Roberto Mosi
La vita fa rumore
“Noi viviamo di lavoro!”
Prefazione
Poesia e lavoro
«Ancora vita il tuo dolce rumore
dopo giorni bui e muti riprende.
Porta il vento di maggio l’odore
del fieno, il cielo immobile splende.
Gli occhi stanchi colpisce di lontano
il rosso papavero in mezzo al tenero grano»
(Attilio Bertolucci, Convalescente)
1. Il rumore del lavoro e la forza del ricordo
Il punto di partenza di quest’ultimo progetto poetico di Roberto Mosi è legato a un fatto di cronaca che assume nei suoi versi una notevole importanza: la manifestazione avvenuta nel luglio del 2013 a Firenze in seguito a un’ordinanza che imponeva la chiusura alle ore ventidue dei locali della popolare Libreria Café de la Cité dove, invece, eventi culturali e attività musicali a essi connesse duravano fino a tarda ora, tra la rabbia e lo sconcerto degli abitanti del quartiere.
Il corteo che richiedeva il ripristino degli orari precedenti si era snodato, pur nell’afa estiva, pacifico ma molto colorito e vivacemente scandito dagli slogan gridati con forza e determinazione dai partecipanti alla lotta:
«Oggi si spalanca la porta:
si va in corteo, si parla
dell’essere alla città dell’avere.
Rabbia, lavoro che muore
sepolto il progetto di anni
oltre il senso comune.
Sul sagrato del Carmine
La vita fa rumore 7
s’inchiodano cartelli
nell’afa di luglio:
“No alla città vetrina”
“La noia è normalità”
“Adotta un libraio”»
Il rumore prodotto dalla vita è esibito quale conferma del suo non conformismo e della sua progettualità, l’idea di un ritorno alla normalità dopo la dimostrazione che qualcosa di nuovo e di originale poteva essere perseguito scatena la rabbia di chi pensava che almeno qualche spazio di libertà sarebbe stato lasciato aperto per l’invenzione e la gioia di vivere da parte di chi vuole ridurre tutto a noia e a normalità, a consumo e ad esibizione di un’esistenza fasulla e legata esclusivamente all’avere. Ma non è una pura questione di rumore quella sollevata da Roberto Mosi: la posta in gioco è più alta ed è legata al problema del lavoro, della sua potenza, della sua mancanza.
In molti dei componimenti che seguono, infatti, il tono rievocativo si tinge di un pathos molto intenso. Il ricordo delle lotte del passato tinge di rimpianto e lo sciopero delle trecciaiole (nella poesia omonima) ne diventa il simbolo perduto: «Tosca, cerco i fiori del bello / in periferia al calore delle utopie, / fiori rossi degli anni pari e dispari». Il calore dell’utopia legata alla forza trasformatrice del lavoro e delle lotte organizzate per renderlo più umano e più equamente rimunerato riverbera in queste parole e si trasforma in un ritratto di donna (Tosca che avanza, il suo bambino in braccio, simbolo di un Quarto Stato ancora a venire ma sempre indomabile e impossibile da ricondurre nell’ambito della pura normalità produttiva). La descrizione dei luoghi del lavoro si lega a quella delle lotte attuali di chi chiede “pane e lavoro” (lo slogan caro a Lenin e ai bolscevichi fin dal 1905 e sempre replicato con la stessa forza e insistenza nelle manifestazioni operaie).
Qui lo scenario è diverso da quello della San Pietroburgo o della Mosca d’inizio secolo, ma l’obiettivo è pur sempre quello e le forze addette alla sua repressione appaiono le stesse, ferreamente scagliate a proteggere i privilegi dei troppi pochi in grado di assicurare
livelli decenti di vita ai molti che non possono averne la possibilità:
«Le tute blu arrivano da Rifredi
la polizia è schierata, sbuca
dai portici la camionetta,
picchiano forte i manganelli,
si grida in coro pane e lavoro.
Le Giubbe Rosse sono sbarrate,
i poeti scomparsi.
La musica è delle sirene,
i versi le urla degli operai»
La dimensione culturale non può che essere accantonata e tacere in un contesto simile. Nel fuoco e nel furore della lotta, la poesia non è in grado di far sentire la propria voce: i versi sono ingoiati dalle urla di rabbia degli operai in cassa integrazione o licenziati, la musica è rappresentata dalle sirene delle auto della polizia. Eppure anche in un contesto di questo tipo c’è spazio per la scrittura e per il suo potere di ricordo e d’incitamento a prendere la parola, di non cedere, di ritrovare una verità di là dalle menzogne e dell’oblio. In un testo successivo, una delle protagoniste di una manifestazione per la Festa delle Donne dell’8 marzo invita chi scrive a farsi voce e memoria del passato e del presente delle lotte:
«Federiga, le compagne
tornano a difendere
il silenzio della fabbrica.
Fosca mi accompagna
sull’argine del fosso:
“Parla delle nostre idee,
tessi il filo della memoria”».
La dimensione operaia e popolare predomina in questa prima parte della raccolta: le voci e le testimonianze dei protagonisti diretti,
la nostalgia per un’epoca ormai definitivamente tramontata, la necessità di mantenerne viva la memoria, la forza dell’evocazione e il rimpianto per non essere più protagonisti in una stagione rinnovata di presa di coscienza e di emergenza delle lotte, tutto questo contraddistingue la scrittura poetica di questa sezione del poemetto (nonostante la suddivisione in liriche apparentemente singole e collocate isolatamente, infatti, non vedo una netta separazione narrativa nell’ispirazione fluida che caratterizza questi testi nella loro continuità e tenderei a considerarli, piuttosto, come un unico flusso poèmatico, un poemetto suddiviso in altrettanti stasimi):
«Sento il pianto dei bimbi,
voci, grida d’amore.
Il cortile centrifuga giorni
stagioni vicine e lontane,
la memoria dei volti.
Un vortice all’alba
disperde sogni e ricordi
nell’aria rossa della città.
