sabato 3 agosto 2024

Giuseppe Panella por "La vida hace ruido", de Roberto Mosi, Teseo - "Vivimos del trabajo": para el autor, entre mito y modernidad, se abre el espacio de la poesía, un espacio para llenar de ideas y de lucha

 



              Roberto Mosi

 

La vita fa rumore

“Noi viviamo di lavoro!”


 Prefazione

Poesia e lavoro

«Ancora vita il tuo dolce rumore
dopo giorni bui e muti riprende.
Porta il vento di maggio l’odore
del fieno, il cielo immobile splende.
Gli occhi stanchi colpisce di lontano
il rosso papavero in mezzo al tenero grano»
(Attilio Bertolucci, Convalescente)

1. Il rumore del lavoro e la forza del ricordo

Il punto di partenza di quest’ultimo progetto poetico di Roberto Mosi è legato a un fatto di cronaca che assume nei suoi versi una notevole importanza: la manifestazione avvenuta nel luglio del 2013 a Firenze in seguito a un’ordinanza che imponeva la chiusura alle ore ventidue dei locali della popolare Libreria Café de la Cité dove, invece, eventi culturali e attività musicali a essi connesse duravano fino a tarda ora, tra la rabbia e lo sconcerto degli abitanti del quartiere.
Il corteo che richiedeva il ripristino degli orari precedenti si era snodato, pur nell’afa estiva, pacifico ma molto colorito e vivacemente scandito dagli slogan gridati con forza e determinazione dai partecipanti alla lotta:

«Oggi si spalanca la porta:
si va in corteo, si parla
dell’essere alla città dell’avere.
Rabbia, lavoro che muore
sepolto il progetto di anni
oltre il senso comune.

Sul sagrato del Carmine
La vita fa rumore 7
s’inchiodano cartelli
nell’afa di luglio:
“No alla città vetrina”
“La noia è normalità”
“Adotta un libraio”»

Il rumore prodotto dalla vita è esibito quale conferma del suo non conformismo e della sua progettualità, l’idea di un ritorno alla normalità dopo la dimostrazione che qualcosa di nuovo e di originale poteva essere perseguito scatena la rabbia di chi pensava che almeno qualche spazio di libertà sarebbe stato lasciato aperto per l’invenzione e la gioia di vivere da parte di chi vuole ridurre tutto a noia e a normalità, a consumo e ad esibizione di un’esistenza fasulla e legata esclusivamente all’avere. Ma non è una pura questione di rumore quella sollevata da Roberto Mosi: la posta in gioco è più alta ed è legata al problema del lavoro, della sua potenza, della sua mancanza.
In molti dei componimenti che seguono, infatti, il tono rievocativo si tinge di un pathos molto intenso. Il ricordo delle lotte del passato tinge di rimpianto e lo sciopero delle trecciaiole (nella poesia omonima) ne diventa il simbolo perduto: «Tosca, cerco i fiori del bello / in periferia al calore delle utopie, / fiori rossi degli anni pari e dispari». Il calore dell’utopia legata alla forza trasformatrice del lavoro e delle lotte organizzate per renderlo più umano e più equamente rimunerato riverbera in queste parole e si trasforma in un ritratto di donna (Tosca che avanza, il suo bambino in braccio, simbolo di un Quarto Stato ancora a venire ma sempre indomabile e impossibile da ricondurre nell’ambito della pura normalità produttiva). La descrizione dei luoghi del lavoro si lega a quella delle lotte attuali di chi chiede “pane e lavoro” (lo slogan caro a Lenin e ai bolscevichi fin dal 1905 e sempre replicato con la stessa forza e insistenza nelle manifestazioni operaie).
Qui lo scenario è diverso da quello della San Pietroburgo o della Mosca d’inizio secolo, ma l’obiettivo è pur sempre quello e le forze addette alla sua repressione appaiono le stesse, ferreamente scagliate a proteggere i privilegi dei troppi pochi in grado di assicurare
livelli decenti di vita ai molti che non possono averne la possibilità:

«Le tute blu arrivano da Rifredi
la polizia è schierata, sbuca
dai portici la camionetta,
picchiano forte i manganelli,
si grida in coro pane e lavoro.

Le Giubbe Rosse sono sbarrate,
i poeti scomparsi.

La musica è delle sirene,
i versi le urla degli operai»

La dimensione culturale non può che essere accantonata e tacere in un contesto simile. Nel fuoco e nel furore della lotta, la poesia non è in grado di far sentire la propria voce: i versi sono ingoiati dalle urla di rabbia degli operai in cassa integrazione o licenziati, la musica è rappresentata dalle sirene delle auto della polizia. Eppure anche in un contesto di questo tipo c’è spazio per la scrittura e per il suo potere di ricordo e d’incitamento a prendere la parola, di non cedere, di ritrovare una verità di là dalle menzogne e dell’oblio. In un testo successivo, una delle protagoniste di una manifestazione per la Festa delle Donne dell’8 marzo invita chi scrive a farsi voce e memoria del passato e del presente delle lotte:

«Federiga, le compagne
tornano a difendere
il silenzio della fabbrica.
Fosca mi accompagna
sull’argine del fosso:
“Parla delle nostre idee,
tessi il filo della memoria”».

La dimensione operaia e popolare predomina in questa prima parte della raccolta: le voci e le testimonianze dei protagonisti diretti,
la nostalgia per un’epoca ormai definitivamente tramontata, la necessità di mantenerne viva la memoria, la forza dell’evocazione e il rimpianto per non essere più protagonisti in una stagione rinnovata di presa di coscienza e di emergenza delle lotte, tutto questo contraddistingue la scrittura poetica di questa sezione del poemetto (nonostante la suddivisione in liriche apparentemente singole e collocate isolatamente, infatti, non vedo una netta separazione narrativa nell’ispirazione fluida che caratterizza questi testi nella loro continuità e tenderei a considerarli, piuttosto, come un unico flusso poèmatico, un poemetto suddiviso in altrettanti stasimi):

«Sento il pianto dei bimbi,
voci, grida d’amore.

