lunedì 18 febbraio 2019

"L'invasione degli storni" (Gazebo Libri) e il successo di un'immagine


Foto di copertina di Simone Guidotti

Prefazione di Giuseppe Panella

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Roberto Mosi
L’invasione degli storni

Raccolta di poesie
Presentazione di Giuseppe Panella


                                                       A Gabriella,
                                       il respiro, il volo di un giorno


Prefazione


    Dalla terrazza di casa osservo curioso le evoluzioni degli storni, ora si compongono in gruppi sempre più densi, ora si disperdono ai quattro angoli del cielo. A momenti si presentano secondo un ordine rassicurante, in altri, a sorpesa, ogni piccola parte del gruppo sembra una scheggia impazzita.
   
     Il mio sguardo coglie l’insieme dei voli, l’insieme dell’invasione degli storni. Ogni piccolo storno è un frammento, l’episodio di una narrazione affidata al canto della poesia, un racconto, una storia del nostro continuo divenire in un mondo instabile, senza un centro, che, tuttavia, nell’incrociarsi delle narrazioni trova momenti di gioia e quasi di certezza, che poi sfumano, sembra, nel nulla, solo per ritrovarsi compatti in un’altra parte del cielo sopra la nostra testa.
   
     Dalla terrazza  scorgo, a ben vedere, uno stormo più grande degli altri,  diviso, al suo interno, in tre parti, in una trilogia. Ricorda la forma tripartita della Commedia di Dante e  mostra i tratti di un sentiero che parte dal basso, dalle macerie della nostra storia, che ingombrano i giorni del nostro presente, la nostra Valle dell’Inferno. Il passaggio successivo del sentiero mostra l’incontro con storie di dolore e di sofferenza, la Via del Purgatorio. L’arrivo, infine, alla parte più elevata del monte, dove è possibile assaporare  frutti rari, gustosi – Nuovo Cinema Paradiso. A ben vedere, gli storni di questo ultimo gruppo, hanno per ali piccole strisce di celluloide e, per piume, i versi della poesia.
   
     Dalla terrazza in lontananza, nella parte più alta del cielo, vedo un altro gruppo in volo fra le nubi rossastre del tramonto, che prendono le sembianze di imponenti personaggi del mito. Evocano immagini da sempre impresse nelle nostre menti, sono la fonte di racconti che si rinnovano continuamente alla luce delle esperienze del nostro vivere quotidiano, sono i racconti del mito.
 
    Dalla terrazza affacciata sulla città, colgo  il volo di un ultimo stormo, che rasenta i tetti delle case, passa sopra i rumori, lo stridio delle piazze, dei mercati, delle stazioni, raccoglie frammenti di storie, fili ininterrotti di racconti, le storie della città (dei nonluoghi).
 
    La giornata ormai si è compiuta, si approssima la notte:

L'ultimo chiarore scompare
l'ombra sale dalle strade
sommerge le cupole,
le tegole dei tetti,
inghiotte il volo delle piume.
Nei nidi appesi alle gronde
riposano i racconti del mondo,
la testa sotto le ali.



                                                                                        R.  M.
 




Giuseppe Panella
LA RIVOLTA DEGLI UCCELLI MIGRATORI


«Nell’aria viola del tramonto egli guarda affiorare da una parte del cielo un pulviscolo minutissimo, una nuvola d’ali che volano. S’accorge che sono migliaia e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa. Quella che fin qui gli era sembrata un’immensità tranquilla e vuota si rivela tutta percorsa da presenze rapidissime e leggere. Rassicurante visione, il passaggio degli uccelli migratori, associato nella nostra memoria ancestrale all’armonico succedersi delle stagioni; invece il signor Palomar sente come un senso di apprensione. Sarà perché questo affollarsi del cielo ci ricorda che l’equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso d’insicurezza proietta dovunque minacce di catastrofe?»

