lunedì 29 dicembre 2014

M. P. Moschini presenta "Non oltrepassare la linea gialla" di R. Mosi

 Roberto Mosi, Non oltrepassare la linea gialla, Europa Edizioni, Roma 2014
Recensione di Maria Pia Moschini

“Un piccolo grande libro, denso, complesso, riferibile a quel realismo magico che contraddistingue scrittori come Buzzati e Calvino.
Un sopramondo lo pervade, un universo ricco di campi magnetici, di situazioni aggreganti in cui la trasformazione energetica crea scenari fantastici spesso riferiti a una realtà mitico/ancestrale.
La linea gialla è il limite-confine fra il detto e il non detto fra le righe perché la fascinazione proviene dalla meraviglia, dall’incauto incanto che pervade la narrazione. La follia come concetto e visione pervade tutta l’opera, follia intesa come coraggio di manifestare il proprio sogno nell’incalzare degli eventi e ad essa sono affidati i passaggi più interessanti del testo, ricchissimo di citazioni. Tutto collegato al grande mito della trasformazione che annulla le distanze fra mondo animato ee inanimato rendendo la realtà colloquiale e nel caso di Mosi ironicamente costruita su un sopramondo magrittiano.
Denso di citazioni colte, cuce un arazzo dettagliato nei minimi particolari, accuratissimo, in cui le leggende riportate si inseriscono come canti della veglia facendoci ricordare che il mito non è anch’esso che una realtà trasformata, ricca di sottintesi. I numerosissimi personaggi hanno tutti un ruolo primario, coesistono come in una grande commedia dell’arte, dalle macchine parlanti, agli animali, agli oggetti.
Non mancano attenti riferimenti storici che trasmettono il senso della contemporaneità sotto forma di metafora e di ricerca colta. Cercando in profondità ogni situazione ha in sé lo spirito della similitudine che non si piega alla ricerca pedante ma sorvola leggera il sopramondo. Il Castello, in particolare, può richiamare alla struttura politica che ci sovrasta, mentre la fantapolitica si affaccia ad ogni argomento trattato sempre con ironia cominciando dai nomi dei personaggi.
L’incipit, un incidente di macchina, dispiega fantasie e giochi di parole, rende la Stazione, come il Castello, un luogo dell’anima e un mondo per i viventi a rispettare la linea gialla, confine fra regola e libertà di azione.
Non mancano inserti ironici molto divertenti, tali da ricordare il Teatro dei Pupi, a volte, infatti, il dialogo è incalzante  e provocatorio inserito in uno scenario vivace e dettagliato. Ad esempio le parole di Steve Jobs rendono visibile l’invisibile che pervade l’opera. Think different è un continuo riferimento a cui Mosi attinge per creare quella complessità che non è mai caotica ma preordinata: solo in apparenza gli eventi appaiono casuali, essi sono finemente collegati come dimostrano le note a fondo libro.
Una lettura vivace, arcana, magica che di Non oltrepassare la linea gialla un’opera modernissima e di grande ingegno".

Maria Pia Moschini

domenica 28 dicembre 2014

Giuseppe Panella introduce all'opera di Vittorio Vettori


Giuseppe Panella e l’opera dell’ “umanista” Vittorio Vettori
"Introduzione all’opera di Vittorio Vettori” (Ed. Polistampa, 2014).
Per guide Dante Alighieri e Fuflens, il dio etrusco dell’entusiasmo

Vittorio Vettori, una figura significativa della cultura toscana e italiana del Novecento riconosciuta a livello internazionale, ha fissato negli scritti che ci ha lasciato, i suoi molteplici interessi con un approccio d’incontro fra più discipline, capace di far coesistere e confluire percorsi e mondi diversi, quali filosofia, letteratura e storia.  Questa sua competenza intellettuale, unita alla sua “voracità” letteraria, l’ha messo in contatto con alcune delle più importanti personalità del suo tempo. Lo studioso Giuseppe Panella, insegnante alla Scuola Normale Superiore di Pisa, che più volte è intervenuto con propri lavori sulla rivista “Testimonianze”, ha curato nel decennale della sua scomparsa un’opera, con la promozione della Società Dantesca Italiana, che traccia il cammino letterario - esistenziale: “Introduzione all’opera di Vittorio Vettori” (Edizioni Polistampa, Firenze 2014, pagg. 210). L’opera è arricchita dalla prefazione di Sergio Givone, che si sofferma sul tema della filosofia della parola, o “teologia della parola”, un’impronta fondamentalmente cristiana che “s’imprime all’interno di quella fede che era propria di Vittorio Vettori e che nelle vicende culturali dell’umanesimo e dell’idealismo è stato il nucleo intorno al quale ha impostato il suo pensiero, traghettando il personale sogno politico verso l’ultraumanesimo.”
Non è stato certamente facile il compito di tracciare i tratti essenziali del fecondo lavoro di questo umanista del Novecento, nato nel 1920 a Castel San Niccolò-Arezzo e scomparso a Firenze nel 2004, autore di una vasta biblioteca con più di duecento volumi di poesia, filosofia, saggistica, narrativa e critica letteraria. 
Nel suo libro di attento vaglio di quest’ampia produzione, Panella ci presenta gli elementi fondamentali che lo portano a riconoscere nell’ampia produzione poetica di Vettori, originario delle terre aretine, la presenza di un’ispirazione etrusca, ripresa dal territorio e dalla dimensione culturale di quel misterioso popolo. La sua aspirazione alla poesia si fonda sulla volontà di aderire all’invito di Fufluns, il dio etrusco dell’entusiasmo, figlio di Semla, dea della fecondità dei campi: 
“Forse/ era Fufluns, Fuflunte, etrusco dio/ dell’entusiasmo, a dirti: non tardare/ a tentare presso a Lei le vie del cuore/ avventuroso …/.
Il lavoro di ricerca di Panella, lo porta poi a identificare “in Dante il “proprio Virgilio esistenziale”, attraversando con lui tutti i Gironi magnifici e sofferti della Conoscenza, sino a ritrovare nelle ultime Terzine del suo respiro vitale – corrispondente al Canto finale del suo cammino – la desiata Beatrice.” I rapporti intessuti con Mircea Eliade, Ernest Juner, Ezra Pound, Sedar Senghor, Jorge Luis Borges e molti altri, gli hanno permesso dunque di elaborare un impianto umanistico originale in cui Dante è il fulcro centrale. 
Panella ci porta a “scoprire” nel suo lavoro, il perenne dialogo che Vettori ha stabilito con “i condottieri della bussola culturale del cosiddetto secolo breve”, in un’epoca infinitamente lunga di guerre e di contrapposizioni che hanno sedimentato “non pochi grumi di malinconia nel cuore di questo idealista “scultore della parola pensante, senza intorbidire minimamente il suo limpido sguardo proiettato a futura memoria.”                                                                                                                           Roberto Mosi


