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Roberto Mosi si interessa di poesia e fotografia. Per la poesia ha pubblicato Sinfonia per San Salvi (Il Foglio 2020), Orfeo in Fonte Santa (Ladolfi 2019), Il profumo dell’iris (Gazebo 2018), Navicello Etrusco (Il Foglio 2018), Eratoterapia (Ladolfi 2017), Poesie 2009-2016 (Ladolfi 2016). L’autore ha realizzato mostre di fotografia presso caffè letterari, biblioteche, sale di esposizione. Cura i Blog: www.robertomosi.it e www.poesia3002.blogspot.it .
Roberto
Mosi, BARBARI. Masso delle Fate
Dalle steppe a Florentia, alla porta ad Aquilonem.
Il romanzo storico è dedicato all’invasione
dei barbari guidati dal re ostrogoto Radagaiso in Italia negli anni 405-406 e
alla vittoria presso Fiesole che riportò su di essi il generale romano
Stilicone. L’autore, nelle vesti di un romano, già ufficiale dell’esercito, che
risiede in una villa della campagna fiesolana, partecipa alle vicende di quegli
anni, con uno sguardo attento allo scorrere degli eventi dell’epoca.
Nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio,
Vasari intese rappresentare le glorie politiche e militari dei Medici,
illustrando anche pagine epiche dell'antica storia della Toscana. Fra queste mi
ha sempre colpito “La vittoria sul re barbaro Radagaiso” (406 d.C.), uno dei
quadri che compongono il ciclo pittorico vasariano. Le figure del re barbaro
arrivato fino alle mura di Firenze dalle lontane terre presso il Danubio e del
generale Stilicone, comandante dell’esercito romano, che lo sconfisse, hanno
avuto una forte risonanza nella storia di Roma, nei racconti e nelle leggende.
La sanguinosa battaglia che si combatté nella valle del Mugnone, presso
Fiesole, fu l’ultima vittoria dell’impero romano contro i barbari, prima della
disfatta definitiva.
Un giorno camminando nei pressi di Fiesole, mi
sono imbattuto nel cartello che indicava il “Sentiero di Stilicone”. È come se
avessi trovato un riscontro concreto all'opera del Vasari e ho cominciato ad
approfondire quegli avvenimenti e alcuni aspetti di quel periodo che sono
rimasti come in disparte perché l’attenzione degli storici si è rivolta,
soprattutto, alla città medievale di Dante Alighieri e all’epoca
rinascimentale.
Oltre alla raccolta di
documenti e pubblicazioni sul tema, mi piace visitare i luoghi che hanno visto
quegli avvenimenti e percorrere a piedi, in compagnia della mia canina Gilda, i
sentieri che li attraversano, sul crinale delle colline oltre Fiesole e nella
valle del Mugnone, dove posero le tende i barbari arrivati a migliaia e
migliaia e dove si scontrarono con i soldati romani; una piccola valle dove
scorre in basso il fiume, mi siedo sulle sue rive, chiudo gli occhi e sento
ancora l’eco di quella furiosa battaglia, le urla dei guerrieri, il cozzo
feroce delle armi, il lamento dei feriti.
Questi interessi sono diffusi, condivisi da
cittadini e da associazioni; il segno più evidente è rappresentato dalla
realizzazione nel comune di Fiesole del percorso escursionistico “Il sentiero
di Stilicone”.
L’interesse per queste vicende dell’inizio del
V secolo è coltivato da varie pubblicazioni e dai social media, che presentano
racconti e leggende, sviluppate intorno a quegli eventi, con svariate immagini
dei luoghi e dei personaggi; immagini riprese dalla iconografia classica o
contemporanee, nella forma dei fumetti.
Nella mia opera
collego episodi locali e personaggi storici e di fantasia ad un contesto
storico generale come se mi ponessi in alto, sulla cima delle colline e
osservassi lo svolgersi degli avvenimenti, gli scontri fra le fazioni civili e
religiose, in un paesaggio rimasto sostanzialmente invariato e l'irrompere in
questo mondo dei barbari arrivati dalle steppe cinte dall’oceano dei
ghiacci.
