miei tentativi.
Pensa a come eravamo “diversi”, pur se affettivamente vicini, nel ’40, ancora dopo il ’45 e pensa ad ora. Se
non addirittura sullo stesso terreno, siamo su terreni straordinariamente simili. Dicevo una
volta sbrigativamente a qualcuno
che pensavo a te come a un saggio e a me come a un peccatore –
almeno nel rapporto tra i due. Non
vederci né una volontaria autoumiliazione né una presunzione
alla rovescia. Era un modo
imperfetto di stabilire un confronto. Questa imperfetta distinzione resiste
ancora, nonostante le cose che ci
avvicinano: in essa si sente la costante presenza in te di un punto
fisso, diciamo di una “fede” (per
quanto saltuariamente oscurata, messa in forse, costretta a
disperare di sé); e l’assenza di
questa in me, totale o quasi, mal compensata dall’accendersi
intermittente di qualcosa che le
assomiglia, simulacro di essa o surrogato che sia, da un’occasione
all’altra, da una cosa scritta
all’altra. Questo era un po’ il senso di quanto volevo scriverti, ma allora
con un discorso più circostanziato
e magari con le tue poesie davanti agli occhi. Sappi comunque
che, sebbene anche dolorosamente,
mi sono rimasti nella testa certi accenti per giorni e giorni – mi
hanno accompagnato e un po’ perso
quei testi. Spero di vederti presto. Ti abbraccio.
Vittorio
***
A Vittorio Sereni, il 12 maggio
1963:
Carissimo Vittorio,
la tua lettera mi ha commosso e
anche un po’ sorpreso – una gradita sorpresa. È vero, le strade in
cui ci mettemmo da giovani
sembravano più divergenti, ma avevano, a ben guardare, questo in
comune: l’ambizione di lasciar
parlare le cose, di non prevenirle con il nostro giudizio, con nessun
apriori teoretico. Il modo di
percepire e anche la volontà di significazione potevano essere ben
distinti come ancora lo sono:
l’educazione e, non sottovalutiamola, la “forma mentis” naturale
potevano e possono orientarci in
atteggiamenti e posizioni distanti – e io ho sempre ammirato la tua
intima duttilità e la tua capacità
di illuminare vitalmente il contenuto senza bloccarlo,
investendotene e passandovi in
mezzo come la corrente elettrica – ma, a seguirle fino in fondo,
quando ci fossimo liberati di molte
soggettive parzialità (gravi sopra tutto da parte mia), quelle
strade dovevano condurci a
osservare oggettivamente uno stesso ordine di fenomeni, a “far parlare”
le cose che esistono, che ci sono
ora. Il fatto che tu le senta vicine mi conforta della loro oggettiva
realtà, che era il mio proposito
più forte. Quanto a ciò che facciamo loro dire o tentiamo, mi pare –
e anche tu del resto – che ci siano
tutte nelle differenze le quali giustificano la nostra assoluta
indipendenza sebbene – chi potrebbe
escluderlo? – anche il tuo esempio e la tua presenza abbiano
probabilmente avuto per me il loro
peso. L’interesse e il favore che hanno incontrato le tue vecchie
e nuove poesie ti assicurano che si
tratta di esperienze ben tue le quali non ammettono confronti se
non a spese di chi volesse
provocarli. E io mi auguro proprio per me che non venga in mente a
nessuno di impostarlo – il che del
resto sarebbe contrario a ogni sia pur modesta facoltà di lettura e
di critica. Per questo, caro
Vittorio, penso che la crisi, non benefica, di cui mi parli sia una fugace
impasse psicologica che non può
avere fondamento sulle considerazioni che fai per eccesso. E sono
certo che crisi non è, e tanto meno
malefica. Hai trovato così nettamente il tuo filone che non puoi
lasciarlo insabbiare. E non saprei
proprio dire chi di noi due è il peccatore, chi il saggio. Avevo a
questo proposito tutt’altra idea
dalla tua. Non credere poi che anche io non sia nelle peste. Avevo a
lungo sognato di spingere più oltre
di quanto avessi fatto nell”Onore” la captazione del reale e
l’identità di prosa e poesia –
nell’unicum della lingua – ma quante sollecitazioni contrastanti, di cui
è difficile trovare il bandolo! O è meglio non cercarlo neppure? Ti abbraccio con tanto affetto, il tuo Mario
Da “Un viaggio nella memoria”, a
colloquio con L. Luisi, in “Mario Luzi. Una vita per la cultura”,
a cura di L. Luisi con la
collaborazione di M.C. Becattelli, Ente Fiuggi, Fiuggi 1983, p. 87:
Il “Magma” fu un libro per me quasi
imprevisto, almeno programmaticamente […] io il “Magma”
non l’avrei immaginato. Anzi io
potrei dire che ebbe una nascita medianica e debbo dire che mi fece
molto effetto. […] Cominciai a
sentire queste voci che in qualche modo cercavano di contendersi e
nello stesso tempo cercavano di
essere ascoltate. Il primo componimento è “Presso il Bisenzio” e ti
dico che ho registrato queste voci
e ho sentito che c’era un tipo di vocalità e di ritmica, allora per
me non usuale, e ho sentito che
venivano da uno strato più latente della mia osservazione, forse
della mia percezione. Ma una realtà
non del tutto chiarita, non del tutto visibile: qualcosa che stava
piuttosto facendosi, formandosi,
qualcosa che era in corso. Allora ho avvertito la possibilità
formale, artistica, di questo
procedimento, di una cosa che nasce dal suo volersi fare e sistemare, e
voler arrivare alla dignità della
musica e della forma
La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
RispondiEliminae il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai visti prima,
pigri nell'andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.