Il cortile centrifuga giorni
stagioni vicine e lontane,
la memoria dei volti.
Un vortice all’alba
disperde sogni e ricordi
nell’aria rossa della città.
I gatti sulle terrazze
si stirano languidi»

Anche i luoghi della condizione operaia (per dirla con Simone Weil) non sfuggono alla descrittività ricca di pathos di Mosi e i cortili delle case operaie sono rappresentati come il luogo privilegiato della loro soggettività dopo il momento dell’alienazione nel lavoro. Il cortile in cui risuonano i pianti dei bambini, le urla delle coppie che litigano o i gemiti di quelle che fanno l’amore ne è la rappresentazione più esatta e, nello stesso tempo, simbolicamente esaltata dal contesto.
In esso tutto ciò che è accaduto nel tempo, i bisogni e i ricordi, le passioni, i desideri e il dolore di vivere si confondono in un’atmosfera irreale, come di sogno astratto, ma la caduta in una drammaticità estranea al tono stilistico generale dell’opera è impedita, quasi bloccata, dall’ironica presenza dei gatti ieratici e pigri che “si stirano languidi” sulle terrazze, una sorta di contrappunto animale e appagato rispetto all’insoddisfatta rabbia e nostalgia che caratterizza le vicende degli umani. Il guizzo rappresentato dai felini appollaiati sui tetti impedisce la caduta in un pathos eccessiva e mostra le due facce della scrittura di Mosi: la lirica coinvolgente e sostenuta da un’autentica passione e la bonaria capacità di smontarla e di decostruirla in nome di un appello a sentimenti meno esasperati e più legati alla quotidianità.
Così i migranti, i lavavetri, i raccoglitori di pomodori nella Maremma e quelli di arance a Rosarno sono riscattati nel loro dolore e nella loro rabbia da uno sguardo che li coglie nella loro umanità e non ne fa solo simboli di una condizione umana tenuta sotto il giogo ferreo della necessità di sopravvivere, ma li coglie nella loro dimensione di persone che sanno reagire all’abbattimento in cui si trovano e rivendicano la loro personalità di esseri viventi.
Alle mani bianche degli operai del primo (come pure del secondo) Novecento sono sostituite quelle nere del nuovo Millennio: mani atte a lavorare anch’esse e anch’esse sfruttate senza pietà, spremute ai limiti del possibile da un feroce meccanismo che da esse ricava ciò che può e che vuole e che poi le emargina e le accantona ai bordi dell’esistenza comune degli altri componenti della compagine sociale che subiscono certamente lo stesso sfruttamento, ma spesso in maniera meno diretta e devastante, lasciando così loro l’illusione che il trattamento ad essi riservato sarà del tutto diverso e che con le “mani nere” essi non avranno mai niente a che fare.

2. Il lavoro e le sue facce molteplici

Il lavoro, dunque, si è visto, è al centro di quest’accorata raccolta di versi di Mosi.
Il poeta fiorentino non si concentra solo sullo sfruttamento e sull’angoscia che esso produce nelle sue vittime predestinate. Il lavoro è guardato talvolta con la lente deformata del grottesco e della satira sociale. È il caso di Federigo, impiegato presso una ditta di pompe funebri, che accorre in mano il catalogo delle bare ogni volta che apprende dell’esistenza di un moribondo che sia un potenziale
cliente. Il lavoro dell’infermiera dell’ospedale psichiatrico (quello ormai chiuso da qualche tempo di San Salvi) e quello dell’addetta alle pulizie in un vagone delle Ferrovie dello Stato (la donna telefona al suo fidanzato di aspettarla all’arrivo del treno, direttamente al binario dieci della stazione, in modo da avere più tempo per l’amore) sono visti con rispetto e, nel secondo caso, con un tocco di tenerezza e di sentimentale affezione.
Il lavoro è – anche secondo Mosi – la difficile conquista del Novecento che rischia di andare perduta nel nuovo Millennio e tornare a essere difficilmente raggiungibile (ed equamente remunerato) com’è accaduto nell’Ottocento dell’egemonia capitalistica e del trionfo della grande industria. Non avere lavoro o perderlo è ormai la grande paura di tutti i salariati e dei lavoratori dipendenti ed è giusto, quindi, che la poesia si faccia carico della natura profonda di questo problema così bruciante, così attuale.
Ma è lavoro anche l’attività artistica e, di conseguenza, il teatro. Mosi rinnova il suo interesse per l’opera lirica, ad esempio, e aggiunge alla raccolta un suo personale omaggio a Giuseppe Verdi:

«Emerge l’immagine:
comparsa in costume
vestito da frate, da principe
da soldato e da servo
sulle assi del palcoscenico.

Don Giovanni, Carmen
Lucia di Lammermoor.
Maschere si affacciano,
personaggi vestiti di musica
danzano sulle cornici
bianche di calce,
scivolano in platea,
Carmen e Radamés,
salgono nelle luci del palco
corrono tenendosi per mano
nel vortice delle note»

che suona anche come un omaggio dovuto alla fatica diuturna degli artisti e alla loro capacità di rendere la vita altrui talvolta più leggera e meno schiacciata dal dolore quotidiano di vivere.
Anche il mito classico partecipa di quest’atmosfera di cauta leggerezza, di deliberata sospensione del giudizio, di assonnata partecipazione a metà. Anche gli ieri di ieri sono fatti della stessa materia di cui sono costituiti quelli di oggi. Anche Ulisse e il suo nostos a Itaca:

«L’eroe raggiunge
la reggia nel sonno.
Penelope dorme stizzita
Arturo saluta, la coda ritta.
L’eroe guarda la posta,
dispone in ordine le armi
si distende sul letto,
il risveglio è vicino.