Una posizione in alto, dunque, che è anche
oggi da mantenere, per osservare, e comprendere, eventi, situazioni, legati a
popoli che lasciano le loro terre, che emigrano e, al loro arrivo, trovano
nuovi barbari.
Roberto
Mosi, “Amo le parole. Poesie 2017-2023”, Ladolfi Editore, Borgomanero.
Prefazione Carmelo Consoli. Postfazione Giuliano Ladolfi
Commento
di Giuliano Ladolfi dalla Posfazione al libro
«La
poesia prende il posto / dei sogni»
Penso
che la concezione poetica di Roberto Mosi sia chiarita dal seguente passo
compreso in questa antologia: «Credo che sia possibile curarsi con la
poesia,
per vincere le paure, stati di sofferenza, per stringere sogni che passano in
volo, per divertirsi. La voce della poesia arriva dal dentro, potente nelle ore
della notte, debole e distratta il giorno. Porta sollievo,
se
non guarigione, dolcezza di ricordi, sapori tenui di malinconia»...
eratoterapia, senza dubbio. Bastano queste righe per depositare nel bidone dei
rifiuti tutte le concezioni avanguardistiche e neoavanguardistiche.
Il
poeta, infatti, assegna la scrittura in versi alla dimensione umana e non a
quella puramente intellettuale o linguistica.
Il
titolo di questa pubblicazione, che raccoglie testi editi da 2017 al 2023,
costituisce un’ulteriore conferma: Amo le parole. E non si può amare senza
collocare questo sentimento nell’intimità dell’essere umano. Si ama quando
tra l’individuo e l’altro-da sé scocca una scintilla destinata a incendiare il
mondo.
E ciò può avvenire con ogni tipo di realtà, che in questo caso si identifica
con l’esistente, l’esistente che entra in empatia con il poeta.
Le
parole poetiche per lui non sono flatus vocis, ma dichiarazioni d’amore che
trasformano chi le pronuncia e chi le legge. Non si gioca sui significati
quando
il sentimento ha il sopravvento. E questo sentimento è contagioso perché non
permette al lettore di essere indifferente di fronte alla bellezza di Firenze,
alla sua storia, alla sua arte, ai suoi colori, alle sue vie, ai suoi palazzi.
Anche chi la conosce trova in questi versi nuovi occhi per contemplarla non con
lo sguardo dello studioso o del turista, ma con l’entusiasmo di chi la ama come
si ama una madre amorevole e affettuosa.
E
poi il sentimento si espande al mondo intero, anche a situazioni dolorose, come
la guerra o come la devastazione climatica. Se «la poesia prende il posto / dei
sogni», è fondamentale che a tutti sia concesso di sognare tramite
quest’arte,
a tutti sia concesso di ritrovare in essa l’impulso ad approfondire quel senso
dell’esistere che Roberto Mosi propone come un’avventura meravigliosa e
inesauribile.
“Tre principesse francesi a Firenze”
Postfazione
Perché si scrive? Questa domanda si fa per me urgente ora che
sto per pubblicare il mio ultimo romanzo sul mondo dell’imperatore Napoleone,
dopo che sono passati dieci anni dal mio primo lavoro.
Mi dedico alla scrittura per recuperare una cosa che mi viene
a mancare, per riempire un vuoto che si è creato vicino a me, oppure, per
scongiurare un pericolo, per sconfiggere la paura.
Il primo romanzo Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone.