I gatti sulle terrazze
si stirano languidi»
Anche i luoghi della condizione operaia (per dirla con Simone Weil) non sfuggono alla descrittività ricca di pathos di Mosi e i cortili delle case operaie sono rappresentati come il luogo privilegiato della loro soggettività dopo il momento dell’alienazione nel lavoro. Il cortile in cui risuonano i pianti dei bambini, le urla delle coppie che litigano o i gemiti di quelle che fanno l’amore ne è la rappresentazione più esatta e, nello stesso tempo, simbolicamente esaltata dal contesto.
In esso tutto ciò che è accaduto nel tempo, i bisogni e i ricordi, le passioni, i desideri e il dolore di vivere si confondono in un’atmosfera irreale, come di sogno astratto, ma la caduta in una drammaticità estranea al tono stilistico generale dell’opera è impedita, quasi bloccata, dall’ironica presenza dei gatti ieratici e pigri che “si stirano languidi” sulle terrazze, una sorta di contrappunto animale e appagato rispetto all’insoddisfatta rabbia e nostalgia che caratterizza le vicende degli umani. Il guizzo rappresentato dai felini appollaiati sui tetti impedisce la caduta in un pathos eccessiva e mostra le due facce della scrittura di Mosi: la lirica coinvolgente e sostenuta da un’autentica passione e la bonaria capacità di smontarla e di decostruirla in nome di un appello a sentimenti meno esasperati e più legati alla quotidianità.
Così i migranti, i lavavetri, i raccoglitori di pomodori nella Maremma e quelli di arance a Rosarno sono riscattati nel loro dolore e nella loro rabbia da uno sguardo che li coglie nella loro umanità e non ne fa solo simboli di una condizione umana tenuta sotto il giogo ferreo della necessità di sopravvivere, ma li coglie nella loro dimensione di persone che sanno reagire all’abbattimento in cui si trovano e rivendicano la loro personalità di esseri viventi.
Alle mani bianche degli operai del primo (come pure del secondo) Novecento sono sostituite quelle nere del nuovo Millennio: mani atte a lavorare anch’esse e anch’esse sfruttate senza pietà, spremute ai limiti del possibile da un feroce meccanismo che da esse ricava ciò che può e che vuole e che poi le emargina e le accantona ai bordi dell’esistenza comune degli altri componenti della compagine sociale che subiscono certamente lo stesso sfruttamento, ma spesso in maniera meno diretta e devastante, lasciando così loro l’illusione che il trattamento ad essi riservato sarà del tutto diverso e che con le “mani nere” essi non avranno mai niente a che fare.
2. Il lavoro e le sue facce molteplici
Il lavoro, dunque, si è visto, è al centro di quest’accorata raccolta di versi di Mosi.
Il poeta fiorentino non si concentra solo sullo sfruttamento e sull’angoscia che esso produce nelle sue vittime predestinate. Il lavoro è guardato talvolta con la lente deformata del grottesco e della satira sociale. È il caso di Federigo, impiegato presso una ditta di pompe funebri, che accorre in mano il catalogo delle bare ogni volta che apprende dell’esistenza di un moribondo che sia un potenziale
cliente. Il lavoro dell’infermiera dell’ospedale psichiatrico (quello ormai chiuso da qualche tempo di San Salvi) e quello dell’addetta alle pulizie in un vagone delle Ferrovie dello Stato (la donna telefona al suo fidanzato di aspettarla all’arrivo del treno, direttamente al binario dieci della stazione, in modo da avere più tempo per l’amore) sono visti con rispetto e, nel secondo caso, con un tocco di tenerezza e di sentimentale affezione.
Il lavoro è – anche secondo Mosi – la difficile conquista del Novecento che rischia di andare perduta nel nuovo Millennio e tornare a essere difficilmente raggiungibile (ed equamente remunerato) com’è accaduto nell’Ottocento dell’egemonia capitalistica e del trionfo della grande industria. Non avere lavoro o perderlo è ormai la grande paura di tutti i salariati e dei lavoratori dipendenti ed è giusto, quindi, che la poesia si faccia carico della natura profonda di questo problema così bruciante, così attuale.
Ma è lavoro anche l’attività artistica e, di conseguenza, il teatro. Mosi rinnova il suo interesse per l’opera lirica, ad esempio, e aggiunge alla raccolta un suo personale omaggio a Giuseppe Verdi:
«Emerge l’immagine:
comparsa in costume
vestito da frate, da principe
da soldato e da servo
sulle assi del palcoscenico.
Don Giovanni, Carmen
Lucia di Lammermoor.
Maschere si affacciano,
personaggi vestiti di musica
danzano sulle cornici
bianche di calce,
scivolano in platea,
Carmen e Radamés,
salgono nelle luci del palco
corrono tenendosi per mano
nel vortice delle note»
che suona anche come un omaggio dovuto alla fatica diuturna degli artisti e alla loro capacità di rendere la vita altrui talvolta più leggera e meno schiacciata dal dolore quotidiano di vivere.
Anche il mito classico partecipa di quest’atmosfera di cauta leggerezza, di deliberata sospensione del giudizio, di assonnata partecipazione a metà. Anche gli ieri di ieri sono fatti della stessa materia di cui sono costituiti quelli di oggi. Anche Ulisse e il suo nostos a Itaca:
«L’eroe raggiunge
la reggia nel sonno.
Penelope dorme stizzita
Arturo saluta, la coda ritta.
L’eroe guarda la posta,
dispone in ordine le armi
si distende sul letto,
il risveglio è vicino.
Ogni sera Ulisse
torna ad Itaca»
La poesia di Mosi, dunque, si distende tra i due poli (a lui consueti) del pathos duro e veemente della partecipazione e dell’ironica verifica degli stilemi di un passato divenuto eterno nell’immaginario collettivo. Tra mito e modernità, allora, si apre per lui lo spazio della poesia: uno spazio da riempire con la forza delle idee e delle soluzioni verbali.
