Foto di copertina di Simone Guidotti
Prefazione di Giuseppe Panella
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Roberto Mosi
L’invasione
degli storni
Raccolta di poesie
Presentazione di Giuseppe Panella
A Gabriella,
il respiro, il volo di un giorno
Prefazione
Dalla terrazza di casa osservo
curioso le evoluzioni degli storni, ora si compongono in gruppi sempre più
densi, ora si disperdono ai quattro angoli del cielo. A momenti si presentano
secondo un ordine rassicurante, in altri, a sorpesa, ogni piccola parte del
gruppo sembra una scheggia impazzita.
Il mio sguardo coglie
l’insieme dei voli, l’insieme dell’invasione
degli storni. Ogni piccolo storno è un frammento, l’episodio di una
narrazione affidata al canto della poesia, un racconto, una storia del nostro
continuo divenire in un mondo instabile, senza un centro, che, tuttavia,
nell’incrociarsi delle narrazioni trova momenti di gioia e quasi di certezza, che
poi sfumano, sembra, nel nulla, solo per ritrovarsi compatti in un’altra parte
del cielo sopra la nostra testa.
Dalla terrazza scorgo, a ben vedere, uno stormo più grande
degli altri, diviso, al suo interno, in tre parti, in
una trilogia. Ricorda la forma
tripartita della Commedia di Dante e mostra
i tratti di un sentiero che parte dal basso, dalle macerie della nostra storia,
che ingombrano i giorni del nostro presente, la nostra Valle dell’Inferno. Il passaggio successivo del sentiero mostra
l’incontro con storie di dolore e di sofferenza, la Via del Purgatorio. L’arrivo, infine, alla parte più elevata del
monte, dove è possibile assaporare
frutti rari, gustosi – Nuovo
Cinema Paradiso. A ben vedere, gli storni di questo ultimo gruppo, hanno
per ali piccole strisce di celluloide e, per piume, i versi della poesia.
Dalla terrazza in lontananza,
nella parte più alta del cielo, vedo un altro gruppo in volo fra le nubi
rossastre del tramonto, che prendono le sembianze di imponenti personaggi del
mito. Evocano immagini da sempre impresse nelle nostre menti, sono la fonte di
racconti che si rinnovano continuamente alla luce delle esperienze del nostro
vivere quotidiano, sono i racconti del
mito.
Dalla terrazza affacciata sulla città,
colgo il volo di un ultimo stormo, che
rasenta i tetti delle case, passa sopra i rumori, lo stridio delle piazze, dei
mercati, delle stazioni, raccoglie frammenti di storie, fili ininterrotti di
racconti, le storie della città (dei
nonluoghi).
La giornata ormai si è compiuta, si approssima
la notte:
L'ultimo chiarore scompare
l'ombra sale dalle strade
sommerge le cupole,
le tegole dei tetti,
inghiotte il volo delle
piume.
Nei nidi appesi alle gronde
riposano i racconti
del mondo,
la testa sotto le ali.
R. M.
Giuseppe
Panella
LA RIVOLTA DEGLI UCCELLI MIGRATORI
«Nell’aria viola del tramonto egli guarda affiorare da una parte del
cielo un pulviscolo minutissimo, una nuvola d’ali che volano. S’accorge che
sono migliaia e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa. Quella che fin qui
gli era sembrata un’immensità tranquilla e vuota si rivela tutta percorsa da
presenze rapidissime e leggere. Rassicurante visione, il passaggio degli
uccelli migratori, associato nella nostra memoria ancestrale all’armonico
succedersi delle stagioni; invece il signor Palomar sente come un senso di
apprensione. Sarà perché questo affollarsi del cielo ci ricorda che
l’equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso d’insicurezza
proietta dovunque minacce di catastrofe?»