Ogni sera Ulisse
torna ad Itaca»

La poesia di Mosi, dunque, si distende tra i due poli (a lui consueti) del pathos duro e veemente della partecipazione e dell’ironica verifica degli stilemi di un passato divenuto eterno nell’immaginario collettivo. Tra mito e modernità, allora, si apre per lui lo spazio della poesia: uno spazio da riempire con la forza delle idee e delle soluzioni verbali.

Giuseppe Panella


* * * * * *

                 Indice


Prefazione di Giuseppe Panella "Poesia e lavoro"

 

Libreria Cafè

Le trecciaiole

Lavoro!

Manifattura

Quartiere popolare

Migranti

Lavavetri

Mani

Mediatrice

Raccolta delle arance

Raccolta dei pomodori

Stella cometa

Lavoro in festa, Marsa Alam

Una vita da ferroviere

Pulizia a bordo

Ricordo dell’attentato

Infermiera al manicomio

Ospedale

Impiegato delle pompe funebri

Teatro

Guida turistica

Ulisse torna ad Itaca

Orfeo a Firenze

Mercato

Impiegati comunali

Futuribile

Pony express

Il lavoro del poeta

La cucina di Françoise (La Recherche)

Il lavoro del pittore (La Recherche)

 

Schede

Note



La vita fa rumore

“Noi viviamo di lavoro!”

 

 

 

Libreria Cafè

 

Silenzio, ombre sedute

sugli scaffali de La Citè

sopra i libri della Libreria

Cafè, sul pianoforte

fra divani e abat-jour.

Salva la pubblica quiete.

 

Il proclama del giudice:

“Chiuso dalle nove

alle sette del mattino.

Disturbo alla quiete.”

Buonanotte Firenze,

un colpo alla cultura.

 

La cultura viaggia nell’aria

suono di voci, note

musica, fruscio di idee,

non porta degrado,

confonde facce di pietra

teste devote agli schermi.

 

Oggi si spalanca la porta:

si va in corteo, si parla

dell’essere alla città dell’avere.

Rabbia, lavoro che muore

sepolto il progetto di anni

oltre il senso comune.

 

Sul sagrato del Carmine

s’inchiodano cartelli

nell’afa di luglio:

“No alla città vetrina”

“La noia è normalità”

“Adotta un libraio”.

 

Si muove il corteo,

musica: dal furgone

il suono Brazil, Brazil.

Il corteo ondeggia,

 samba, carrozzine

avanzano a zig zag.

 

La ragazza danza

sul tetto rosso dell’Ape

il trampoliere

i cani al guinzaglio.

Si distende l’orchestra,

i  cappelli di paglia.

 

Al centro la tromba

da una parte, dall’altra,

teste, braccia, cartelli

seguono il movimento.

San Frediano alle finestre

le mani  in alto festanti.

 

 Piazze  tra ali di folla,

il traffico bloccato,

ronzano le radio.

Piazza della Passera:

due ragazze in costume

sul tavolo del ristorante.

 

Le parole, la denuncia:

 “Escono da  La Citè,

parlano, ridono.

Che ridono di notte?

Chiudano alle ventidue

 musica di Bach, Mozart!”

 

Urla sempre più alte:

“La vita fa rumore!”

Il corteo avanza,

Santo Spirito: “La piazza

del degrado dove si vive”,

ironia dell’altoparlante.

 

Sara nella piazza,

figura del Botticelli,

parla di libri, concerti.

La mostra delle Ferrari

al Ponte Vecchio?

No alla Libreria Cafè?

 

Due gitane, vestiti rossi,

battono forte le mani,

musica, flamenco

sul sagrato della Chiesa.

La facciata apre le ali

nell’armonia delle volute.

 

 

 

 

Le trecciaiole

 

Tosca, cerco i fiori del bello

in periferia al calore delle utopie,

fiori rossi degli anni pari e dispari.

 

“Alla Società di Mutuo Soccorso,

dopo l’arrivo dell’ultimo volo

quando cessa ogni rumore.”

 

Nei quadri alle pareti  Vinicio

racconta  la storia di Peretola,

sui tavoli lattine di Coca Cola.

 

Longarine, tavole da cantiere

si spingono in alto: lo slancio

della Cupola, della nuova società. 

 

Macchie di colore rosso, nero

giallo, azzurro, la tavolozza

di Botticelli. Lievitano storie.

 

Marcia  il Quarto Stato, Tosca

in prima fila, il bambino in braccio.

Facce sul fondo, formano un popolo.

 

Escono dai quadri dietro le torce

dei vigilanti, nei supermercati,

tra le ombre delle fabbriche.

 

 “Lo sciopero delle trecciaiole.

Mi distesi sulle rotaie.” Tosca ricorda:

“La cavalleria attaccò nella piazza.”

 

Remo al villino presso la  stazione:

“Chiusi il cancello, partii per la guerra.

Lo riaprii, con me la tubercolosi.”

 

Cesare porta gli amici alla barca

da renaiolo sull’Arno: “Dall’alba

al tramonto per un pezzo di pane.”

 

All’alba i primi voli, le sirene.

Alla Casa del Popolo Tosca e gli altri

riprendono posto nei quadri.


 

Lavoro!

 

Il salotto buono di Firenze

appare in bianco e nero,

i colori delle storie di Vasco.