Giuseppe Panella
* * * * * *
Indice
Prefazione di Giuseppe Panella "Poesia e lavoro"
Libreria Cafè
Le trecciaiole
Lavoro!
Manifattura
Quartiere popolare
Migranti
Lavavetri
Mani
Mediatrice
Raccolta delle arance
Raccolta dei
pomodori
Stella cometa
Lavoro in festa,
Marsa Alam
Una vita da
ferroviere
Pulizia a bordo
Ricordo
dell’attentato
Infermiera al
manicomio
Ospedale
Impiegato delle
pompe funebri
Teatro
Guida turistica
Ulisse torna ad
Itaca
Orfeo a Firenze
Mercato
Impiegati comunali
Futuribile
Pony express
Il lavoro del
poeta
La cucina di
Françoise (La Recherche)
Il lavoro del
pittore (La Recherche)
Schede
Note
La vita fa rumore
“Noi viviamo di lavoro!”
Libreria Cafè
Silenzio, ombre sedute
sugli
scaffali de La Citè
sopra
i libri della Libreria
Cafè, sul pianoforte
fra
divani e abat-jour.
Salva
la pubblica quiete.
Il
proclama del giudice:
“Chiuso dalle nove
alle
sette del mattino.
Disturbo
alla quiete.”
Buonanotte
Firenze,
un
colpo alla cultura.
La cultura viaggia nell’aria
suono
di voci, note
musica,
fruscio di idee,
non
porta degrado,
confonde
facce di pietra
teste
devote agli schermi.
Oggi
si spalanca la porta:
si
va in corteo, si parla
dell’essere
alla città dell’avere.
Rabbia, lavoro che muore
sepolto
il progetto di anni
oltre
il senso comune.
Sul sagrato del Carmine
s’inchiodano
cartelli
nell’afa
di luglio:
“No alla città vetrina”
“La
noia è normalità”
“Adotta
un libraio”.
Si
muove il corteo,
musica:
dal furgone
il
suono Brazil, Brazil.
Il corteo ondeggia,
samba, carrozzine
avanzano
a zig zag.
La ragazza danza
sul
tetto rosso dell’Ape
il
trampoliere
i
cani al guinzaglio.
Si distende l’orchestra,
i
cappelli di paglia.
Al centro la tromba
da
una parte, dall’altra,
teste,
braccia, cartelli
seguono
il movimento.
San Frediano alle finestre
le
mani in alto festanti.
Piazze
tra ali di folla,
il
traffico bloccato,
ronzano
le radio.
Piazza
della Passera:
due
ragazze in costume
sul
tavolo del ristorante.
Le parole, la denuncia:
“Escono da La Citè,
parlano,
ridono.
Che
ridono di notte?
Chiudano alle ventidue
musica di Bach, Mozart!”
Urla
sempre più alte:
“La
vita fa rumore!”
Il corteo avanza,
Santo
Spirito: “La piazza
del
degrado dove si vive”,
ironia
dell’altoparlante.
Sara
nella piazza,
figura
del Botticelli,
parla
di libri, concerti.
La
mostra delle Ferrari
al
Ponte Vecchio?
No
alla Libreria Cafè?
Due
gitane, vestiti rossi,
battono
forte le mani,
musica,
flamenco
sul
sagrato della Chiesa.
La facciata apre
le ali
nell’armonia delle
volute.
Le trecciaiole
Tosca, cerco i fiori del bello
in periferia al calore delle utopie,
fiori rossi degli anni pari e dispari.
“Alla Società di Mutuo Soccorso,
dopo l’arrivo dell’ultimo volo
quando cessa ogni rumore.”
Nei quadri alle pareti
Vinicio
racconta la storia
di Peretola,
sui tavoli lattine di Coca Cola.
Longarine, tavole da cantiere
si spingono in alto: lo slancio
della Cupola, della nuova società.
Macchie di colore rosso, nero
giallo, azzurro, la tavolozza
di Botticelli. Lievitano storie.
Marcia il Quarto
Stato, Tosca
in prima fila, il bambino in braccio.
Facce sul fondo, formano un popolo.
Escono dai quadri dietro le torce
dei vigilanti, nei supermercati,
tra le ombre delle fabbriche.
“Lo sciopero delle trecciaiole.
Mi distesi sulle rotaie.” Tosca ricorda:
“La cavalleria attaccò nella piazza.”
Remo al villino presso la
stazione:
“Chiusi il cancello, partii per la guerra.
Lo riaprii, con me la tubercolosi.”
Cesare porta gli amici alla barca
da renaiolo sull’Arno: “Dall’alba
al tramonto per un pezzo di pane.”
All’alba i primi voli, le sirene.
Alla Casa del Popolo Tosca e gli altri
riprendono posto nei quadri.
Lavoro!
Il salotto buono di Firenze
appare
in bianco e nero,
i
colori delle storie di Vasco.
Le
tute blu arrivano da Rifredi
la
polizia è schierata, sbuca
dai
portici la camionetta,
picchiano
forte i manganelli,
si
grida in coro pane e lavoro.
Le
Giubbe Rosse sono sbarrate,
i
poeti scomparsi.
La
musica è delle sirene,
i
versi le urla degli operai.
Manifattura
Fosca mi guida
dal Fosso Macinante
nella
fabbrica abbandonata.
Sedici
compagne
al
centro del piazzale
uscite
dai fabbricati a raggiera.
Ogni
donna una storia.
Federiga,
un’immagine:
il
portone si apre
mimose
avanzano
le
sigaraie escono
cantando:
la festa
dell’otto
marzo.
Si
accende il viso di Delia:
la
sirena, lo sciopero,
sassi
sui fascisti
entrati
nel piazzale.
Federiga,
le compagne
tornano a difendere
il silenzio della fabbrica.
Fosca
mi accompagna
sull’argine
del fosso:
“Parla
delle nostre idee,
tessi
il filo della memoria”.