Storie francesi da Piombino a Parigi (Il Foglio, 2013) era un invito ad
andare alla scoperta della costa toscana del mare Tirreno, a guardare le città,
il territorio con lo sguardo dei vincitori francesi, con l’orgoglio della loro
forza, della efficacia e della modernità dei loro interventi. Quando cominciai
a pensare al libro avevo appena lasciato il lavoro, avevo raggiunto il
traguardo della pensione, davanti a me un tempo indefinito, grigio, senza
contorni, un vuoto da riempire giorno per giorno. L’idea di scrivere un
racconto, un romanzo dette un ritmo alle mie giornate, mi portò ad immergermi in
un mondo illimitato di conoscenze, in una rete di libri, di notizie, piena di
incroci, di nodi, tutti da studiare e da scoprire; fu un impegno serrato ma affascinante,
che compensò il recente abbandono del mondo del lavoro senza trascurare quelli
che erano stati gli interessi della mia professione. Ero stato infatti un
dirigente per la cultura della Regione Toscana,
Il romanzo successivo Non oltrepassare la linea gialla
(Europa Edizioni, 2014) rappresenta una vera e propria elaborazione di un
lutto, la perdita della mia macchina, la Lancia Musa, uscita di strada e
schiantatasi contro un cartellone pubblicitario, incidente dal quale uscii
praticamente incolume ma con un’enorme paura. Nel romanzo le macchine
incidentate si ritrovano in un deposito di relitti ferrosi di ogni genere, si
consolano fra di loro aspettando la sorte finale, di essere trasformate in
mirabolanti creature grazie al fuoco rigeneratore dell’altoforno.
Nel romanzo Esercizi di volo (Europa Edizioni, 2015)
mi sono misurato con la follia; mi ha sempre affascinato il binomio
arte/follia, ho seguito con interesse i progetti degli anni ’70 per la riforma
dei manicomi, e rimasi sconvolto da una visita fatta all’Ospedale Psichiatrico
San Salvi nella veste di segretario della Commissione Sanità del Consiglio
regionale.
L’incipit del libro è
quanto mai perentorio: “Un giorno imparerò a volare!”, il protagonista vuole
acquistare leggerezza, la capacità di volare, per stare in alto, sopra le
diverse pazzie del mondo e frequenta un celebre personaggio, Erasmo da
Rotterdam, che gli fa scoprire il lato divertente della follia.
Nel 2021la pandemia, la diffusione del Covid, ha sconvolto le
nostre vite, ha limitato la nostra libertà, lasciandoci nella paura e
nell’incertezza.
Ho trovato conforto e
aiuto nella poesia, proprio in quella di Dante che inizia il suo viaggio
ultraterreno dai tormenti dell’Inferno. Ho immaginato che la sua poesia sia
rimasta con noi, nelle strade di Firenze dove è nato, si è affermato come uomo
e come poeta laureato e quindi con un gruppo di amici siamo andati per le
strade alla ricerca dei luoghi più suggestivi per recitare insieme ad alta
voce, con energia i suoi versi, aspettando il suo ritorno perché, come recita
il titolo del libro Ogni sera Dante ritorna a casa. Sette passeggiate con il
poeta (Il Foglio, 2021). Mi sembra che il libro interpreti bene lo sgomento
di quel periodo, per ogni giorno di escursione riporto, i dati dei cittadini
toscani colpiti dal Covid, i ricoverati in ospedale, i deceduti, come un
bollettino di guerra.
Le vicende dei migranti in fuga dalle guerre, dalle carestie,
da luoghi di feroce miseria, le tragiche morti nel Mediterraneo, mi lasciano un
grande vuoto, pesano sulla mia coscienza di cittadino di un Paese
dell’Occidente. Ho trovato in questi avvenimenti una sorta di parallelismo con
la storia delle grandi emigrazioni di popoli all’epoca dell’impero romano, sulla
“ragionevole” integrazione fra le diverse genti; l’insieme di queste
riflessioni è alla base del recente libro Barbari. Dalle Steppe a Florentia,
alla Porta Contra Aquilonem, (Masso delle Fate, 2022).
Sono passati dunque dieci anni da quando ho scritto il mio
primo romanzo; ho pubblicato anche diverse raccolte di poesia, riunite in due
antologie: Poesie 2009-2016 (Ladolfi, 2016) e Amo le parole. Poesie
2017-2023 (Ladolfi, 2023). Nella poesia seguo la voce dell’ispirazione, il
demone che mi parla dentro, mi porta a comporre versi su registri diversi,
con lo sguardo rivolto a paesaggi umani e a sfere personali differenti (Nonluoghi),
(Eratoterapia), (Itinera), (Concerto), dove si accende la
luce delle immagini (Firenze, foto grafie), soffia il vento dei miti (Navicello
Etrusco), (Orfeo in Fonte Santa), (Prometheus, il dono del
fuoco), balzano in evidenza le mie origini (Florentia),
l’amore per la mia città, Firenze, la sua storia e la sua bellezza (Il
profumo dell’iris), il desiderio di un costante impegno sociale, nel
dialogo, nell’incontro con l’altro, con gli altri (L’invasione degli storni),
(La vita fa rumore), (Il nostro giardino globale).