sabato 27 dicembre 2014

ATTENZIONE ! La Casa del Popolo di Rifredi sta per essere invasa dagli storni !!!


Il libro di Roberto Mosi, L'invasione degli storni, Edizione Gazebo, è in vendita alla Libreria Salvemini, Piazza Salvemini (dall'Arco di San Pierino), Firenze
Il libro è anche un e-Book illustrato, liberamente accessibile, all'indirizzo:
http://www.larecherche.it/librolibero_ebook.asp?Id=155 

RECENSIONE DI CATERINA BIGAZZI, RIVISTA SEMICERCHIO 
“Per  ispirazione e struttura, la ‘trilogia’ di Mosi si presenta come una contemporanea rivisitazione della Commedia dantesca che ambisce ad un disegno universale e allo stesso tempo ad una marcata connotazione fiorentina. Un percorso ascensionale che, tripartito nelle sezioni Valle dell’Inferno, Via del Purgatorio, Nuovo Cinema Paradiso, dà vita a un affresco a forti immagini, giocato tra mimesi di luoghi reali, citazioni letterarie ed incontri con personaggi e simboli, nella ricreazione visiva/vissuta di un patrimonio acquisito e comune. È il viaggio di speranza e significato da parte di un uomo che osserva, registra e testimonia quella frattura conflittuale tra umanità ed ambiente che l’impegno poetico è chiamato a sanare, ma che il ‘maglio della Storia’ pare riconfermare ad ogni passo.
Nella prima parte, la valle dell’Inferno, sorvegliata dalla vigile Cornacchia, altro non è che la postmoderna discarica del mondo, o come scrive Giuseppe Panella nella Prefazione «il non-luogo del consumo e della disarmonia»: l’immagine altrimenti positiva del passaggio degli uccelli migratori si riflette sul degrado della comunità speculatrice, in una paludosa congestione dalla quale tra i miasmi affiorano mostruose presenze alla coscienza, tra reale e virtuale, tradizione ed espressionismo; anche il ritmo sembra rallentare al peso di alcuni giudizi sulla storia recente. Si passa quindi all’atmosfera umbratile e alla più scarna precisione del linguaggio della parte centrale, ovvero il bianco inesorabile «Tempo dell’Attesa» scandito tra le squallide mura di un purgatoriale Reparto oncologico, nel quale l’unica linfa è la chemioterapia e il paziente è un provvisorio homo viator osservato in silenzio dal Ragno che tesse la tela degli umani destini. Poi la malattia sembra vinta e, sempre con la guida di Gabriella, novella Beatrice coronata di luce, si conclude l’ascesa salvifica: come sullo schermo di un Cinema scorrono in tripudio uno dopo l’altro fotogrammi luminosi e ‘trasfigurati’.
E qui, nella fucina dove «Appare il senso, la forma, / il fuoco abbraccia la creta, / l’opera è pronta per brillare...», approda l’epilogo di un cammino pensoso ed umano che non rinuncia a stemperare i mortali vizi nelle immortali virtù dell’arte. Mentre anche le presenze naturali, gli uccelli, si fanno parte integrante della Commedia in una sintesi che ricompone a scrigno il cosmo di Mosi: «Nei nidi appesi alle gronde / riposano i racconti del mondo, / la testa sotto le ali».




"Non oltrepassare la linea gialla": il giallo per: pericolo, attenzione, maturo ...