Quartiere popolare
Il cortile è un pozzo profondo
cinquanta
finestre assiepate
vicine
gomito a gomito,
in
basso il nero del fondo
in
alto uno spicchio di luna.
Le
luci si spengono
una
lavatrice sferraglia
l’ultimo
risciacquo.
Il cortile ha il lungo respiro
della
gente che dorme,
evaporano
sogni
s’incontrano
sul fondo
in
una danza incessante.
Sento
il pianto dei bimbi,
voci,
grida d’amore.
Il cortile centrifuga giorni
stagioni
vicine e lontane,
la
memoria dei volti.
Un
vortice all’alba
disperde
sogni e ricordi
nell’aria
rossa della città.
I
gatti sulle terrazze
si
stirano languidi.
Migranti
È arrivato dai paesi dell’Est
lo
stormo di uccelli migratori,
la
notte dormono in stazione.
All’alba
nascondono le coperte
tra
i nidi dei piccioni,
sopra
i chioschi delle aranciate.
Uccelli
rapaci afferrano i sacchi
al
mattino. La sera altri ripari,
ai
nidi delle rondini più vicini.
Lavavetri
Il corteo dei magi lascia
l’affresco
della Cappella,
scende
le scale, appare
solenne
nella via.
Sulle
cavalcature i sovrani,
il
grasso sceriffo: portano
in
dono la stizza, il genio
fiorentino,
l’arroganza.
Li
circondano cittadini
i
mercanti più ricchi
i
giocatori del calcio
il
capo dei tassisti
cuochi
famosi.
Nel
paesaggio di colline
angeli
in volo, gruppi
di
pastori, lavavetri
le
braccia incrociate.
Mani
Mani
piccole mani nere
mani
bianche mani ferite
battono
ai vetri della macchina.
Sguardi
grandi assediano
incombenti
il mio mondo.
Mani
fioriscono nella città,
mostrano
i dolori del mondo.
Mediatrice
In una valle della Lucania
vive Maria, dolce ragazza
della lontana terra del Libano.
Conosce le lingue che si intrecciano
sul mare, il sapore comune dei piatti
in ogni festa l’eco di altre feste.
Stringe amicizie con le donne
parla felice della sua figlia
in questa terra dai rari sorrisi di
bimbi.
Insegna la lingua ai migranti giunti
dall’altra parte del mare, per i lavori
nelle stalle e nei boschi.
Maria costruisce esili ponti
tra
mondi lontani, vicini.
Raccolta d’arance
“Sono
cinque giorni
che
mangiamo arance
nascosti
nell’aranceto.”
La
faccia nera appare
oltre
la tavola, oltre
la
cesta d’arance rosse
bionde
e il succo
fresco
degli agrumi.
Per
le strade di Rosarno
la
furia della gente,
ronde
in giro, lunghi
bastoni
in mano.
“Ci
muoviamo di notte,
c’è
lavoro in Sicilia.”
“Vincerete
la paura?”
“Prima
un pezzo di pane
poi
pensiamo alla paura.”
Si
allontana, sparisce
nel verde dei rami
l’uomo
nero, il sangue
rosso
d’ arancia.
Raccolta di pomodori
La casa dell’estate emerge
dai campi di pomodoro,
dai solchi di piante verdi
cosparse di occhi rossi
fino alle colline sul mare.
Oltre la rete avanzano
ceste verdi di plastica,
all’opera mani di genti
giunte dall’Africa, donne
uomini chini al lavoro.
Formiche nere portano
le ceste al punto di raccolta.
Re Mida converte la fatica
in montagne luccicanti
del rosso dei pomodori.
Stella cometa
Mario insegna a guardar le stelle
dalla radura sopra Lagonegro.
Al tramonto risalgono il monte
s’immergono nel silenzio.
In cerchio sfogliano i perché
per lavagna la volta celeste.
Ognuno immagina l’incontro
con altri cieli, con la sua stella cometa.
Lavoro in festa, Marsa Alam
Nella terra dove sorge il sole
dal
mare nelle vesti del dio Ra
gli
alberghi avamposti assediati,
si
scruta l’orizzonte dal villaggio
nave
gonfia di musica e feste
incagliata
fra acque di corallo
e
deserto dai grigi colori,
solcato
dalla strada, retta assoluta
nata
dalle viscere dell’Africa.
Le
sabbie dei giardini fioriscono
di
profumi e colori,
le
donne indolenti al sole
portano
cellulari all’orecchio,
vicino
camerieri giocano
a
calcio con giovani di Berlino.
Nel
salone, la sera, la danza
la
ballerina accarezza
la
fronte lucida del commesso
di
Harrods, il karaoke,
segretarie
di Bercy cantano
j’entend siffler le train
Nella
terra dove sorge il sole
dal
mare nelle vesti del dio Ra
grossi
topi passeggiano
per
le strade di Al Quaesir.
Per
l’operaio di Dussendorlf
venti
minuti per comprare
fra
le merci sgargianti del suk.
Ai
tavoli del caffè lampi
negli
occhi degli uomini,
nei
vicoli donne in nero.
Carovane
di Toyota violentano
il
deserto, un cameraman
riprende
il terrore
dell’impiegato
di Nantes,
sulle
rocce scolpite dal vento
sacchetti
di plastica.
Nei
campi beduini la sera
si
sciolgono danze ritmate
la
maestra di Norwich balla
guidata
dal bambino
gli
occhi punti di antracite.
Una vita da ferroviere
Il
treno arriva veloce,
lo
stridio dei freni
annuncia
Firenze,
dai
finestrini scorre
Cerco come ogni volta
di
sorprendere nella stazione
che
fugge, l’ombra
di
Bruno, trent’anni
di
notti e di sole.
Sui cristalli oltre i binari
frammenti
di sole
seguono
il volo
del
capovaccaio, il rapace
che
segue lento le greggi
ai
margini di lontani deserti
Pulizia bordo
Anna
in divisa verde
Pulizia a Bordo Alta Velocità
trascina il carrello
(carta, sapone, deodoranti)
nel rombo del treno in corsa,
dieci carrozze venti bagni,
uomini e donne.