Con quest’ultimo romanzo, Tre principesse francesi a
Firenze. Sylvia Boucot d’Hautmesnil al servizio delle sorelle di Napoleone,
ricompare la figura di Napoleone, questa
volta in compagnia delle tre sorelle, le
principesse Elisa, Paolina e Carolina, che grazie alla fortuna e alle
capacità di uomo d’arme e di governo del fratello, si trovarono, dalle umili
origini in una terra isolata, povera, come la Corsica, a conquistare onori e
ricchezze sullo scenario europeo; la sorte fatale poi del generale corso, il
crollo dell’impero, determinò il rovesciamento della loro fortuna, la
decadenza. Nelle pagine di questo lavoro sono fissati i caratteri diversi delle
tre sorelle e, allo stesso tempo, il loro coraggio di donne libere, la loro determinazione;
ci si sofferma, per altro verso, sulle facce che mostra il potere, nei diversi
frangenti, il modo differente di reagire delle persone, l’affermarsi della nuova
classe borghese. In questo contesto, Firenze fa da scenario all’agire dei diversi
protagonisti, è all’incrocio di dinamiche particolari, incisive per il suo
futuro.
È naturale dunque cercare di cogliere analogie con il tempo
presente, specie riguardo ai miti che in quei tempi sono stati coltivati, come il
mito della nazione e il mito del comandante supremo, del leader, che oggi ricompaiono
con forti tratti, sugli scenari incerti del nostro presente: la scrittura, il
lavoro di scavo, di analisi ad essa collegato, dei fenomeni in corso, aiuta
nella ricerca di un terreno più solido sul quale fondare le nostre speranze.
I Bonaparte a
Firenze
Napoleone Bonaparte nelle Mémoires raccolte dal
dottor Antonmarchi nell’esilio di Sant’Elena (1819-1821) afferma che i
Bonaparte (originariamente Buonaparte) sarebbero originari di Firenze, dove si
schierarono dalla parte ghibellina. Con la vittoria del partito dei Guelfi, nel
Duecento, dovettero lasciare la città e andarono in esilio prima a San Miniato
e poi a Sarzana, che era sotto il dominio della Repubblica di Genova. La dinastia divenne famosa, come sappiamo,
con Napoleone che fu imperatore dei francesi e re d’Italia. Merita citare un
episodio. Il giovane generale Bonaparte, comandante delle forza francesi in
Italia, arrivò a Firenze, come ci informa il giornale fiorentino La gazzetta
Universale, il 30 giugno 1796 accompagnato da un drappello di guardie, per
far visita al granduca Ferdinando III: la sera dell’arrivo si tenne una grande
festa a Palazzo Pitti, l’incontro memorabile di due giovani di ventisette anni,
l’uno il generale venuto dal nulla e l’altro, il figlio dell’imperatore
d’Austria, che tanta parte avranno nella storia dell’Europa.
Firenze ebbe uno stretto legame con la famiglia di
Napoleone, sia nel momento del successo dell’imperatore sia negli anni della
sconfitta e dell’esilio; particolare fu il rapporto con la città delle tre
sorelle del generale, Elisa Baciocchi, Paolina Borghese, Carolina Murat. Elisa
divenne Granduchessa di Toscana (1809-1914), elesse Palazzo Pitti a propria
dimora, si circondò di celebri artisti, fra i quali Niccolò Paganini, Antonio
Canova, e promosse grandi progetti per rendere la città più moderna, di livello
europeo; Napoleone ebbe ad affermare che Elisa era il migliore dei suoi
ministri.