Roberto Mosi, Non oltrepassare la linea  gialla , Europa Edizioni Roma 2014


  • In zoologia il giallo, specialmente se associato al nero, indica agli altri animali il pericolo; è usato, per esempio, da api, vespe ed animali marini tossici o dotati di pungiglione che in questo modo comunicano la loro pericolosità agli altri.
  • Giallo è un genere letterario che deriva dal colore della copertina di una fortunatissima serie di romanzi polizieschi editi dalla casa editrice "Arnoldo Mondadori" a partire dal 1929.
  • Giallo è uno dei colori simbolo della Cina.
  • Giallo è il colore sacro del Buddhismo, simbolo della saggezza;
  • Giallo è il colore assegnato agli organi in movimento di un impianto o macchina utensile
  • Gialle erano le stelle di Davide che dovevano cucire, sui propri vestiti, gli ebrei durante le persecuzioni naziste.
  • In politica il giallo è il colore dei partiti e movimenti radicali
  • In alcune città i taxi sono gialli, tale uso probabilmente deriva da New York City, dove il tassista Harry N. Allen dipinse di giallo il suo taxi dopo aver imparato che il giallo è il colore più facilmente distinguibile da lontano.
  • Molti scuolabus sono dipinti di giallo per aumentarne la visibilità e offrire maggior sicurezza nella salita e discesa dei piccoli utenti.
  • Nelle corse automobilistiche, una bandiera gialla indica pericolo. Le macchine non possono sorpassare in presenza di tale avvertimento, e nei casi più seri devono stare dietro alla safety car.
  • Nei semafori il giallo avvisa che sta per scattare il rosso. Se la luce gialla lampeggia e sono spenti il rosso e il verde, di solito nelle ore notturne in presenza di scarso traffico, invita a procedere con prudenza nell'attraversamento degli incroci.
  • Al pronto soccorso il codice di accesso giallo significa situazione grave, ma senza imminente pericolo di vita, con tempo di attesa di norma non superiore a 10 minuti.
  • Le Pagine Gialle sono quell'elenco telefonico o sezione di esso che elenca le attività commerciali raggruppate per categoria.
  • Giallo è un tipo di melone, che viene comunemente detto "melone di pane".
  • In dialetto napoletano, per dire di aver avuto molta paura, si dice "Ho fatto il giallo".
  • I tubi che servono da condutture di gas sono di colore giallo
  • La Maglia gialla è il premio del vincitore del Tour de France.
  • Giallo è un canale del Digitale Terrestre dedicato alle serie crime e polizieschi
  • Giallo è il colore della buccia della banana matura.
GIALLO da WIKIPEDIA


venerdì 26 dicembre 2014

"Michelangelo e l'Amore" di Gianna Pinotti, a conclusione dell'anno Michelangiolesco

Gianna Pinotti, Michelangelo e l’Amore tra letteratura e Bibbia
Gazebo Libri, Firenze 2014

L’autrice del libro, Gianna Pinotti, è una donna dalle conoscenze e curiosità poliedriche, si potrebbe dire tipiche di una persona del Rinascimento, artista, poetessa, critico d’arte.
Ho avuto modo di conoscere Gianna Pinotti nella sua veste di poetessa, alla Biblioteca del Palagio di Parte Guelfa, l’8 marzo di quest’anno, all’inaugurazione della Mostra dedicata ai quaranta anni della Rivista Area di Broca - Salvo Imprevisti, celebrata con la lettura di testi poetici nella piazzetta prospiciente la Biblioteca, da parte di un gruppo di poetesse.
La lettura del libro dedicato a Michelangelo mi ha portato ad approfondire il suo valore di ricercatrice e di critico d’arte.  La presentazione del libro ha avuto luogo al Consiglio Regionale, la casa della democrazia della Toscana, nella città di Firenze, che per lei originaria di Mantova – la terra dei Gonzaga - è in definitiva la sua città d’elezione, amata e frequentata fin dall’infanzia, suggestionata, educata dai suoi capolavori, fra i quali, se ne parlava proprio in questi giorni, le opere di Sandro Botticelli alla Galleria degli Uffizi.
Il suo libro è stato dunque presentato al compimento dell’Anniversario legato alla vita di Michelangelo, presso la sede dell’Assemblea Toscana in via Cavour 2, nel cosiddetto quartiere fiorentino dei Medici, i Signori che fecero seguire alla costruzione del loro Palazzo in via Larga – la via Cavour di oggi – una vera operazione di conquista culturale e di ricerca d’immagine all’interno di questa zona, che vide, fra protagonisti, Michelangelo Buonarroti.
E’ commovente ricordare poi che a poche centinaia di metri da questo luogo sorgeva il Giardino di San Marco. Ascanio Condivi scrive che Michelangelo ancora giovinetto – dell’età di quattordici anni – fu condotto dall’amico Francesco Granacci al “Giardino de’ Medici a San Marco, il quale giardino il Magnifico Lorenzo avea di varie statue antiche e di figure ornato”.  Nei tempi che seguirono ebbe l’onore di condividere la mensa con i figli di Lorenzo e “personaggi nobilissimi e di grande affare” fra i quali Agnolo Poliziano, precettore dei figli del Magnifico.