 

Le tute blu arrivano da Rifredi

la polizia è schierata, sbuca

dai portici la camionetta,

picchiano forte i manganelli,

si grida in coro pane e lavoro.

 

Le Giubbe Rosse sono sbarrate,

i poeti scomparsi.

 

La musica è delle sirene,

i versi le urla degli operai.


 

Manifattura

 

Fosca mi guida

dal Fosso Macinante

nella fabbrica abbandonata.

Sedici compagne

al centro del piazzale

uscite dai fabbricati a raggiera.

 

Ogni donna una storia.

Federiga, un’immagine:

il portone si apre

mimose avanzano

le sigaraie escono

cantando:  la festa

dell’otto marzo.

 

Si accende il viso di Delia:

la sirena, lo sciopero,

sassi sui fascisti

entrati nel piazzale.

 

Federiga, le compagne

 tornano a difendere

 il silenzio della fabbrica.

Fosca mi accompagna

sull’argine del fosso:

“Parla delle nostre idee,

tessi il filo della memoria”.

 

 

Quartiere popolare

 

Il cortile è un pozzo profondo

cinquanta finestre assiepate

vicine gomito a gomito,

in basso il nero del fondo

in alto uno spicchio di luna.

Le luci si spengono

una lavatrice sferraglia

l’ultimo risciacquo.

 

Il cortile ha il lungo respiro

della gente che dorme,

evaporano sogni

s’incontrano sul fondo

in una danza incessante.

Sento il pianto dei bimbi,

voci, grida d’amore.

 

Il cortile centrifuga giorni

stagioni vicine e lontane,

la memoria dei volti.

Un vortice all’alba

disperde sogni e ricordi

nell’aria rossa della città.

I gatti sulle terrazze

si stirano languidi.

 

 

 

 

Migranti

 

È arrivato dai paesi dell’Est

lo stormo di uccelli migratori,

la notte dormono in stazione.

 

All’alba nascondono le coperte

tra i nidi dei piccioni,

sopra i chioschi delle aranciate.

 

Uccelli rapaci afferrano i sacchi

al mattino. La sera altri ripari,

ai nidi delle rondini più vicini.

 

 

Lavavetri

 

Il corteo dei magi lascia

l’affresco della Cappella,

scende le scale, appare

solenne nella via.

 

Sulle cavalcature i sovrani,

il grasso sceriffo: portano

in dono la stizza, il genio

fiorentino, l’arroganza.

 

Li circondano cittadini

i mercanti più ricchi

i giocatori del calcio

il capo dei tassisti

cuochi famosi.

 

Nel paesaggio di colline

angeli in volo, gruppi

di pastori, lavavetri

le braccia incrociate.


Mani

 

Mani piccole mani nere

mani bianche mani ferite

battono ai vetri della macchina.

Sguardi grandi assediano

incombenti il mio mondo.

 

Mani fioriscono nella città,

mostrano i dolori del mondo.

 

 

Mediatrice

 

In una valle della Lucania

vive Maria, dolce ragazza 

della lontana terra del Libano.

 

Conosce le lingue che si intrecciano

sul mare, il sapore comune dei piatti

in ogni festa l’eco di altre feste.

 

Stringe amicizie con le donne

parla felice della sua figlia

in questa terra dai rari sorrisi di bimbi.

 

Insegna la lingua ai migranti giunti

dall’altra parte del mare, per i lavori

nelle stalle e nei boschi.

 

Maria costruisce esili ponti

tra mondi lontani, vicini.



 

Raccolta d’arance

 

“Sono cinque giorni

che mangiamo arance

nascosti nell’aranceto.”

 

La faccia nera appare

oltre la tavola, oltre

la cesta d’arance rosse

bionde e il succo

fresco degli agrumi.

 

Per le strade di Rosarno

la furia della gente,

ronde in giro, lunghi

bastoni in mano.

 

“Ci muoviamo di notte,

c’è lavoro in Sicilia.”

“Vincerete la paura?”

“Prima un pezzo di pane

poi pensiamo alla paura.”

 

Si allontana, sparisce

 nel verde dei rami

l’uomo nero, il sangue

rosso d’ arancia.

 

  

 

Raccolta di  pomodori

 

La casa dell’estate emerge

dai campi di pomodoro,

dai solchi di piante verdi

cosparse di occhi rossi

fino alle colline sul mare.

 

Oltre la rete avanzano

ceste verdi di plastica,

all’opera mani di genti

giunte dall’Africa, donne

uomini chini al lavoro.

 

Formiche nere portano

le ceste al punto di raccolta.

Re Mida converte la fatica

in montagne luccicanti

del rosso dei pomodori.

 

 

Stella cometa

 

Mario insegna a guardar le stelle

dalla radura sopra Lagonegro.

 

Al tramonto risalgono il monte

s’immergono nel silenzio.

 

In cerchio sfogliano i perché

per lavagna la volta celeste.

 

Ognuno immagina l’incontro

con altri cieli, con la sua stella cometa.

 

 

 

Lavoro in festa, Marsa Alam

 

Nella terra dove sorge il sole

dal mare nelle vesti del dio Ra

gli alberghi avamposti assediati,

si scruta l’orizzonte dal villaggio

nave gonfia di musica e feste

incagliata fra acque di corallo

e deserto  dai grigi colori,

solcato dalla strada,  retta assoluta

nata dalle viscere dell’Africa.

 

Le sabbie dei giardini fioriscono

di profumi e colori,

le donne indolenti al sole

portano cellulari all’orecchio,

vicino camerieri giocano

a calcio con giovani di Berlino.

