Jhumpa Lahiri, quel “fatale” Natale fiorentino di
venticinque anni fa
Un incontro letterario ha animato la settimana
passata Villa Arrivabene, sede del Quartiere Due di Firenze, dove si tengono i
seminari della Scuola di Scrittura Creativa di Semicerchio, Rivista di poesia
comparata diretta da Francesco Stella. Si è incontrata con i cittadini del
Quartiere e con i corsisti, Jhumpa Lahiri, scrittrice
statunitense di origine bengalese, nata a Londra da genitori bengalesi nel
1967. E’ membro dell’American Academy of Arts and Letters, premio Pulitzer per
la narrativa nell’anno 2000, con il libro L’interprete
dei malanni. Ha trascorso l’infanzia e la giovinezza negli Stati Uniti, nel
Rhode Island, e ora vive e lavora fra New York e Roma. I quotidiani e
settimanali italiani hanno parlato più volte di questo personaggio, di notevole
fascino personale e culturale, “la più trendy tra gli scrittori e le scrittrici
anglosassoni della generazione dei quarantenni, star della rivista “New
Yorker”, donna di scrittura fine, delicata, che nei suoi libri indaga sulle
molteplici identità degli uomini del nostro tempo.”
Uno degli aspetti che ha richiamato l’attenzione dei
media italiani è la passione di Jhumpa Lahiri per la lingua e la cultura
italiana, per il suo recente impegno di scrittura nella nostra lingua. Si è laureata in studi rinascimentali e dal
2012 risiede per lunghi periodi a Roma. Un settimanale riporta: “Venticinque
anni fa, un Natale trascorso a Firenze l’ha convinta a che “inglese e bengalese sono lingue che mi sono
state imposte, dai genitori e dal luogo dove sono cresciuta. L’italiano è
invece qualcosa che ho voluto imparare per me stessa. E per studiarlo davvero mi
sono trasferita; per fare l’esperienza della lingua attraverso la vita vera”.
Questo uno degli affascinanti argomenti sviluppati nella
sala consiliare di Villa Arrivabene, sulla conquista di un’identità
“differente” da parte dei personaggi dei suoi racconti e romanzi, che sono
quasi tutti stranieri alla ricerca di nuovi luoghi e contesti dove vivere.
Lahiri a Roma ha cercato di trasformare la letteratura, che per lei significa
la narrazione dell’esilio e d’identità incerte e labili, in vita vera”. La
discussione ha preso l’avvio dal
romanzo La moglie (Guanda
2013). La storia investe regioni dell’India e degli Stati Uniti, contesti
lontani e “incomunicabili”. I fratelli Subhash e Udayan - nati in un sobborgo
di Calcutta negli anni tormentati dell'indipendenza indiana - si somigliano al
punto che perfino i parenti li confondono tra loro, ma sono anche l'uno
l'opposto dell'altro. Subhash, silenzioso e riflessivo, cerca di compiacere i
genitori esaudendo ogni loro richiesta; Udayan, ribelle ed esuberante, non fa
che mettere alla prova il loro affetto. Così, quando sul finire degli anni
Sessanta nelle università bengalesi si diffonde la rivolta di un gruppo maoista
contro le millenarie ingiustizie subite dai contadini, Udayan vi si getta anima
e corpo, pur consapevole dei rischi; Subhash invece se ne tiene alla larga e
preferisce partire per gli Stati Uniti. I loro percorsi sembrano divergere
inesorabilmente: Subhash intraprende una tranquilla carriera di studioso in una
cittadina sulle coste del Rhode Island, mentre Udayan, contravvenendo alle
tradizioni, sceglie di sposarsi per amore con Gauri, una giovane studentessa di
filosofia, affascinata dal suo carisma e dalla sua passione. Poi la tragedia
irrompe, improvvisa e distruttiva. Quando Subhash scopre cosa è accaduto a Udayan
nella spianata dove da bambini trascorrevano intere giornate a giocare, si
sente in dovere di tornare a Calcutta per farsi carico della sua famiglia e
curare le ferite causate dal fratello, a partire da quelle che segnano il cuore
di Gauri.
Dalle risposte di Lahiri nel corso della conversazione
con i relatori – Antonella Francini, responsabile per la narrativa dei
Seminari, e Sara Simonelli, Terza Università di Roma – e con il pubblico, si
appende che il romanzo, realizzato dopo un primo periodo dedicato ai racconti -
è nato da un lavoro continuato per dieci anni: una prima parte per cercare la
“voce” e i tempi del romanzo (risolto il primo aspetto con una narrazione in
terza persona) e una seconda parte, trascorsa con la consapevolezza che la
scrittura è come percorrere la strada con una macchina, con l’impiego delle diverse
marce. La seconda parte del lavoro – cinque anni –è servita per fare emergere,
da un mondo indistinto il carattere dei personaggi, aprire un colloquio quasi
giornaliero con ognuno di essi, catturare il loro sguardo sui diversi paesaggi,
paesaggi che acquistano un’anima e diventano loro stessi dei personaggi. Lahiri
ha visitato, vissuto ogni luogo che descrive, ricerca la visione, le sensazioni
degli altri, a cominciare dai familiari e dagli amici. In questo impegno,
un’avvertenza costante è che il dettaglio deve avere un’importanza pari alla
trama.
La scrittrice americana, di origine bengalese, ha
dichiarato nel corso dell’incontro che ritiene centrale il momento della
lettura, alla quale deve essere sacrificato il tempo dello scrivere. Ha
frequentato, all’origine del suo percorso, una scuola di scrittura creativa per
un anno e la sua sensazione è che i corsi, più che aggiungere competenze, danno
sicurezza per compiere i primi passi. Si è creata un piccolo gruppo di
conoscenti per saggiare i suoi lavori prima della pubblicazione. Al momento si
avvale, nel passaggio iniziale per la nuova lingua, di un gruppo di amici
italiani, ma sa che la stella polare è rappresentata dalla lettura degli autori
e cita, in particolare, Pavese, Pasolini, Calvino, Tabucchi. Ci sembra un buon
viatico per l’affascinante Lahiri, sospesa a cavallo fra lingue e culture
diverse, che per un pomeriggio ha sospeso i suoi viaggi e si è soffermata con
noi nella sala degli incontri di Villa Arrivabene.
(Foto di AnnaMaria Volpini - Testo di Roberto Mosi e Annamaria Volpini)
(Foto di AnnaMaria Volpini - Testo di Roberto Mosi e Annamaria Volpini)
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