Questa presentazione ha luogo avviene al termine dell’anno  michelangiolesco. Il 14 luglio del 1564 si celebrarono nella vicina Basilica di San Lorenzo le esequie funerali di Michelangelo, morto quasi novantenne nella sua casa romana di via Macel de’ Corvi, il 18 febbraio di quello stesso anno. Le celebrazioni furono organizzate dall’Accademia delle Arti del Disegno, di cui Buonarroti era primo Accademico.
Fra le manifestazioni fiorentine legate all’anniversario, è da ricordare la manifestazione del 14 luglio di quest’anno, in Piazza San Lorenzo (La notte di Michelangelo), nel corso della quale, insieme alla lettura di sonetti e madrigali dalle Rime e alla proiezione sulla facciata della Basilica, delle linee del progetto per la nuova facciata, è stata ripresa l’Orazione funerale di Messer Benedetto Varchi che celebrava le virtù in tutti i campi dell’uomo: “Un huomo solo nel quale albergavano oltra la poesia, oltra la Filosofia, oltra la Teologia, le doti straordinarie di Scultore, Architettore, Pittore Unico”.
Un artista dunque universale, come dipinge il libro di Gianna Pinotti e come ha sottolineato la Mostra che si è tenuta a Roma ai Musei Capitolini, seguendo il filo rosso di una serie di “contrapposti” tematici: le difficoltà dell’uomo e dell’artista sia nell’esecuzione sia nell’ideazione: il moderno e l’antico, la vita e la morte, la vittoria e la prigionia, la regola e la libertà, l’amore terreno e l’amore spirituale.

La presentazione del Libro di Gianna Pinotti, pubblicato dalla Casa Editrice fiorentina Gazebo Libri, frutto di lunghe e impegnate ricerche, appare, mi sembra, un episodio importante nell’ambito dell’Anniversario Michelangiolesco, investe in maniera originale alcuni dei profili che compongono l’universalità del Maestro, approfondendo attraverso l’analisi delle Rime e di alcune opere visive, i temi più esoterici cui Michelangelo ha rivolto la sua attenzione, come l’ermetismo, la divinazione, la cosmologia, l’orfismo, la preghiera, “tutti calati – ci dice l’autrice – nella tematica amorosa, poiché l’Amore è il fulcro di tutto il percorso esistenziale e artistico di Michelangelo”.
Forte il legame con i Neoplatonici, con il circolo di Marsilio Ficino, per il quale la ricerca spirituale e gli studi su Platone si sono legati a una condotta di vita: “la contemplazione della bellezza delle cose di quaggiù è strumento per giungere alla contemplazione delle cose divine”. L’Amore ha una doppia natura, sacra e profana, divina e umana, e la dialettica fra i due Amori, che Platone dice legati a due Veneri, la celeste e la carnale, emerge continuamente dalle Rime. Amore diviene per Michelangelo un vero e proprio daimon, intermediario fra l’uomo e Dio, tra la terra e il cielo.
Gianna Pinotti afferma che “in questo contesto d’indagine la scultura del Cupido dormiente” eseguito dal Maestro nel 1496, si pone come tappa fondamentale del percorso del Buonarroti, poiché avendo essa come soggetto l’Amore, offre al Maestro l’occasione per realizzare quel daimon in mezzo a due mondi, il terreno e il divino, il femminile e il maschile, ed esprimere attraverso il sonno e le serpi, la connessione tra eros e mantica (o scienza divinatoria) e il suo sentire l’Amore come forza insidiosamente velenosa e insieme unico mezzo di elevazione dell’anima e curativo delle passioni terrene”.
Mi hanno colpito i passaggi del libro dedicati all’arte medica e curativa di Eros, alle doti taumaturgiche di cui Michelangelo si sente dotato, all’identificazione con San Paolo che sconfigge il veleno del serpente. Nei riferimenti all’opera di Marsilio Ficino, al tema del Cupido, alle immagini dei serpenti presenti nel libro di Gianna Pinotti, ho trovato suggestioni consonanti con il mio recente poemetto “Concerto per Flora”, pubblicato da Gazebo Libri. Flora è il mitico personaggio presente nel quadro della “Primavera”, che richiama la città di Firenze e il suo antico appellativo: “Fiorenza”. E’ stato detto autorevolmente che Mercurio è la figura centrale del quadro – anche se posta a uno dei lati del quadro di Sandro Botticelli: “Ecco dunque – afferma Cristina Acidini Luchinat nel libro Botticelli. Allegorie mitologiche - che col suo caduceo il Dio, tuttora in assetto di guerra, infilza, dissolve una nube, un’ultima nube residuo di una grande discordia”. Il caduceo è l’insegna che impugna Mercurio, formata da un bastone al quale si avvinghiano due feroci serpenti. La pace appena ristabilita da Mercurio, per un verso, e l’avvento della Primavera, per l’altro verso, sono le felici condizioni che permettono a Venere, a Cupido, alle Grazie di tornare – nella nuova, straordinaria stagione che investe la città di Firenze – a fiorire, dispensando i doni della bellezza e dell’Amore.
Proprio dell’Amore ci parla il libro di Gianna Pinotti, come fulcro di tutto il percorso esistenziale e artistico di Buonarroti; un amore, si è appena detto, legato alla bellezza. L’autrice originaria delle terre dei Gonzaga, può rivendicare, potremmo dire, il titolo di cittadina onoraria della nostra città, arricchisce con la sua ricerca la nostra visione su quell’epoca “unica” che fu l’Umanesimo, come nessun altra ricca di personalità esemplari, dall’Alberti a Lorenzo, da Michelangelo a Giordano Bruno. Lo studioso fiorentino Eugenio Garin teneva ad affermare che quell’epoca fu “veramente rinnovata fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità, e comprensione delle sue attività in ogni direzione”. Sì, proprio in ogni direzione, come ci ha, con Amore e passione, mostrato Gianna Pinotti.