Il treno rallenta
Anna in piedi alla porta,
digita messaggi d’amore
al suo uomo in attesa,
binario dieci della stazione.
Ricordo della strage
Il
treno esce dall’Appennino,
taglia
la periferia della città.
Nella
carrozza visi stanchi,
computer
accesi,
gli
ultimi lavori del giorno.
Scorre
il binario numero uno,
Mac Donald, la biglietteria
poi
lo squarcio nel muro,
il
bagliore della sala d’attesa.
L’eco
ancora dell’esplosione.
Infermiera al manicomio
Maria
alla finestra
chiama
i passanti
urla
ai rumori
parla
di storie d’amore.
Eri
infermiera a San Salvi,
al
manicomio.
Le
tue parole incrociano
storie
di donne legate
alle
corde dei letti,
la
cura di gelide docce.
La
finestra d’improvviso
si
chiude, rimane l’eco
sospesa
sul veleno dei motori.
Ospedale
Luci
azzurre nei corridoi
fasciano
il silenzio delle stanze.
Avanzo
tra presenze del passato
nel
labirinto dell’ospedale.
Attraverso
reparti
seguo
tracce di storie
che
qui hanno visto la fine.
Da
una stanza appare
nonna
Fosca dal dolce sorriso
il
grembiule da cuoca
poi
Francesco in mano gli arnesi
da
calzolaio. Dal fondo
Vasco
vestito da marinaio .
Intreccio
il filo delle storie
per
orientarmi
nel
labirinto della notte.
Impiegato delle
pompe funebri
Raffiche
di vento,
trema
la finestra accesa
per
la veglia al moribondo.
All’angolo
della strada
Federigo
pronto a correre
il
catalogo in mano.
Sopra
lo spiovere del tetto
un
angelo bianco muove le ali,
vicino
un angelo nero,
la
coda sporgente.
Alle
luci dell’alba
la
corsa per afferrare
l’anima,
il corpo.
Teatro
Gli
applausi volano via,
il
teatro è silenzio.
Da lontane sorgenti
la
musica di Verdi,
le
note salgono
sfiorano
velluti rossi.
Emerge
l’immagine:
comparsa
in costume
vestito
da frate, da principe
da
soldato e da servo
sulle
assi del palcoscenico.
Don
Giovanni, Carmen
Lucia
di Lammermour.
Maschere
si affacciano ,
personaggi
vestiti di musica
danzano
sulle cornici
bianche
di calce,
scivolano
in platea,
Carmen
e Ramadés,
salgono
nelle luci del palco
corrono
tenendosi per mano
nel
vortice delle note.
Guida turistica
Leggeri i passi salgono la collina
la
città si scioglie in sentieri solitari,
cancelli
muti parlano di storie lontane.
Avvolge
l’eco dei nostri passi
la
pelle ruvida degli alti muri
segnata
da strisce di graffiti.
Sporgono
le braccia degli ulivi,
le
voci dei compagni galleggiano
nell’aria
umida di temporale.
Appare
la casa rossa di Rosai,
Ciajkowsky
compone musica,
le
note per la campagna,
dalla
villa del Pian dei Giullari
esce
suor Celeste dopo la veglia,
una
giovane bionda scende
a
Firenze per il lavoro da sarta,
nonna
Giulia, negli occhi gocce di cielo.
Oltre
le acque dell’Ema, piene
di
voci, di canti delle lavandaie,
il
sentiero s’impenna fra i campi.
La
vista si apre sui colli,
al
centro la Cupola, misura
dell’incedere
dei nostri passi.
San
Gersolè ci accoglie,
le
case sgocciolate lungo la strada,
i
ragazzi intorno alla maestra.
Si
distende poi la villa de’ Medici
dimora
del lussurioso prelato.
Scende
un barroccio di conche:
nonno
Antonio tiene il cavallo.
Si apre infine la piazza
sullo
sfondo la chiesa,
intorno
le braccia dei loggiati.
Il
paese si è ritirato a tavola
alla
campana di mezzogiorno.
Il
temporale sferza le cose,
il
vino riscalda le parole,
la
voglia di andare
alla
scoperta del mondo.
Ulisse torna ad Itaca
Ogni sera Ulisse
torna a Itaca.
L'alba sorprende
il volto dell'eroe
le armi impugnate
il computer per scudo
il
telefono in mano
altri
cento achei
infossati
nelle poltrone.
Sulla terra le ombre
cedono
il passo alla luce,
evaporano
dal mare
i
brividi della notte,
le
strade vomitano
macchine
nervose.
Alla sera voci allarmate
parlano
di dei adirati.
Sulle
piste la flotta
achea attende il decollo.
Infine il balzo
nella
notte di pece.
Il
porto d’Itaca è chiuso
per
la furia dei venti.
Infinito
il ritorno.
L’eroe raggiunge
la
reggia nel sonno.
Penelope
dorme stizzita
Arturo
saluta, la coda ritta.
L’eroe
guarda la posta,
dispone
in ordine le armi
si
distende sul letto,
il risveglio è vicino.
Ogni sera Ulisse
torna
ad Itaca.
Orfeo a Firenze
Cerbero il gigante
dalle teste
rotanti ha trafitto Firenze,
nove chilometri di galleria.
Il treno in arrivo in mezzo alla folla.
“Orfeo è alla guida del treno”
sospira una voce innamorata
“Euridice è vestita di bianco”.
“Il canto ci ha conquistati,
siamo scesi in fila indiana
seguendo il suono della voce”.
Euridice è alla
guida di Cerbero
nella melma degli ultimi strati,
la tuta bianca, l’elmetto sopra
i capelli biondi. Orfeo
s’innamorò al primo sguardo.
Implorò Ade di lasciarla salire.
“Uscirà alla fine dello scavo
quando passerà il primo treno”.