Paolina, resa celebre dall’opera di Canova Venere
Vincitrice, persona di grande generosità, fu la più amata dal
fratello; soggiornò in più occasioni a Firenze e frequentò i luoghi più
conosciuti, dalla passeggiata delle Cascine al Teatro della Pergola. Morì, per
un tumore, a villa Fabbricotti, sulla collina di Montughi, il 9 giugno 1825. Carolina,
la più piccola delle tre sorelle, moglie del maresciallo Murat, fu, ammirata,
regina di Napoli (1808-1815) e dopo un lungo periodo di esilio, le fu concesso
di raggiungere Firenze, dove fu ben accolta dalla città e visse nel palazzo
Bonaparte, in piazza Ognissanti, che ospita oggi l’albergo Excelsior. Morì il
18 maggio 1839 e fu sepolta in un modesto spazio nella chiesa d’Ognissanti.
Nella Basilica di Santa Croce si trova la Cappella
Bonaparte acquistata da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e, successivamente, di
Spagna, per seppellirvi la figlia Charlotte. Qui riposano anche la moglie
Giulia e la nipote Maria-Albertine. A Firenze vissero anche – mentre era
granduca Leopoldo II, celebre per lo spirito di tolleranza – altri fratelli di
Napoleone: Luciano, principe di Canino, Luigi, il cui figlio Carlo Luigi
diventerà Napoleone III; Giuseppe, che morì nel Palazzo Serristori in Oltrarno,
nel 1844.
Un commento finale sulle donne Bonaparte: è una vera
scoperta avvicinarsi ai loro caratteri madre, sorelle, nipoti, bis nipoti.
Capaci di coniugare grazia, eleganza, spregiudicatezza con il piglio di
famiglia. Dove poteva d’altra parte aver trovato le sue radici un temperamento
come quello di Napoleone, un misto di audacia, spregiudicatezza, ambizione,
sete di potere, capacità strategica, comando e fascinazione? E nello stesso
tempo una visione epica, senza ragionevolezza, finché non si dovrà confrontare
con un destino tragico. Troviamo alcuni di questi segni anche nelle donne, che
si rivela; d’altra parte è in famiglia che si costruiscono i caratteri, le
visioni, gli obiettivi, a volte anche solo per contrasto. È stato così per le
sorelle coinvolte, durante il periodo di gloria del fratello, in matrimoni
prestigiosi che le hanno introdotte nella sfera del potere, dove hanno espresso
un piglio degno della tradizione familiare.
Troviamo gli echi di questo destino anche nella bisnipote
Marie Laetitia che ha conosciuto il nonno Luciano ancora bambina e chissà
quante ne ha sentite raccontare di storie, lì dove si forma l’immaginario e il
senso di appartenenza. Di tutto ciò è consapevole già nel periodo di formazione
quando giovanissima trascorre il tempo nei salotti parigini, quando viaggia per
l’Europa accompagnata dalla madre, un’altra donna che sorprende per la sua
disinvoltura non passata ai posteri come le altre. Quel che va raccontato di
queste donne è il comune passaggio a Firenze. Le tre sorelle di Napoleone
vivranno alcuni anni della loro complessa vita in questa città, trattate come
straniere, perché a Firenze funziona così, anche quando si occupano posizioni
di prestigio e di potere, soprattutto quando emerge e si vuole far rilevare una
sorta di superiorità.
Così è successo anche a Marie Laetitia,
approdata a Firenze Capitale nel 1865, moglie di un ministro, Umberto Rattazzi,
che sarà presto Primo ministro del Regno. Consapevole del suo passato e delle
sue doti di scrittrice, donna di mondo, bella, elegante, colta, troppo
consapevole per piacere ai fiorentini e alle fiorentine che mal digeriscono la
sua supponenza e non le riconoscono neanche uno dei suoi evidenti pregi. Maria
“litigherà” con Firenze, scriverà un pamphlet con denunce impietose di
provincialismo e volgarità che non potranno essere ignorati. Otterrà una
risposta imprevista e irripetibile: i fiorentini tutti d’accordo, tutti contro
di lei.
