Roberto Mosi, L’invasione
degli storni, Firenze, Gazebo edizioni, 2012, pp. 44, s.i.p. - Recensione: Annalisa Macchia in Erba d'Arno, nn. 130-131
L’invasione
degli storni nasce da una suggestione
del racconto Palomar di Italo Calvino
e si evolve in una scrittura poetica ricca di riferimenti letterari e di spunti
tesi ad approfondire la relazione tra testo poetico e immagine.
Nell’affrontare questa nuova opera di Roberto Mosi non
si può tuttavia prescindere dalla conoscenza delle ultime due precedenti
raccolte poetiche: Luoghi del Mito
(2010) e Nonluoghi (2009) in cui si
analizzava la condizione di un mondo ormai senza riferimenti, anestetizzato dal
degrado e incapace di risalire verso dimensioni umanamente più accettabili. La
salvezza potrebbe essere nell’uomo stesso, suggeriva Mosi, agganciandosi al
ricordo di un mitico, armonioso passato e nella sua capacità di ritrovare in sé
un nuovo equilibrio nei confronti della natura.
Quest’ultimo testo, preceduto da un’approfondita
prefazione di Giuseppe Panella, viaggio “dal mare dell’immondizia allo schermo
traslucido della coscienza” ed estremo tentativo di scendere a più armoniosi
patti con la Natura, qui in maggior misura presente con le sue voci, chiude il
cerchio di questa non annunciata ma evidente trilogia.
Il libro è suddiviso in tre parti: Valle dell’Inferno, Via del Purgatorio e Nuovo
Cinema Paradiso. L’architettura vagamente dantesca, confermata dalla
presenza di Gabriella, musa ispiratrice e novella Beatrice e dalla toscana
geografia, delinea inizialmente una campaniana radura del Mugello (provincia
fiorentina), luogo di Follia per eccellenza “[…] Congestione di rifiuti
urbani/ nelle discariche a cielo aperto
[…]”, dove la simbolica presenza dell’immondizia regna sovrana; pesante
groviglio che tiene lontani dall’Armonia. Il passaggio al Purgatorio, la Sala
d’Attesa di un Reparto ospedaliero “[…] Passi sulla sabbia tra miraggi/
evanescenti, il Tumore/ tesse il tempo dell’Attesa […]” , segna l’altra
dolorosa tappa, la fatica di scuotersi dalle spalle il male che, consapevolmente o
inconsapevolmente, ci schiaccia. Inevitabile per prendere coscienza del futuro,
per giungere a quella salvifica realtà sognata e finora negata, a una
dimensione più autentica della vita. […] L’ultimo chiarore scompare,/ l’ombra
sale dalle strade/ sommerge le cupole,/ le tegole dei tetti,/ inghiotte il volo
delle piume./ Nei nidi appesi alle gronde/ riposano i racconti del mondo,/ la testa sotto le ali”.
L’autore, costantemente impegnato sul fronte della
cultura (è stato dirigente della Cultura alla Regione Toscana), anche in
quest’opera dispiega la sua parola poetica per confermare la volontà di non
cedere, di non venire meno all’immenso impegno cui ogni uomo è chiamato venendo
al mondo. La poesia, ne è cosciente, non potrà mai offrire certezze, risposte
definitive; può tuttavia regalarci l’esperienza di un sogno, di una ricerca, di
un cammino. O, forse, di un “volo”.
(Annalisa
Macchia)