Al mercato
Saldi per fine stagione
per cessata attività
saldi per amore perduto
per fine Repubblica
saldi arrivo menopausa
mancata erezione saldi
da scorte esaurite
per laicità defunta
saldi per demenza senile
improvvisa gioia saldi
per l’io esaurito
padrone depresso
saldi per fede devastante
invasione Casta
teste all’ammasso saldi
Impiegati comunali
Sfrenate pulsioni
portano a cogliere momenti
celesti in ascensori bloccati,
membri dai guanti colorati
fremiti inarrestabili
in luoghi comunali.
Inservienti compassate
raccolgono a fine giornata reperti,
la notizia ecco che rimbomba:
l’ascensore a volte si blocca
per scalare le vette del cielo.
Futuribile
Bit byte bit byte
zero uno zero uno
uno zero
acceso spento spento acceso
locale globale globale locale
punto rete punto rete
rete punto
nano secondo nano secondo
secondo nano
blog ergosum sum ergoblog
google
yahoo google yahoo
yahoo
google
messaggio d’amore d’amore messaggio
you tube you tube
tube
you
Pony
express
Pony express sui pedali
girovago
sognatore,
portatore
di dispacci.
Baschetto,
lucchetto a U,
ricetrasmittente,
borraccia,
borsa
a tracolla,
divisa
rossa, riflessi
sulle
vetrine, infinita serie di pixel,
freccia
acuminata.
Il lavoro del poeta
Oh
divina Erato,
Signora
della poesia,
invoco
il tuo aiuto
per
comporre in versi
suoni
e silenzi,
per
la ricerca della parola
nella
discarica della memoria
o
nel flusso dei pensieri,
in
mezzo alla melma
delle
ore del giorno,
o
in mezzo alla luce
delle
ore della notte
cercare
ancora parole
per
formare un ammasso
d’argilla
da modellare
a
piene mani
cercando
la forma.
Sulla lunga scogliera
assolata
d’Antibes
Picasso
e Maria
raccolgono
gusci
di
granchio lasciati
dal
mare infuriato.
Nelle
fresche stanze
del
Palazzo Grimaldi
Pablo
li compone
in
forme leggere,
discorrono
con il fascino
de La joie de vivre.
A
Knokke sul mare
del
Nord, Jean-Michel
Folon
cerca pezzi
di
legno macerati
dalle
altalenanti maree,
con
tinte pastose
dà
corpo a sogni
di
sorpreso stupore.
Nella
sala di fumo
i
suonatori di jazz
giocano
con un motivo,
ora
lo esasperano
ora
lo accarezzano
con
toni leggeri.
Leggo e rileggo
i
versi, ascolto
la
mia voce, cerco
tracce
di colore,
riflessi
di luce
pieni
e vuoti d’ombra,
scompongo
e ricompongo
l’ammasso
d’argilla.
Nella
tavolozza dei colori
inzuppo
la fantasia,
nel
pennello parole
in
libertà, la scala
dei
suoni, profondità
della
memoria, ricerco la luce,
ricerco
il tratto,
lo
sfumato, il senso
lontano
dalla realtà,
comunico
il tutto,
comunico
il niente.
Sono sazio di penetrare
di
mani l’argilla,
ora
il fuoco del forno
abbraccia
la forma;
è
pronta poi per essere
affidata
all’aria,
alla
polvere del giorno.
La cucina di Françoise
(La Recherche)
Cucina avamposto
della
casa dei Proust,
dalla
tavola di marmo
decollano
i piatti guarniti
serviti
al ricevimento
in
una nuvola di commenti,
l’eco
delle voci
raggiunge
la porta.
Cucina
porto di sbarco,
la
borsa della spesa
arriva
da Les Halles
alla
tavola di marmo,
freschezza
del rombo
primizie
della stagione,
scelte
da Michelangelo
tra i marmi di
Carrara.
Cucina impero
di
Françoise, ordini alle forze
della natura
arrivate in aiuto,
dirige
l’orchestra
dei
servitori,
accoglie
solenne
i
complimenti dell’Ambasciatore
per
l’arrosto di bue
deposto
su cristalli di gelatina.
Cucina miraggio
per
la memoria della gola,
il
sapore della lettura
mischiata
al gusto dei sapori,
i
lamponi del Signor Swann
la
torta alle mandorle
la
crema al cioccolato
l’impasto
per la petite madeleine.
Cucina caleidoscopio
abitata
dalla curiosità di Marcel
per
l’arte di Françoise
per
il manzo alla moda,
per
il sapore inebriante del sugo
dopo
tre ore di cottura,
ricco
di bocconcini di carne:
le
storie dei suoi personaggi.
Cucina crocevia
per i ricordi della mia cucina,
ventre
della vita intorno
alla
tavola di marmo,
abitata
da storie e novelle,
da
ospiti, piatti, tinozze per il bagno,
dalla
mano del nonno
che
mi protegge dagli spigoli,
Cucina
museo,
al
centro della fotografia
la
trama lucida del marmo,
ai
lati la dispensa
l’occhio
spento dei fornelli
l’acquaio
muto per sempre,
alle
pareti lo scaldaletto
scaldavivande
di rame
ombre
della vita passata.
Cucina attesa
per
la veglia di Céleste,
seduta
alla tavola di marmo
in
compagnia dei personaggi,
degli
incontri di Marcel.
Il
campanello dalla camera:
“Adesso glielo
dico: stanotte
ho messo la
parola fine”.
Grazie,
Céleste Albaret.
Il lavoro del pittore
(La Recherche)
Silenzio seducente del quadro
nel
rumore di folla del Salone.
Scopro
metafore fissate
tra
le frasi delle immagini,
pittore
senza arte, compongo
dall’arte
di più pittori
da
un frammento del mondo
da
artifici di immagini
da
prospettive inattese.
Comprendo,
trasformo
catturo
la mia pittura
penetrando nei quadri.
Dipingo
con la parola
per
pennello la parola
per
trama la tela della parola
per
colore il suono della parola.
Silenzio
sonoro del porto.