Un’ultima nota sulla storia dei Bonaparte a Firenze. Recentemente,
nel 2016, i discendenti dalla regina Carolina Bonaparte Murat, un gruppo di
quarantadue persone, provenienti da ogni parte del mondo, alcuni nobili, altri appartenenti
all’alta borghesia, hanno realizzato un progetto per dare una degna sepoltura
alla loro antenata, nello spazio restaurato di una cappella della chiesa
d’Ognissanti, vicino alle spoglie di illustri uomini fiorentini.
Nella Collana “Stranieri e
Firenze” di Angelo Pontecorboli, due libri presentano preziosi riferimenti per la
storia della famiglia Bonaparte:
Caterina Perrone, Marie-Laetitia
Wyse Rattazzi. La principessa internazionale, Angelo Montecerboli Editore,
Firenze 2023.
Roberto Mosi, Tre
principesse francesi a Firenze. Sylvia Bouquet e le sorelle di Napoleone, Elisa
Baciocchi, Paolina Borghese e Carolina Murat, Montecerboli, Firenze 2024.
In relazione alla figura di Napoleone Bonaparte, centrale
in questa storia, pare importante soffermarsi sulle vicende del Concordato del
1801 che interessarono la stessa Francia e i territori dominati, partendo
dall’operato di quegli uomini che gettarono le fondamenta del nuovo istituto.
Il libro che illustra le coordinate dell’intervento:
Guglielmo Adimari, Napoleone
Bonaparte. Trono e altare 1801, Angelo Montecerboli Editore, Firenze 2019.
Una ricostruzione preziosa, quella di Adilardi, della
personalità e delle qualità morali di Napoleone Bonaparte, il primo a siglare
un concordato tra Stato e Chiesa, tra trono a Altare in epoca moderna. Con un
accurato lavoro di archivio, svolto su documenti, lettere, annotazioni
storiche, ripercorre le tappe e le idee che portarono al primo concordato in
epoca moderna tra uno Stato e la Chiesa cattolica e di cui Napoleone fu
l’esclusivo artefice ed ideatore. Col concordato Napoleone permette ai
cattolici la libertà di professare la propria fede, vigilando semplicemente sul
necessario ordine pubblico. Ma per arrivare a questo risultato deve superare la
generale ostilità del suo entourage: dall’esercito alla cerchia intellettuale e
politica, il primo console ha tutti contro. Secondo il concordato i vescovi
prima di prendere possesso delle loro diocesi, dovevano giurare al Primo
Console, e a scalare anche i parroci alle autorità locali, promettendo
ubbidienza e fedeltà al governo stabilito secondo la Costituzione della
Repubblica francese. Mantenendo la dovuta separazione tra Stato e Chiesa
l’obiettivo di Napoleone è quello di riconciliare i due fronti del mondo
cattolico, mettendo tutti sullo stesso piano, e riavvicinare il mondo cattolico
allo Stato francese nel suo complesso, abbattendo i muri precedentemente
creati.
La firma del Concordato ricompatta l’alleanza tra Trono e
Altare, ma non come nell’ancien regime: si superano i vecchi schemi in chiave
assolutamente moderna e pubblicamente configurata. La modernità di questo
accordo è evidentemente riconosciuto anche successivamente tanto è vero che
esso è stato modello di riferimento per altre scritture, come quella dei Patti Lateranensi,
tra Stato italiano e Santa sede nel 1929, o come quello del 1983 tra Bettino
Craxi e il cardinale Agostino Casaroli. Più recentemente il concordato
napoleonico ha costituito anche il modello dell’accordo provvisorio siglato nel
2018 tra Papa Francesco e Xi Jinping, Presidente della Repubblica Popolare
Cinese, atto che riconosce accanto alla Chiesa Cattolica Patriottica Cinese, la
Chiesa Cattolica non ufficiale. Anche qui la nomina dei vescovi avviene, come
nel concordato napoleonico, con l’approvazione di ambo le parti, nell’intento
di avvicinare due mondi finora separati e ostili.
Caterina Perrone
Roberto Mosi