 

Nel salone, la sera, la danza

la ballerina accarezza

la fronte lucida del commesso

di Harrods, il karaoke,

segretarie di Bercy cantano

 j’entend siffler le train

 

 Nella terra dove sorge il sole

dal mare nelle vesti del dio Ra

grossi topi passeggiano

per le strade di Al Quaesir.

Per l’operaio di Dussendorlf

venti minuti per comprare

fra le merci sgargianti  del suk.

Ai tavoli del caffè lampi

negli occhi degli uomini,

nei vicoli donne in nero.

 

Carovane di Toyota violentano

il deserto, un cameraman

riprende il terrore

dell’impiegato di Nantes,

sulle rocce scolpite dal vento

sacchetti di plastica.

 

Nei campi beduini la sera

si sciolgono danze ritmate

la maestra di Norwich balla

guidata dal bambino

gli occhi punti di antracite.

 

  

 

Una vita da ferroviere

 

Il treno arriva veloce,

lo stridio dei freni

annuncia Firenze,

dai finestrini scorre

 

Cerco come ogni volta

di sorprendere nella stazione

che fugge, l’ombra

di Bruno, trent’anni

di notti e di sole.

 

Sui cristalli oltre i binari

frammenti di sole

seguono il volo

del capovaccaio, il rapace

che segue lento le greggi

ai margini di lontani deserti

 

 

 

Pulizia bordo

 

Anna in divisa verde

Pulizia a Bordo Alta Velocità

trascina il carrello

(carta, sapone, deodoranti)

nel rombo del treno in corsa,

dieci carrozze venti bagni,

uomini e donne.

 

Il treno rallenta

Anna in piedi alla porta,

digita messaggi d’amore

al suo uomo in attesa,

binario dieci della stazione.

 

 

Ricordo della strage

 

Il treno esce dall’Appennino,

taglia la periferia della città.

Nella carrozza visi stanchi,

computer accesi,

gli ultimi lavori del giorno.

 

Scorre il binario numero uno,

Mac Donald, la biglietteria

poi lo squarcio nel muro,

il bagliore della sala d’attesa.

L’eco ancora dell’esplosione.

 


 

Infermiera al manicomio

 

Maria alla finestra

chiama i passanti

urla ai rumori

parla di storie d’amore.

 

Eri infermiera  a San Salvi,

al manicomio.

 

Le tue parole incrociano

storie di donne legate

alle corde dei letti,

la cura di gelide docce.

 

La finestra d’improvviso

si chiude, rimane l’eco

sospesa sul veleno dei motori.

 

 

 

 Ospedale

 

Luci azzurre nei corridoi

fasciano il silenzio delle stanze.

Avanzo tra presenze del passato

nel labirinto dell’ospedale.

Attraverso reparti

seguo tracce di storie

che qui hanno visto la fine.

Da una stanza appare

nonna Fosca dal dolce sorriso

il grembiule da cuoca

poi Francesco in mano gli arnesi

da calzolaio.  Dal fondo

Vasco vestito da marinaio .

 

Intreccio il filo delle  storie

per orientarmi

nel labirinto della notte.

 

 

 

 

Impiegato delle pompe funebri

 

Raffiche di vento,

trema la finestra accesa

per la veglia al moribondo.

 

All’angolo della strada

Federigo pronto a correre

il catalogo in mano.

 

Sopra lo spiovere del tetto

un angelo bianco muove le ali,

vicino un angelo nero,

la coda sporgente.

 

Alle luci dell’alba

la corsa per afferrare

l’anima, il corpo.

 

 

Teatro

 

Gli applausi volano via,

il teatro è silenzio.

 

Da lontane sorgenti

la musica di Verdi,

le note salgono

sfiorano velluti rossi.

 

Emerge l’immagine:

comparsa in costume

vestito da frate, da principe

da soldato e da servo

sulle assi del palcoscenico.

 

Don Giovanni, Carmen

Lucia di Lammermour.

Maschere si affacciano ,

personaggi vestiti di musica

danzano sulle cornici

bianche di calce,

scivolano in platea,

Carmen e Ramadés,

salgono nelle luci del palco

corrono tenendosi per mano

nel vortice delle note.

 

 

Guida turistica

 

Leggeri i passi salgono la collina

la città si scioglie in sentieri solitari,

cancelli muti parlano di storie lontane.

Avvolge l’eco dei nostri passi

la pelle ruvida degli alti muri

segnata da strisce di graffiti.

Sporgono le braccia degli ulivi,

le voci dei compagni galleggiano

nell’aria umida di temporale.

 

Appare la casa rossa di Rosai,

Ciajkowsky compone musica,

le note per la campagna,

dalla villa del Pian dei Giullari

esce suor Celeste dopo la veglia,

una giovane bionda scende

a Firenze per il lavoro da sarta,

nonna Giulia, negli occhi gocce di cielo.

 

Oltre le acque dell’Ema, piene

di voci, di canti delle lavandaie,

il sentiero s’impenna fra i campi.

La vista si apre sui colli,

al centro la Cupola, misura

dell’incedere dei nostri passi.

  

San Gersolè ci accoglie,

le case sgocciolate lungo la strada,

i ragazzi intorno alla maestra.

Si distende poi la villa de’ Medici

dimora del lussurioso prelato.

Scende un barroccio di conche:

nonno Antonio tiene il cavallo.

 

Si apre infine la piazza

sullo sfondo la chiesa,

intorno le braccia dei loggiati.

Il paese si è ritirato a tavola

alla campana di mezzogiorno.

Il temporale sferza le cose,

il vino riscalda  le parole,

la voglia di andare

alla scoperta del mondo.




Ulisse torna ad Itaca


Ogni sera Ulisse

torna a Itaca.