Roberto Mosi


"Divertente, spiazzante" il romanzo "Non oltrepassare la linea gialla"

Attenzione! Non oltrepassare la linea gialla! 
Non oltrepassare
la linea gialla 
Roberto Mosi
(Europa Edizioni, Roma 2014)
 "Divertente e spiazzante. Sono due tra gli aggettivi possibili per descrivere que­sto testo di Roberto Mosi, dove in poche pagine succedono molte cose e ven­gono narrate altrettante storie. I protagonisti, come in un romanzo dagli echi futuristi, sono le macchine – destinate a trascorrere il loro tempo, dopo aver percorso fior di chilometri, nel cimitero delle macchine – e due semafori della stazione di Salorno, località famosa per il suo castello. In questi due luoghi vi­cini si possono incontrare vari personaggi che scendono o salgono sui treni, dal fratello di Steve Jobs all’architetto asimmetrico, al pappagallo RottamotuttoIO. C’è pure spazio persino per i versi di Omero. Ognuno ha una storia, una carat­teristica peculiare, e il chiacchiericcio insistente delle macchine e dei semafori porta allegria, ma anche qualche problema alle autorità presenti in un giorno importante per l’amicizia italo-tedesca con la riapertura del castello del paese". 
(Dalla copertina del libro)










mercoledì 24 dicembre 2014

"La vita fa rumore", G.Panella presenta il libro di Roberto Mosi

Roberto Mosi, La vita fa rumore, Teseo Ed. Frosinone 2014 Sottotitolo "Noi viviamo di lavoro"

GIUSEPPE PANELLA

IL RUMORE DELLA VITA DI ROBERTO MOSI
Poesia e lavoro

«Ancora vita il tuo dolce rumore
dopo giorni bui e muti riprende.
Porta il vento di maggio l’odore
del fieno, il cielo immobile splende.
Gli occhi stanchi colpisce di lontano
il rosso papavero in mezzo al tenero grano»
           (Attilio Bertolucci, Convalescente)

1. Il rumore del lavoro e la forza del ricordo

«La cultura viaggia nell’aria
suono di voci, note,
musica, fruscio di idee,
non porta degrado,
confonde facce di pietra
teste devote agli schermi»

Il punto di partenza di quest’ultimo progetto poetico di Roberto Mosi è legato a un fatto di cronaca che assume nei suoi versi una notevole importanza: la manifestazione avvenuta nel luglio del 2013 a Firenze in seguito a un’ordinanza che imponeva la chiusura alle ore ventidue dei locali della popolare Libreria Café de la Cité dove, invece, eventi culturali e attività musicali a essi connesse duravano fino a tarda ora, tra la rabbia e lo sconcerto degli abitanti del quartiere.
Il corteo che richiedeva il ripristino degli orari precedenti si era snodato, pur nell’afa estiva, pacifico ma molto colorito e vivacemente scandito dagli slogan gridati con forza e determinazione dai partecipanti alla lotta:

«Oggi si spalanca la porta:
si va in corteo, si parla
dell’essere alla città dell’avere.
Rabbia, lavoro che muore
sepolto il progetto di anni
oltre il senso comune.

Sul sagrato del Carmine
s’inchiodano cartelli
nell’afa di luglio:
“No alla città vetrina”
“La noia è normalità”
“Adotta un libraio”»

Il rumore prodotto dalla vita è esibito quale conferma del suo non conformismo e della sua progettualità, l’idea di un ritorno alla normalità dopo la dimostrazione che qualcosa di nuovo e di originale poteva essere perseguito scatena la rabbia di chi pensava che almeno qualche spazio di libertà sarebbe stato lasciato aperto per l’invenzione e la gioia di vivere da parte di chi vuole ridurre tutto a noia e a normalità, a consumo e ad esibizione di un’esistenza fasulla e legata esclusivamente all’avere. Ma non è una pura questione di rumore quella sollevata da Roberto Mosi: la posta in gioco è più alta ed è legata al problema del lavoro, della sua potenza, della sua mancanza.
In molti dei componimenti che seguono, infatti, il tono rievocativo si tinge di un pathos molto intenso. Il ricordo delle lotte del passato tinge di rimpianto e lo sciopero delle trecciaiole (nella poesia omonima) ne diventa il simbolo perduto.

«Tosca, cerco i fiori del bello
in periferia al calore delle utopie,
fiori rossi degli anni pari e dispari».

Il calore dell’utopia legata alla forza trasformatrice del lavoro e delle lotte organizzate per renderlo più umano e più equamente rimunerato riverbera in queste parole e si trasforma in un ritratto di donna (Tosca che avanza, il suo bambino in braccio, simbolo di un Quarto Stato ancora a venire ma sempre indomabile e impossibile da ricondurre nell’ambito della pura normalità produttiva).
La descrizione dei luoghi del lavoro si lega a quella delle lotte attuali di chi chiede “pane e lavoro” (lo slogan caro a Lenin e ai bolscevichi fin dal 1905 e sempre replicato con la stessa forza e insistenza nelle manifestazioni operaie). 
Qui lo scenario è diverso da quello della San Pietroburgo o della Mosca d’inizio secolo ma l’obiettivo è pur sempre quello e le forze addette alla sua repressione appaiono le stesse, ferreamente scagliate a proteggere i privilegi dei troppi pochi in grado di assicurare livelli decenti di vita ai molti che non possono averne la possibilità:

«Le tute blu arrivano da Rifredi
la polizia è schierata, sbuca
dai portici la camionetta, 
picchiano forte i manganelli,
si grida in coro pane e lavoro.

Le Giubbe Rosse sono sbarrate,
i poeti scomparsi.