Multiforme,
potente unità
nessun
confine, terra e mare
l’acqua
penetra le case, oltre
i
tetti gli alberi dei battelli.
Uomini
spingono alla spiaggia
barche
tra i flutti, la sabbia
bagnata
riflette le chiglie,
specchio
lucido d’acqua.
Una
nave lontana nascosta
ora
dagli edifici, sembra
avanzare
in mezzo alla città.
Alla
bocca del porto le onde
battono
contro gli scogli,
uomini
governano le barche
piegate
ad angolo acuto,
al
galoppo, veloci sul mare.
Altrove
specchi d’acqua
calmi,
in una bella mattina
dopo
il temporale, i riflessi
degli
scafi accavallati
sul
profilo delle chiese.
Più
lontano tratti neri,
bianchi
di spume, di nebbia
compongono
la carreggiata
dell’erta
impennata
di
una nave verso il cielo,
una
carrozza che scrolla via
l’acqua
all’uscire dal guado.
Silenzio
ambiguo del ritratto.
Acquerello
pieno d’incanto,
soggetto
singolare, seducente
fascino
da scoprire di giovane
donna non bella, il copricapo
simile
a un cappello duro
orlato
dal nastro color ciliegia,
la
sigaretta accesa
nella
mano coperta dal guanto.
Sul
tavolo un vaso di rose.
Travestimento
per il ballo?
Un’attrice
di altri tempi
a
mezzo vestita da uomo?
Tratti
mascolini del volto,
forse
un giovane effeminato.
Tristezza
nello sguardo
posa
piccante, provocante
da
personaggio del teatro.
Libertà
dalla normalità?
Silenzio
d’acqua delle ninfee.
Cinque,
sei tele per dipingere
passo
dall’una all’altra
inseguendo
l’attimo
la
sorpresa dell’inatteso.
Punti
d’osservazione diversi
per
le stagioni dell’anno
il
mese, il giorno, l’ora.
Una
tela, un pennello diversi
al
variare dei brandelli di cielo
il
passare di una nuvola
l’improvvisa
folata di vento
l’arrivo
della tempesta.
La
superficie s’increspa
s’infrange
in piccole onde
si
sgualcisce il telo di seta,
i
colori si accendono vivi
si
spengono, ombre di morte.
Silenzio
simbolo di seduzione.
Danza
il corpo segnato
da
simboli misteriosi,
danza
una rosa in mano
in
attesa del carnefice,
danza
davanti ad Erode
gli
occhi accesi di brace,
danza
per la decapitazione
sorreggendo
il vassoio,
danza
per la testa che brilla
di
un’aureola di gloria.
Dipinti,
acquerelli, disegni
si
moltiplicano: la danzatrice
torna
a sollevare il braccio,
a
muovere i passi fatali.
Silenzio
della pagina scritta.
Regno
della lenta cognizione
per
l’occhio educato alla pittura,
si
stacca dal ritmo usuale
del
tempo dello spazio,
nel
laboratorio aperto
per
la nuova creazione,
conquista
una folla
d’immagini
cospiranti,
convergenti
in mille rivoli,
allontana
di pagina in pagina
il
soffio silenzioso della morte.
Schede
Roberto Mosi vive a Firenze, è stato dirigente per la Cultura alla
Regione Toscana. Ha pubblicato nel 2013:
Concerto (Gazebo) che comprende
“Concerto per Flora” e “Sinfonia per Populonia”; il saggio Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone. Storie francesi da Piombino a
Parigi (Ed. Il Foglio). In precedenza, le raccolte di poesia: L’invasione degli storni (Gazebo 2012), Luoghi del mito (Lieto Colle 2010), Aquiloni (Il Foglio 2010), Nonluoghi (Comune di Firenze 2009), Florentia (Gazebo 2008). Nella Collana LibriLiberi di www.a.Recherche.it sono presenti gli
eBook: Nonluoghi, Aquiloni, Itinera,
Sinfonia per Populonia, Florentia. Recensioni sulle opere dell’autore nel
sito www.literary.it. Ha realizzato
mostre presso caffè letterari e biblioteche sul rapporto fra testo poetico,
immagine fotografica e pittura. E’ stato
assegnato il primo premio “Villa Bernocchi” 2009 (Verbania) per l’opera L’autore ha realizzato mostre di
fotografia presso caffè letterari, biblioteche, sale di esposizione. Mosi è fra
i redattori di Testimonianze,
rivista fondata da Ernesto Balducci. Fra gli articoli: “Il paesaggio fra poesia e memoria”
(2002), “Dino Campana” (2004), “Gli angeli sulla Cupola di Berlino” (2004),
“Mario Luzi, la tensione verso la
semplicità” (2005), “Da quando
Modugno cantò volare” (2007). Cura i Blog www.robertomosi.it e www.poesia3002.blogspot.it . Riferimenti: r.mosi@tin.it .

Note
La fotografia
della copertina è dell’autore, ripresa il 5 luglio 2013, in occasione del
corteo di solidarietà per la Libreria Cafè La Citè, colpita da un provvedimento
del giudice a seguito di una denuncia per disturbo alla pubblica quiete.
Enrico Guerrini ha
realizzato i disegni presenti nella Raccolta.
La Poesia Le trecciaiole è ripresa dal “Concerto
per Flora” della Raccolta “Concerto”, Gazebo Libri, 2013.