L'alba sorprende

il volto dell'eroe

le armi impugnate

il computer per scudo

il telefono in mano

altri cento achei

infossati nelle poltrone.

 

Sulla terra le ombre

cedono il passo alla luce,

evaporano dal mare

i brividi della notte,

le strade vomitano

macchine nervose.

 

Alla sera voci allarmate

parlano di dei adirati.

Sulle piste la flotta

achea  attende il decollo.

Infine il balzo

nella notte di pece.

Il porto d’Itaca è chiuso

per la furia dei venti.

Infinito il ritorno.

 

L’eroe raggiunge

la reggia nel sonno.

Penelope dorme stizzita

Arturo saluta, la coda ritta.

L’eroe guarda la posta,

dispone in ordine le armi

si distende sul letto,

il  risveglio è vicino.

 

Ogni sera Ulisse

torna ad Itaca.

 

 

Orfeo a Firenze

 

Cerbero il gigante dalle teste

rotanti ha trafitto Firenze,

nove chilometri di galleria.

Il treno in arrivo in mezzo alla folla.

“Orfeo è alla guida del treno”

sospira una voce innamorata

“Euridice è vestita di bianco”.

“Il canto ci ha conquistati,

siamo scesi in fila indiana

seguendo il suono della voce”.

 

Euridice è alla guida di Cerbero

nella melma degli ultimi strati,

la tuta bianca, l’elmetto sopra

i capelli biondi. Orfeo

s’innamorò al primo sguardo.

Implorò Ade di lasciarla salire.

“Uscirà alla fine dello scavo

quando passerà il primo treno”.

 

 

 

 

Al mercato

 

Saldi per fine stagione

per cessata attività

saldi per amore perduto

per fine Repubblica

saldi arrivo menopausa

mancata erezione saldi

da scorte esaurite

per laicità defunta

saldi per demenza senile

improvvisa gioia saldi

per l’io esaurito

padrone depresso

saldi per fede devastante

invasione Casta

teste all’ammasso saldi

 

 

 

Impiegati comunali

 

Sfrenate pulsioni

portano a cogliere momenti

celesti in ascensori bloccati,

membri dai guanti colorati

fremiti inarrestabili

in luoghi comunali.

 

Inservienti compassate

raccolgono a fine giornata reperti,

la notizia ecco che rimbomba:

l’ascensore a volte si blocca

per scalare le vette del cielo.

 

 

 

Futuribile

 

Bit byte bit byte

zero uno zero uno

uno zero

 

acceso spento spento acceso

locale globale globale locale

 

punto rete punto rete

rete punto

 

nano secondo nano secondo

secondo nano

 

blog ergosum sum ergoblog

google yahoo google yahoo

yahoo google

 

messaggio d’amore d’amore messaggio

you tube you tube

tube you



 

Pony express

 

Pony express sui pedali

girovago sognatore,

portatore di dispacci.

 

Baschetto, lucchetto a U,

ricetrasmittente, borraccia,

borsa a tracolla,

divisa rossa, riflessi

sulle vetrine, infinita serie di pixel,

freccia acuminata.

 


 

Il lavoro del poeta

 

Oh divina Erato,

Signora della poesia,

invoco il tuo aiuto

per comporre in versi

suoni e silenzi,

per la ricerca della parola

nella discarica della memoria

o nel flusso dei pensieri,

in mezzo alla melma

delle ore del giorno,

o in mezzo alla luce

delle ore della notte

cercare ancora parole

per formare un ammasso

d’argilla da modellare

a piene mani

cercando la forma.

 

Sulla lunga scogliera

assolata d’Antibes

Picasso e Maria

raccolgono gusci

di granchio lasciati

dal mare infuriato.

Nelle fresche stanze

del Palazzo Grimaldi

Pablo li compone

in forme leggere,

discorrono con il fascino

de La joie de vivre.

  

A Knokke sul mare                    

del Nord, Jean-Michel

Folon cerca pezzi

di legno macerati

dalle altalenanti maree,

con tinte pastose

dà corpo a sogni

di sorpreso stupore.

Nella sala di fumo

i suonatori di jazz

giocano con un motivo,

ora lo esasperano

ora lo accarezzano

con toni leggeri.

 

Leggo e rileggo

i versi, ascolto

la mia voce, cerco

tracce di colore,

riflessi di luce

pieni e vuoti d’ombra,

scompongo e ricompongo

l’ammasso d’argilla.

Nella tavolozza dei colori

inzuppo la fantasia,

nel pennello parole

in libertà, la scala

dei suoni, profondità

della memoria, ricerco la luce,

ricerco il tratto,

lo sfumato, il senso

lontano dalla realtà,

comunico il tutto,

comunico il niente.

 

Sono sazio di penetrare

di mani l’argilla,

ora il fuoco del forno

abbraccia la forma;

è pronta poi per essere

affidata all’aria,

alla polvere del giorno.

  

La cucina di Françoise

(La Recherche)

 

Cucina avamposto

della casa dei Proust,

dalla tavola di marmo

decollano i piatti guarniti

serviti al ricevimento

in una nuvola di commenti,

l’eco delle voci

raggiunge la porta.

 

Cucina porto di sbarco,

la borsa della spesa

arriva da Les Halles

alla tavola di marmo,

freschezza del rombo

primizie della stagione,

scelte da Michelangelo

tra i marmi di Carrara.

 

Cucina impero

di Françoise, ordini alle forze

della natura arrivate in aiuto,

dirige l’orchestra

dei servitori,

accoglie solenne

i complimenti dell’Ambasciatore

per l’arrosto di bue

deposto su cristalli di gelatina.