La musica è delle sirene,
i versi le urla degli operai»

La dimensione culturale non può che essere accantonata e tacere in un contesto simile.
Nel fuoco e nel furore della lotta, la poesia non è in grado di far sentire la propria voce: i versi sono ingoiati dalle urla di rabbia degli operai in cassa integrazione o licenziati, la musica è rappresentata dalle sirene delle auto della polizia. Eppure anche in un contesto di questo tipo c’è spazio per la scrittura e per il suo potere di ricordo e d’incitamento a prendere la parola, di non cedere, di ritrovare una verità di là dalle menzogne e dell’oblio. In un testo successivo, una delle protagoniste di una manifestazione per la Festa delle Donne dell’8 marzo invita chi scrive a farsi voce e memoria del passato e del presente delle lotte:

«Federiga, le compagne
tornano a difendere
il silenzio della fabbrica.
Fosca mi accompagna
sull’argine del fosso:
“Parla delle nostre idee,
tessi il filo della memoria”».

La dimensione operaia e popolare predomina in questa prima parte della raccolta: le voci e le testimonianze dei protagonisti diretti, la nostalgia per un’epoca ormai definitivamente tramontata, la necessità di mantenerne viva la memoria, la forza dell’evocazione e il rimpianto per non essere più protagonisti in una stagione rinnovata di presa di coscienza e di emergenza delle lotte, tutto questo contraddistingue la scrittura poetica di questa sezione del poemetto (nonostante la suddivisione in liriche apparentemente singole e collocate isolatamente, infatti, non vedo una netta separazione narrativa nell’ispirazione fluida che caratterizza questi testi nella loro continuità e tenderei a considerarli, piuttosto, come un unico flusso po’ematico, un poemetto suddiviso in altrettanti stasimi):

«Sento il pianto dei bimbi, 
voci, grida d’amore.

Il cortile centrifuga giorni 
stagioni vicine e lontane,
la memoria dei volti.
Un vortice all’alba
disperde sogni e ricordi
nell’aria rossa della città.
I gatti sulle terrazze
si stirano languidi»

Anche i luoghi della condizione operaia (per dirla con Simone Weil) non sfuggono alla descrittività ricca di pathos di Mosi e i cortili delle case operaie sono rappresentati come il luogo privilegiato della loro soggettività dopo il momento dell’alienazione nel lavoro. Il cortile in cui risuonano i pianti dei bambini, le urla delle coppie che litigano o i gemiti di quelle che fanno l’amore ne è la rappresentazione più esatta e, nello stesso tempo, simbolicamente esaltata dal contesto. 
In esso tutto ciò che è accaduto nel tempo, i bisogni e i ricordi, le passioni, i desideri e il dolore di vivere si confondono in un’atmosfera irreale come di sogno astratto ma la caduta in una drammaticità estranea al tono stilistico generale dell’opera è impedita, quasi bloccata, dall’ironica presenza dei gatti ieratici e pigri che “si stirano languidi” sulle terrazze, una sorta di contrappunto animale e appagato rispetto all’insoddisfatta rabbia e nostalgia che caratterizza le vicende degli umani. Il guizzo rappresentato dai felini appollaiati sui tetti impedisce la caduta in un pathos eccessiva e mostra le due facce della scrittura di Mosi: la lirica coinvolgente e sostenuta da un’autentica passione e la bonaria capacità di smontarla e di decostruirla in nome di un appello a sentimenti meno esasperati e più legati alla quotidianità.
Così i migranti, i lavavetri, i raccoglitori di pomodori nella Maremma e quelli di arance a Rosarno sono riscattati nel loro dolore e nella loro rabbia da uno sguardo che li coglie nella loro umanità e non ne fa solo simboli di una condizione umana tenuta sotto il giogo ferreo della necessità di sopravvivere ma li coglie nella loro dimensione di persone che sanno reagire all’abbattimento in cui si trovano e rivendicano la loro personalità di esseri viventi.
Alle mani bianche degli operai del primo (come pure del secondo) Novecento sono sostituite quelle nere del nuovo Millennio: mani atte a lavorare anch’esse e anch’esse sfruttate senza pietà, spremute ai limiti del possibile da un feroce meccanismo che da esse ricava ciò che può e che vuole e che poi le emargina e le accantona ai bordi dell’esistenza comune degli altri componenti della compagine sociale che subiscono certamente lo stesso sfruttamento ma spesso in maniera meno diretta e devastante, lasciando così loro l’illusione che il trattamento ad essi riservato sarà del tutto diverso e che con le “mani nere” essi non avranno mai niente a che fare.