Gli ultimi
componimenti La cucina di Françoise (La
Recherche) e Il lavoro del pittore
(La Recherche), sono ripesi dai lavori preparati dall’autore per le
edizioni www.laRecherche.it dedicate nel 2011
e nel 2013 a Marcel Proust, in occasione dell’anniversario della nascita
dell’autore francese
LaRecherche.it
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Commento di Gian
Piero Stefanoni
La vita fa rumore
Autore prolifico e
sempre entro un'incisione critica ed etica del reale, già come dirigente della
cultura alla Regione Toscana e come redattore di "Testimonianze" (la
rivista fondata da Padre Balducci), Roberto Mosi conferma qui tutto il suo timbro
insieme passionalmente partecipativo e incalzante tra le maglie di un
contemporaneo riportato sempre alla dimensione cruda delle sue spoliazioni e
delle sue dolenze. L'evento- l'occasione, il pretesto- da cui prende le mosse
il libro è un corteo di protesta che ha visto sfilare tanti giovani, tanti
cittadini per le strade di Firenze nel luglio 2013 dopo la decisione di un
giudice di anticipare alle 21 l'orario di chiusura della Libreria Cafè de la
Citè, luogo di aggregazioe culturale e sociale di non poca importanza. "La
vita fa rumore" nella scritta in rosso di un cartello (e che fa da prologo
nella foto dello stesso Mosi nella copertina del libro) viene ripresa
dall'autore e segnata a paradigma di un contrasto sempre più evidente tra
urgenze, sempre più comuni a molti purtroppo, e non ascoltate e un convivere
civile sordo, monco entro corde e sacche di indifferenze e nascondimenti
(quando non di repressioni). Perché la vita attorno a noi preme- ci viene
ricordato- ci tira per la giacca e ci scuote, ci mette a nudo con la sua
palestra di interrogazioni e perdite. A partire dal lavoro, sovente, cui Mosi
dedica buona parte del libro ricordando dapprima le lotte di conquista dei più
elementari diritti (a ritroso tratteggiando figure epiche come la Tosca e lo
sciopero delle trecciaiole) la cui eredità viene messa poi a rischio nella
precarietà di una condizione odierna il cui futuro sembra farsi ogni giorno più
oscuro (non a caso il libro ha la sua dedica per i giovani fiorentini in cerca
di occupazione). Alla poesia, allora, viene esplicitamente chiesto da farsene
carico nella denuncia e nella testimonianza (vedi la lavoratrice in
"Manifattura":"Parla delle nostre ide,/tessi il filo della
memoria") di un canto ormai senza più versi se non quelli rappresentati
dalle grida degli operai di fronte alle sirene della polizia, dei tanti
migranti (mirabilmente tratteggiati come figure in un mondo di uccelli) e dei
tanti lavoratori- neri- in nero nelle nostre campagne che coi tanti dispersi
bussano con la loro fame, con le loro mani direttamente ai nostri infingimenti.
La dignità smarrita nei lineamenti e nelle strade allora tenta una fuoriuscita
negli appelli del giorno a cui queste pagine danno volentieri credito e voce
spingendoci ad una misura, ad una tenerezza di luce, che in quanto umana non ci
è mai estranea e, dunque, tanto meno diversa e che rappresenta la gemma di bene
del testo (tra i tanti l'infermiera del manicomio, il vecchio ferroviere
"capovaccaio" "che segue lento le greggi/ ai margini di lontani
deserti", l'addetta alle pulizie che digita appuntamenti d'amore col
proprio uomo). Il riconoscimento reciproco, l'interconnessione, si sforza così
Mosi fino in fondo di far risalire come i valori forti a vincere quel mercato
delle anime cui tutto per ogni sofferenza è a saldo seguendo (come lui in
"Ospedale") tracce di storie e di figure attraverso i tanti
padiglioni della vita per orientarci- ricalcando le sue stesse parole- nei
labirinti delle nostre notti infinite. Ognuno guerriero contemporaneo delle
lotte di tutti i giorni, novelli Ulisse la sera a casa come tornando a Itaca,
nel sogno di un "incontro con altri/ cieli, con la sua stella
cometa".
Visita la pagina
personale di Franca Alaimo Franca Alaimo
- 11/01/2016 17:41:00 [ leggi altri commenti di Franca Alaimo » ]
Gian Piero
Stefanoni scrive per il libro di Mosi "La vita fa rumore" una
recensione che testimonia una forte empatia. Stefanoni e Mosi sono, infatti,
due poeti con un forte e nient’affatto astratto senso etico della vita,
misurato quotidianamente con la realtà ed i suoi fermenti ed a ciò che accade
nei luoghi della loro quotidiana esistenza.
Entrambi, inoltre,
sono asciutti e densi nella loro espressione, vibranti ed allo stesso tempo
concreti. Poiché conosco la scrittura sia di Stefanoni che di Mosi, mi sento di
dire che sono due voci importanti nel panorama letterario odierno, perché veritieri,
onesti, aderenti ad una poetica d’impegno; ben lontani da tutti quelle
costruzioni funamboliche dei versi che sanno di poco o di niente.
La loro poesia è
sapida, insomma. Mi piace, dunque, incontrarli insieme e sapere del loro legame
di reciproca stima. Vorrei ricordare che l’amicizia non deve essere un
passaporto d’approvazione quando si giudica una scrittura. L’obiettività è il
più bel dono amicale che si possa donare, e la recensione di Stefanoni mi
appare obiettiva.
Visita la pagina
personale di Leopoldo Attolico leopoldo
attolico - 11/01/2016 17:11:00 [ leggi altri commenti di leopoldo attolico » ]
In una nitida
chiosa di Stefanoni leggiamo di "valori forti", di referenti che al
di là della retorica e dell’enfasi designano ragioni di vita e di scrittura
imprescindibili ma purtroppo ormai latitanti nella poesia che oggi ci occupa.
Credo che questa circostanza accrediti felicemente l’Autore del libro in
questione e lo collochi in un ambito - ormai raro - di ideale prezioso
antagonismo .
Un augurio e un
saluto
leopoldo attolico
-
n una nitida chiosa di Stefanoni leggiamo di "valori forti", di referenti che al di là della retorica e dell’enfasi designano ragioni di vita e di scrittura imprescindibili ma purtroppo ormai latitanti nella poesia che oggi ci occupa. Credo che questa circostanza accrediti felicemente l’Autore del libro in questione e lo collochi in un ambito - ormai raro - di ideale prezioso antagonismo .
RispondiEliminaUn augurio e un saluto
leopoldo attolico -