E’ da questo spunto narrativo di Italo Calvino contenuto in Palomar del 1983[1] che Mosi fa partire il suo nuovo libro di poesie. In esso, tuttavia, proprio per creare un legame di continuità con i testi  precedenti, compaiono alcune poesie presenti in essi, in particolari spezzoni lirici presenti in Luoghi del mito (che è del 2010) e in Nonluoghi (che è, invece, del 2009). Alla ricostruzione di aspetti particolari del mondo animale si associa il ritorno alla dimensione “modernizzata” del mondo mitico che contraddistingueva il precedente scritto di Mosi e l’indagine sulla “de-localizzazione” della poesia che, invece, era presente in quello scritto ancora prima. In sostanza, con questa ultima produzione, si va precisando una sorta di deliberata trilogia poetica (cui lo stesso autore allude nella prefazione al volumetto). In essa, alla descrizione di un mondo contemporaneo ormai degradato e senza centro, spesso incapace o inadeguato a prendere in considerazione la necessità di un cambiamento che lo conduca verso una dimensione più armonica della condizione umana (i Nonluoghi), si giustappone il ricordo del passato mitico dell’archetipo, l’uomo di sempre, quello che ha ancora in sé la possibilità di ritrovarsi e di impedire la distruzione del suo equilibrio interno in relazione alla natura. Nella terza parte, infine, è la Natura in scena con tutte le sue voci e con tutte le sue espressioni spesso mute ma non per questo meno espressive e capaci di mostrare il loro vero volto. E’ quello che accade nella parte iniziale dell’Invasione degli storni dove alla Valle dell’Inferno, luogo poetico e soprattutto campaniano per eccellenza, si aggiungono la Via del Purgatorio e il Nuovo Cinema Paradiso. Tre momenti in cui tra uomo e natura si crea un conflitto, si approfondisce e poi, forse utopisticamente  e un po’ idilliacamente, si risolve in una nuova alleanza. Nell’Inferno della radura del Mugello gli animali dimostrano tutta la loro perplessità circa il destino dell’uomo così come Gabriella, musa ispiratrice e novella Beatrice, indica la via:

«La cornacchia sfoglia  / le pagine, scuote la testa / mi spinge fuori dalla valle. / La cascata sbarra il sentiero / l’acqua scende fragorosa. / Salto tra le onde, sui massi / in cerca della via d’uscita. / Scopro la grotta oltre il salto / dell’acqua, Gabriella mi porge / la mano: “Dopo la valle / scoprirai il tempo dell’Attesa”»[2].

Nella Valle dell’Inferno il solo soccorso di Dino Campana non basta: la Follia è già dentro l’uomo e lo rinserra nella sua morsa. Nel luogo in cui la Natura dovrebbe trionfare e decomporre la Storia ormai decotta dalle sue stesse contraddizioni di sempre, emergono i frammenti e gli spezzoni dell’ uomo contemporaneo a contaminarla. Al posto dell’armonia del passato e della ricomposizione delle contraddizioni del presente, predominano le scaglie e i frantumi della civilizzazione presente che distrugge e inquina, invece che purificare separando ciò che dura da ciò che deve essere distrutto, ciò che è fatto per servire da quello che è puro prodotto del profitto. L’Inferno è dunque questo, l’Indistinto, il luogo nel quale tutto è mescolato e il puro è tratto nel gorgo dell’impuro:

«Congestione di rifiuti urbani / nelle discariche a cielo aperto, / i topi si tengono per la coda / fanno festa gabbiani in volo / gatti impigriti dal grasso. / Ogni rifiuto giunge alla meta / differenziato per contenitore, / la Coscienza divide i rifiuti. / Umido organico: scarti / di cucina, erbe del prato. / Carta e cartone: giornali, / libri, fumetti, quaderni. / Plastica: bottiglie d’acqua, / involucri, piatti, sacchetti / Vetro: vasetti, brocche, / specchi, lampade, bicchieri.  / Mondo virtuale: baci, amore, / passione, sentimento, emozione»[3].