2. Il lavoro e le sue facce molteplici

Il lavoro, dunque, si è visto, è al centro di quest’accorata raccolta di versi di Mosi.
Il poeta fiorentino non si concentra solo sullo sfruttamento e sull’angoscia che esso produce nelle sue vittime predestinate. Il lavoro è guardato  talvolta con la lente deformata del grottesco e della satira sociale. E’ il caso di Federigo, impiegato presso una ditta di pompe funebri, che accorre in mano il catalogo delle bare ogni volta che apprende dell’esistenza di un moribondo che sia un potenziale cliente. Il lavoro dell’infermiera dell’ospedale psichiatrico (quello ormai chiuso da qualche tempo di San Salvi) e quello dell’addetta alle pulizie in un vagone delle Ferrovie dello Stato (la donna telefona al suo fidanzato di aspettarla all’arrivo del treno, direttamente al binario dieci della stazione, in modo da avere più tempo per l’amore) sono visti con rispetto e, nel secondo caso, con un tocco di tenerezza e di sentimentale affezione.
Il lavoro è – anche secondo Mosi – la difficile conquista del Novecento che rischia di andare perduta nel nuovo Millennio e tornare a essere difficilmente raggiungibile (ed equamente remunerato) com’è accaduto nell’Ottocento dell’egemonia capitalistica e del trionfo della grande industria. Non avere lavoro o perderlo è ormai la grande paura di tutti i salariati e dei lavoratori dipendenti ed è giusto, quindi, che la poesia si faccia carico della natura profonda di questo problema così bruciante, così attuale.
Ma è lavoro anche l’attività artistica e, di conseguenza, il teatro. Mosi rinnova il suo interesse per l’opera lirica, ad esempio, e aggiunge alla raccolta un suo personale omaggio a Giuseppe Verdi:

«Emerge l’immagine:
comparsa in costume
vestito da frate, da principe
da soldato e da servo
sulle assi del palcoscenico.

Don Giovanni, Carmen
Lucia di Lammermour.
Maschere si affacciano,
personaggi vestiti di musica
danzano sulle cornici 
bianche di calce, 
scivolano in platea, 
Carmen e Radames,
salgono nelle luci del palco 
corrono tenendosi per mano
nel vortice delle note»

che suona anche come un omaggio dovuto alla fatica diuturna degli artisti e alla loro capacità di rendere la vita altrui talvolta più leggera e meno schiacciata dal dolore quotidiano di vivere.
Anche il mito classico partecipa di quest’atmosfera di cauta leggerezza, di deliberata sospensione del giudizio, di assonnata partecipazione a metà. Anche gli ieri di ieri sono fatti della stessa materia di cui sono costituiti quelli di oggi. Anche Ulisse e il suo nostos a Itaca:

«L’eroe raggiunge 
la reggia nel sonno.
Penelope dorme stizzita
Arturo saluta, la coda ritta.
L’eroe guarda la posta,
dispone in ordine le armi
si distende sul letto,
il risveglio è vicino.

Ogni sera Ulisse
torna ad Itaca»

La poesia di Mosi, dunque, si distende tra i due poli (a lui consueti) del pathos duro e veemente della partecipazione e dell’ironica verifica degli stilemi di un passato divenuto eterno nell’immaginario collettivo. Tra mito e modernità, allora, si apre per lui lo spazio della poesia: uno spazio da riempire con la forza delle idee e delle soluzioni verbali.
Disegno Enrico Guerrini 




"IN RETE" Rivista Area di Broca, alle Oblate 10 gennaio 2015


La S.V. è invitata alla presentazione del fascicolo
della rivista
l’area di Broca
Sabato 10 gennaio 2015, ore 17
Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze – piano terra
Via dell’Oriuolo, 26, Firenze
Intervengono: Massimo Acciai, Silvia Batisti, Mariella Bettarini,
Michele Brancale, Maria Grazia Cabras, Tommaso Cecconi,
Graziano Dei, Arnaldo Di Ienno, Alessandro Franci,
Gabriella Maleti, Maria Pia Moschini, Roberto Mosi,
Paolo Pettinari, Aldo Roda, Luciano Valentini

domenica 21 dicembre 2014

NON OLTREPASSARE LA LINEA GIALLA di Roberto Mosi

Roberto Mosi, Non oltrepassare la linea gialla - Europa Edizioni, 2014. 

“Divertente e spiazzante. Sono due tra gli aggettivi possibili per descrivere questo testo di Roberto Mosi, dove in poche pagine succedono molte cose e vengono narrate altrettante storie. I protagonisti, come in un romanzo dagli echi futuristi, sono le macchine – destinate a trascorrere il loro tempo, dopo aver percorso fior di chilometri, nel cimitero delle macchine – e due semafori della stazione di Salorno, località famosa per il suo castello. In questi due luoghi vicini si possono incontrare vari personaggi che scendono o salgono sui treni, dal fratello di Steve Jobs all’architetto asimmetrico, al pappagallo RottamotuttoIO. C’è pure spazio persino per i versi di Omero. Ognuno ha una storia, una caratteristica peculiare, e il chiacchiericcio insistente delle macchine e dei semafori porta allegria, ma anche qualche problema alle autorità presenti in un giorno importante per l’amicizia italo-tedesco con la riapertura del castello del paese"
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domenica 14 dicembre 2014

Jhumpa Lahiri e l'amore per la lingua italiana -"Quel Natale a Firenze di 25 anni fa" - Il romanzo "La moglie"




Jhumpa Lahiri, quel “fatale” Natale fiorentino di venticinque anni fa

Un incontro letterario ha animato la settimana passata Villa Arrivabene, sede del Quartiere Due di Firenze, dove si tengono i seminari della Scuola di Scrittura Creativa di Semicerchio, Rivista di poesia comparata diretta da Francesco Stella. Si è incontrata con i cittadini del Quartiere e con i corsisti, Jhumpa Lahiri, scrittrice statunitense di origine bengalese, nata a Londra da genitori bengalesi nel 1967. E’ membro dell’American Academy of Arts and Letters, premio Pulitzer per la narrativa nell’anno 2000, con il libro L’interprete dei malanni. Ha trascorso l’infanzia e la giovinezza negli Stati Uniti, nel Rhode Island, e ora vive e lavora fra New York e Roma. I quotidiani e settimanali italiani hanno parlato più volte di questo personaggio, di notevole fascino personale e culturale, “la più trendy tra gli scrittori e le scrittrici anglosassoni della generazione dei quarantenni, star della rivista “New Yorker”, donna di scrittura fine, delicata, che nei suoi libri indaga sulle molteplici identità degli uomini del nostro tempo.”