E’ da questo spunto narrativo di Italo Calvino contenuto in Palomar del 1983[1] che Mosi
fa partire il suo nuovo libro di poesie. In esso, tuttavia, proprio per creare
un legame di continuità con i testi
precedenti, compaiono alcune poesie presenti in essi, in particolari
spezzoni lirici presenti in Luoghi del
mito (che è del 2010) e in Nonluoghi
(che è, invece, del 2009). Alla ricostruzione di aspetti particolari del mondo
animale si associa il ritorno alla dimensione “modernizzata” del mondo mitico
che contraddistingueva il precedente scritto di Mosi e l’indagine sulla
“de-localizzazione” della poesia che, invece, era presente in quello scritto
ancora prima. In sostanza, con questa ultima produzione, si va precisando una
sorta di deliberata trilogia poetica (cui lo stesso autore allude nella
prefazione al volumetto). In essa, alla descrizione di un mondo contemporaneo
ormai degradato e senza centro, spesso incapace o inadeguato a prendere in
considerazione la necessità di un cambiamento che lo conduca verso una
dimensione più armonica della condizione umana (i Nonluoghi), si giustappone il ricordo del passato mitico dell’archetipo,
l’uomo di sempre, quello che ha ancora in sé la possibilità di ritrovarsi e di
impedire la distruzione del suo equilibrio interno in relazione alla natura.
Nella terza parte, infine, è la Natura in scena con tutte le sue voci e con
tutte le sue espressioni spesso mute ma non per questo meno espressive e capaci
di mostrare il loro vero volto. E’ quello che accade nella parte iniziale
dell’Invasione degli storni dove alla Valle
dell’Inferno, luogo poetico e
soprattutto campaniano per eccellenza, si aggiungono la Via del Purgatorio e il Nuovo Cinema Paradiso. Tre momenti in
cui tra uomo e natura si crea un conflitto, si approfondisce e poi, forse
utopisticamente e un po’ idilliacamente,
si risolve in una nuova alleanza. Nell’Inferno della radura del Mugello gli
animali dimostrano tutta la loro perplessità circa il destino dell’uomo così
come Gabriella, musa ispiratrice e novella Beatrice, indica la via:
«La cornacchia sfoglia / le
pagine, scuote la testa / mi spinge fuori dalla valle. / La cascata sbarra il
sentiero / l’acqua scende fragorosa. / Salto tra le onde, sui massi / in cerca
della via d’uscita. / Scopro la grotta oltre il salto / dell’acqua, Gabriella mi porge / la mano: “Dopo la
valle / scoprirai il tempo dell’Attesa”»[2].
Nella Valle dell’Inferno il solo soccorso di Dino Campana non basta: la
Follia è già dentro l’uomo e lo rinserra nella sua morsa. Nel luogo in cui la
Natura dovrebbe trionfare e decomporre la Storia ormai decotta dalle sue stesse
contraddizioni di sempre, emergono i frammenti e gli spezzoni dell’ uomo
contemporaneo a contaminarla. Al posto dell’armonia del passato e della
ricomposizione delle contraddizioni del presente, predominano le scaglie e i
frantumi della civilizzazione presente che distrugge e inquina, invece che
purificare separando ciò che dura da ciò che deve essere distrutto, ciò che è
fatto per servire da quello che è puro prodotto del profitto. L’Inferno è
dunque questo, l’Indistinto, il luogo nel quale tutto è mescolato e il puro è
tratto nel gorgo dell’impuro:
«Congestione di rifiuti urbani / nelle discariche a cielo aperto,
/ i topi si tengono per la coda / fanno festa gabbiani in volo / gatti
impigriti dal grasso. / Ogni rifiuto giunge alla meta / differenziato per
contenitore, / la Coscienza divide i rifiuti. / Umido organico: scarti / di
cucina, erbe del prato. / Carta e cartone: giornali, / libri, fumetti,
quaderni. / Plastica: bottiglie d’acqua, / involucri, piatti, sacchetti /
Vetro: vasetti, brocche, / specchi, lampade, bicchieri. / Mondo virtuale: baci, amore, / passione,
sentimento, emozione»[3].