 

 Cucina miraggio

per la memoria della gola,

il sapore della lettura

mischiata al gusto dei sapori,

i lamponi del Signor Swann

la torta alle mandorle

la crema al cioccolato

l’impasto per la petite madeleine.

 

Cucina caleidoscopio

abitata dalla curiosità di Marcel

per l’arte di Françoise

per il manzo alla moda,

per il sapore inebriante del sugo

dopo tre ore di cottura,

ricco di bocconcini di carne:

le storie dei suoi personaggi.

 

Cucina crocevia

per  i ricordi della mia cucina,

ventre della vita intorno

alla tavola di  marmo,

abitata da storie e novelle,

da ospiti, piatti, tinozze per il bagno,

dalla mano del nonno

che mi protegge dagli spigoli,

  

Cucina museo,

al centro della fotografia

la trama lucida del marmo,

ai lati la dispensa

l’occhio spento dei fornelli

l’acquaio muto per sempre,

alle pareti lo scaldaletto

scaldavivande di rame

ombre della vita  passata.

 

Cucina attesa

per la veglia di Céleste,

seduta alla tavola di marmo

in compagnia dei personaggi,

degli incontri di Marcel.

Il campanello dalla camera:

“Adesso glielo dico: stanotte

ho messo la parola  fine”.

Grazie, Céleste Albaret.

 

 

 

Il lavoro del pittore

(La Recherche)

 

 

 

Silenzio seducente del quadro

nel rumore di folla del Salone.

Scopro metafore fissate

tra le frasi delle immagini,

pittore senza arte, compongo

dall’arte di più pittori

da un frammento del mondo

da artifici di immagini

da prospettive inattese.

Comprendo, trasformo

catturo la mia pittura

penetrando  nei quadri.

Dipingo con la parola

per pennello la parola

per trama la tela della parola

per colore il suono della parola.

 

Silenzio sonoro del porto.

Multiforme, potente unità

nessun confine, terra e mare

l’acqua penetra le case, oltre

i tetti gli alberi dei battelli.

Uomini spingono alla spiaggia

barche tra i flutti, la sabbia

bagnata riflette le chiglie,

specchio lucido d’acqua.

Una nave  lontana nascosta

ora dagli edifici, sembra

avanzare in mezzo alla città.

Alla bocca del porto le onde

battono contro gli scogli,

uomini governano le barche

piegate ad angolo acuto,

al galoppo, veloci sul mare.

Altrove specchi d’acqua

calmi, in una bella mattina

dopo il temporale, i riflessi

degli scafi accavallati

sul profilo delle chiese.

Più lontano tratti neri,

bianchi di spume, di nebbia

compongono la carreggiata

dell’erta impennata

di una nave verso il cielo,

una carrozza che scrolla via

l’acqua all’uscire dal guado.

 

Silenzio ambiguo del ritratto.

Acquerello pieno d’incanto,

soggetto singolare, seducente

fascino da scoprire di giovane

donna  non bella, il copricapo

simile a un cappello duro

orlato dal nastro color ciliegia,

la sigaretta accesa

nella mano coperta dal guanto.

Sul tavolo un vaso di rose.

Travestimento per il ballo?

Un’attrice di altri tempi

a mezzo vestita da uomo?

Tratti mascolini del volto,

forse un giovane effeminato.

Tristezza nello sguardo

posa piccante, provocante

da personaggio del teatro.

Libertà dalla normalità?

 

Silenzio d’acqua delle ninfee.

Cinque, sei tele per dipingere

passo dall’una all’altra

inseguendo l’attimo

la sorpresa dell’inatteso.

Punti d’osservazione diversi

per le stagioni dell’anno

il mese, il giorno, l’ora.

Una tela, un pennello diversi

al variare dei brandelli di cielo

il passare di una nuvola

l’improvvisa folata di vento

l’arrivo della tempesta.

La superficie s’increspa

s’infrange in piccole onde

si sgualcisce il telo di seta,

i colori si accendono vivi

si spengono, ombre di morte.

 

Silenzio simbolo di seduzione.

Danza il corpo segnato

da simboli misteriosi,

danza una rosa in mano

in attesa del carnefice,

danza davanti ad Erode

gli occhi accesi di brace,

danza per la decapitazione

sorreggendo il vassoio,

danza per la testa che brilla

di un’aureola di gloria.

Dipinti, acquerelli, disegni

si moltiplicano: la danzatrice

torna a sollevare il braccio,

a muovere i passi fatali.

 

Silenzio della pagina scritta.

Regno della lenta cognizione

per l’occhio educato alla pittura,

si stacca dal ritmo usuale

del tempo dello spazio,

nel laboratorio aperto

per la nuova creazione,

conquista una folla

d’immagini cospiranti,

convergenti in mille rivoli,

allontana di pagina in pagina

il soffio silenzioso della morte.

 


 

 

 

Schede

 

 

Roberto Mosi vive a Firenze, è stato dirigente per la Cultura alla Regione Toscana.  Ha pubblicato nel 2013: Concerto (Gazebo) che comprende “Concerto per Flora” e “Sinfonia per Populonia”; il saggio Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone. Storie francesi da Piombino a Parigi (Ed. Il Foglio). In precedenza, le raccolte di poesia: L’invasione degli storni (Gazebo 2012), Luoghi del mito (Lieto Colle 2010), Aquiloni (Il Foglio 2010), Nonluoghi (Comune di Firenze 2009), Florentia (Gazebo 2008).  Nella Collana LibriLiberi di www.a.Recherche.it sono presenti gli eBook: Nonluoghi, Aquiloni, Itinera, Sinfonia per Populonia, Florentia. Recensioni sulle opere dell’autore nel sito www.literary.it. Ha realizzato mostre presso caffè letterari e biblioteche sul rapporto fra testo poetico, immagine fotografica e pittura.  E’ stato assegnato il primo premio “Villa Bernocchi” 2009 (Verbania) per l’opera        L’autore ha realizzato mostre di fotografia presso caffè letterari, biblioteche, sale di esposizione. Mosi è fra i redattori di Testimonianze, rivista fondata da Ernesto Balducci. Fra gli articoli: “Il paesaggio fra poesia e memoria” (2002), “Dino Campana” (2004), “Gli angeli sulla Cupola di Berlino” (2004), “Mario Luzi, la tensione verso la semplicità” (2005), “Da quando Modugno cantò volare” (2007). Cura i Blog  www.robertomosi.it e www.poesia3002.blogspot.it .  Riferimenti: r.mosi@tin.it .