Uno degli aspetti che ha richiamato l’attenzione dei media italiani è la passione di Jhumpa Lahiri per la lingua e la cultura italiana, per il suo recente impegno di scrittura nella nostra lingua.  Si è laureata in studi rinascimentali e dal 2012 risiede per lunghi periodi a Roma. Un settimanale riporta: “Venticinque anni fa, un Natale trascorso a Firenze l’ha convinta a che “inglese e bengalese sono lingue che mi sono state imposte, dai genitori e dal luogo dove sono cresciuta. L’italiano è invece qualcosa che ho voluto imparare per me stessa. E per studiarlo davvero mi sono trasferita; per fare l’esperienza della lingua attraverso la vita vera”.

Questo uno degli affascinanti argomenti sviluppati nella sala consiliare di Villa Arrivabene, sulla conquista di un’identità “differente” da parte dei personaggi dei suoi racconti e romanzi, che sono quasi tutti stranieri alla ricerca di nuovi luoghi e contesti dove vivere. Lahiri a Roma ha cercato di trasformare la letteratura, che per lei significa la narrazione dell’esilio e d’identità incerte e labili, in vita vera”.  La
discussione ha preso l’avvio dal romanzo La moglie (Guanda 2013). La storia investe regioni dell’India e degli Stati Uniti, contesti lontani e “incomunicabili”. I fratelli Subhash e Udayan - nati in un sobborgo di Calcutta negli anni tormentati dell'indipendenza indiana - si somigliano al punto che perfino i parenti li confondono tra loro, ma sono anche l'uno l'opposto dell'altro. Subhash, silenzioso e riflessivo, cerca di compiacere i genitori esaudendo ogni loro richiesta; Udayan, ribelle ed esuberante, non fa che mettere alla prova il loro affetto. Così, quando sul finire degli anni Sessanta nelle università bengalesi si diffonde la rivolta di un gruppo maoista contro le millenarie ingiustizie subite dai contadini, Udayan vi si getta anima e corpo, pur consapevole dei rischi; Subhash invece se ne tiene alla larga e preferisce partire per gli Stati Uniti. I loro percorsi sembrano divergere inesorabilmente: Subhash intraprende una tranquilla carriera di studioso in una cittadina sulle coste del Rhode Island, mentre Udayan, contravvenendo alle tradizioni, sceglie di sposarsi per amore con Gauri, una giovane studentessa di filosofia, affascinata dal suo carisma e dalla sua passione. Poi la tragedia irrompe, improvvisa e distruttiva. Quando Subhash scopre cosa è accaduto a Udayan nella spianata dove da bambini trascorrevano intere giornate a giocare, si sente in dovere di tornare a Calcutta per farsi carico della sua famiglia e curare le ferite causate dal fratello, a partire da quelle che segnano il cuore di Gauri.

Dalle risposte di Lahiri nel corso della conversazione con i relatori – Antonella Francini, responsabile per la narrativa dei Seminari, e Sara Simonelli, Terza Università di Roma – e con il pubblico, si appende che il romanzo, realizzato dopo un primo periodo dedicato ai racconti - è nato da un lavoro continuato per dieci anni: una prima parte per cercare la “voce” e i tempi del romanzo (risolto il primo aspetto con una narrazione in terza persona) e una seconda parte, trascorsa con la consapevolezza che la scrittura è come percorrere la strada con una macchina, con l’impiego delle diverse marce. La seconda parte del lavoro – cinque anni –è servita per fare emergere, da un mondo indistinto il carattere dei personaggi, aprire un colloquio quasi giornaliero con ognuno di essi, catturare il loro sguardo sui diversi paesaggi, paesaggi che acquistano un’anima e diventano loro stessi dei personaggi. Lahiri ha visitato, vissuto ogni luogo che descrive, ricerca la visione, le sensazioni degli altri, a cominciare dai familiari e dagli amici. In questo impegno, un’avvertenza costante è che il dettaglio deve avere un’importanza pari alla trama. 


La scrittrice americana, di origine bengalese, ha dichiarato nel corso dell’incontro che ritiene centrale il momento della lettura, alla quale deve essere sacrificato il tempo dello scrivere. Ha frequentato, all’origine del suo percorso, una scuola di scrittura creativa per un anno e la sua sensazione è che i corsi, più che aggiungere competenze, danno sicurezza per compiere i primi passi. Si è creata un piccolo gruppo di conoscenti per saggiare i suoi lavori prima della pubblicazione. Al momento si avvale, nel passaggio iniziale per la nuova lingua, di un gruppo di amici italiani, ma sa che la stella polare è rappresentata dalla lettura degli autori e cita, in particolare, Pavese, Pasolini, Calvino, Tabucchi. Ci sembra un buon viatico per l’affascinante Lahiri, sospesa a cavallo fra lingue e culture diverse, che per un pomeriggio ha sospeso i suoi viaggi e si è soffermata con noi nella sala degli incontri di Villa Arrivabene.

(Foto di AnnaMaria Volpini - Testo di Roberto Mosi e Annamaria Volpini)