Il tema della discarica come non luogo della postmodernità ricompare
anche per attrazione nell’ultima parte del libro (nella sezione Periferie che già apparteneva ai Nonluoghi precedenti[4]) ed è un
tema ormai topico nella disincantata metamorfosi del contemporaneo che allinea
ironia e pathos nella scrittura
matura di Mosi. Ma qui ha funzione eminentemente simbolica: i rifiuti sono ciò
che appesantisce l’uomo e gli impedisce di essere ciò che vuole essere davvero,
legato, com’è, alla “virtualità” dell’esistenza affettiva ed emozionale.
L’Inferno è dunque il non luogo del consumo e della minaccia, della disarmonia
tra la realtà sognata e il progetto globale che la nega in nome di una smodata
e forsennata corsa al profitto: dunque, la negazione di una vita armoniosa.
autentica.
Il Purgatorio è una Sala d’Attesa dove si scontano i peccati sotto forma
di malattia. Il luogo della sofferenza, della ricerca di una guarigione che si
fa aspettare infliggendo sofferenza e disagio a chi ne è la vittima spesso
incolpevole, spesso inconsapevole, sempre timorosa e schiacciata dal male:
«Nella Sala d’Attesa l’odore / dell’alcol, il battito del tamburo
/ la pelle secca della lingua. / Folla nella Sala d’Attesa / la porta aperta
sul Reparto, / il gioco degli scacchi, / per pedine la vita e la morte. / Passi
sulla sabbia tra miraggi / evanescenti, il Tumore / tesse il tempo dell’Attesa.
/ Il maglio colpisce la facciata / abbatte la parete di rosso / un boato invade
l’ospedale. / Tra le gru e le escavatrici / sopravvive solo il Reparto»[5].
Ed è nel Reparto che si consuma l’Attesa fatta di squallore, sofferenza,
assenza; tra le sue mura fatte di gesso e di lacrime si cerca se stessi e ci si
accinge a rinnovare la propria dimensione più profonda per essere di nuovo
capaci di vivere e di giungere a quel Paradiso fatto di illusioni e di felicità
che è la Fabbrica dei Sogni. Nel Reparto incombe il Ragno che tesse la tela del
destino, che scandisce il passare del tempo, che annota e trattiene i passi di
chi vorrebbe fuggirne ma non può. Chi ci riesce, infine, si slancia alla
ricerca di qualcosa che prima, nel Reparto, gli era stato negato e che solo ora
prende consistenza – ed è “la materia di cui sono fatti i sogni”:
« ”Suona la mia canzone, / Sam.
Come a quel tempo”. / Implora dallo schermo, / lo sguardo di Ingrid, vago il suo sorriso. / “Canta:
As Time Goes By”. / Ripeto le sue parole, / seguo Gabriella nel film. / Sono alle spalle di Bogart / sulla pista dell’aeroporto, / sento le parole dell’addio. //
La mia mano non stringe / Gabriella,
la poltrona è vuota»[6].
La vita è fatta di illusioni e di sogni proiettati su un telone che si
illumina della gioia immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della
Luna. Il Paradiso è perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova
a raccontarci come è andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare
dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta
qui, resa immobile e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di
volare. Quando ci riesce, allora, si “illumina d’immenso”.
[1]
I. CALVINO, Palomar, con una
presentazione dell’autore, Milano, Mondadori, 19942, p. 64.
[2]
R. MOSI, L’invasione degli storni, p.
11.
[3]
R. MOSI, L’invasione degli storni, p.
9.
[4] “Discariche di squallore / sotto i ponti dell’autostrada / vicini alla
città, fulgore d’immagini, / di colori spruzzati sui piloni. // Attraversoo
correndo la sera, / verso la campagna. / Graffiti mi accolgono in galleria, /
parlano ogni volta / del fantastico
creatore. // Ieri da una collina in rosa / mi ha salutato la pecora Dolly, / di
fronte il gregge assorto / delle pecore normali,
/ al centro l’albero della vita / per frutti televisori / missili e computer“
(R. MOSI, L’invasione degli storni,
pp. 55-56).
[5]
R. MOSI, L’invasione degli storni, p.
13.
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