Il tema della discarica come non luogo della postmodernità ricompare anche per attrazione nell’ultima parte del libro (nella sezione Periferie che già apparteneva ai Nonluoghi precedenti[4]) ed è un tema ormai topico nella disincantata metamorfosi del contemporaneo che allinea ironia e pathos nella scrittura matura di Mosi. Ma qui ha funzione eminentemente simbolica: i rifiuti sono ciò che appesantisce l’uomo e gli impedisce di essere ciò che vuole essere davvero, legato, com’è, alla “virtualità” dell’esistenza affettiva ed emozionale. L’Inferno è dunque il non luogo del consumo e della minaccia, della disarmonia tra la realtà sognata e il progetto globale che la nega in nome di una smodata e forsennata corsa al profitto: dunque, la negazione di una vita armoniosa. autentica.
Il Purgatorio è una Sala d’Attesa dove si scontano i peccati sotto forma di malattia. Il luogo della sofferenza, della ricerca di una guarigione che si fa aspettare infliggendo sofferenza e disagio a chi ne è la vittima spesso incolpevole, spesso inconsapevole, sempre timorosa e schiacciata dal male:

«Nella Sala d’Attesa l’odore / dell’alcol, il battito del tamburo / la pelle secca della lingua. / Folla nella Sala d’Attesa / la porta aperta sul Reparto, / il gioco degli scacchi, / per pedine la vita e la morte. / Passi sulla sabbia tra miraggi / evanescenti, il Tumore / tesse il tempo dell’Attesa. / Il maglio colpisce la facciata / abbatte la parete di rosso / un boato invade l’ospedale. / Tra le gru e le escavatrici / sopravvive solo il Reparto»[5].

Ed è nel Reparto che si consuma l’Attesa fatta di squallore, sofferenza, assenza; tra le sue mura fatte di gesso e di lacrime si cerca se stessi e ci si accinge a rinnovare la propria dimensione più profonda per essere di nuovo capaci di vivere e di giungere a quel Paradiso fatto di illusioni e di felicità che è la Fabbrica dei Sogni. Nel Reparto incombe il Ragno che tesse la tela del destino, che scandisce il passare del tempo, che annota e trattiene i passi di chi vorrebbe fuggirne ma non può. Chi ci riesce, infine, si slancia alla ricerca di qualcosa che prima, nel Reparto, gli era stato negato e che solo ora prende consistenza – ed è “la materia di cui sono fatti i sogni”:

« ”Suona la mia canzone, / Sam. Come a quel tempo”. / Implora dallo schermo, / lo sguardo di Ingrid, vago il suo sorriso. /  “Canta: As Time Goes By”. / Ripeto le sue parole, / seguo Gabriella nel film. / Sono alle spalle di Bogart / sulla pista dell’aeroporto, / sento le parole dell’addio. // La mia mano non stringe / Gabriella, la poltrona è vuota»[6].

La vita è fatta di illusioni e di sogni proiettati su un telone che si illumina della gioia immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della Luna. Il Paradiso è perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova a raccontarci come è andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta qui, resa immobile e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di volare. Quando ci riesce, allora, si “illumina d’immenso”.

 



[1] I. CALVINO, Palomar, con una presentazione dell’autore, Milano, Mondadori, 19942, p. 64.
[2] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 11.
[3] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 9.
[4]Discariche di squallore /  sotto i ponti dell’autostrada / vicini alla città, fulgore d’immagini, / di colori spruzzati sui piloni. // Attraversoo correndo la sera, / verso la campagna. / Graffiti mi accolgono in galleria, / parlano ogni volta /  del fantastico creatore. // Ieri da una collina in rosa / mi ha salutato la pecora Dolly, / di fronte il gregge assorto / delle pecore normali, / al centro l’albero della vita / per frutti televisori / missili e computer“ (R. MOSI, L’invasione degli storni, pp. 55-56).
[5] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 13.
[6] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 20.







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