 

Note

 

La fotografia della copertina è dell’autore, ripresa il 5 luglio 2013, in occasione del corteo di solidarietà per la Libreria Cafè La Citè, colpita da un provvedimento del giudice a seguito di una denuncia per disturbo alla pubblica quiete.

Enrico Guerrini ha realizzato i disegni presenti nella Raccolta.

La Poesia Le trecciaiole è ripresa dal “Concerto per Flora” della Raccolta “Concerto”, Gazebo Libri, 2013.

Gli ultimi componimenti La cucina di Françoise (La Recherche) e Il lavoro del pittore (La Recherche), sono ripesi dai lavori preparati dall’autore per le edizioni  www.laRecherche.it dedicate nel 2011 e nel 2013 a Marcel Proust, in occasione dell’anniversario della nascita dell’autore francese


LaRecherche.it

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Commento di Gian Piero Stefanoni

La vita fa rumore

Autore prolifico e sempre entro un'incisione critica ed etica del reale, già come dirigente della cultura alla Regione Toscana e come redattore di "Testimonianze" (la rivista fondata da Padre Balducci), Roberto Mosi conferma qui tutto il suo timbro insieme passionalmente partecipativo e incalzante tra le maglie di un contemporaneo riportato sempre alla dimensione cruda delle sue spoliazioni e delle sue dolenze. L'evento- l'occasione, il pretesto- da cui prende le mosse il libro è un corteo di protesta che ha visto sfilare tanti giovani, tanti cittadini per le strade di Firenze nel luglio 2013 dopo la decisione di un giudice di anticipare alle 21 l'orario di chiusura della Libreria Cafè de la Citè, luogo di aggregazioe culturale e sociale di non poca importanza. "La vita fa rumore" nella scritta in rosso di un cartello (e che fa da prologo nella foto dello stesso Mosi nella copertina del libro) viene ripresa dall'autore e segnata a paradigma di un contrasto sempre più evidente tra urgenze, sempre più comuni a molti purtroppo, e non ascoltate e un convivere civile sordo, monco entro corde e sacche di indifferenze e nascondimenti (quando non di repressioni). Perché la vita attorno a noi preme- ci viene ricordato- ci tira per la giacca e ci scuote, ci mette a nudo con la sua palestra di interrogazioni e perdite. A partire dal lavoro, sovente, cui Mosi dedica buona parte del libro ricordando dapprima le lotte di conquista dei più elementari diritti (a ritroso tratteggiando figure epiche come la Tosca e lo sciopero delle trecciaiole) la cui eredità viene messa poi a rischio nella precarietà di una condizione odierna il cui futuro sembra farsi ogni giorno più oscuro (non a caso il libro ha la sua dedica per i giovani fiorentini in cerca di occupazione). Alla poesia, allora, viene esplicitamente chiesto da farsene carico nella denuncia e nella testimonianza (vedi la lavoratrice in "Manifattura":"Parla delle nostre ide,/tessi il filo della memoria") di un canto ormai senza più versi se non quelli rappresentati dalle grida degli operai di fronte alle sirene della polizia, dei tanti migranti (mirabilmente tratteggiati come figure in un mondo di uccelli) e dei tanti lavoratori- neri- in nero nelle nostre campagne che coi tanti dispersi bussano con la loro fame, con le loro mani direttamente ai nostri infingimenti. La dignità smarrita nei lineamenti e nelle strade allora tenta una fuoriuscita negli appelli del giorno a cui queste pagine danno volentieri credito e voce spingendoci ad una misura, ad una tenerezza di luce, che in quanto umana non ci è mai estranea e, dunque, tanto meno diversa e che rappresenta la gemma di bene del testo (tra i tanti l'infermiera del manicomio, il vecchio ferroviere "capovaccaio" "che segue lento le greggi/ ai margini di lontani deserti", l'addetta alle pulizie che digita appuntamenti d'amore col proprio uomo). Il riconoscimento reciproco, l'interconnessione, si sforza così Mosi fino in fondo di far risalire come i valori forti a vincere quel mercato delle anime cui tutto per ogni sofferenza è a saldo seguendo (come lui in "Ospedale") tracce di storie e di figure attraverso i tanti padiglioni della vita per orientarci- ricalcando le sue stesse parole- nei labirinti delle nostre notti infinite. Ognuno guerriero contemporaneo delle lotte di tutti i giorni, novelli Ulisse la sera a casa come tornando a Itaca, nel sogno di un "incontro con altri/ cieli, con la sua stella cometa".

 

 

 

Visita la pagina personale di Franca Alaimo  Franca Alaimo - 11/01/2016 17:41:00 [ leggi altri commenti di Franca Alaimo » ]

 

Gian Piero Stefanoni scrive per il libro di Mosi "La vita fa rumore" una recensione che testimonia una forte empatia. Stefanoni e Mosi sono, infatti, due poeti con un forte e nient’affatto astratto senso etico della vita, misurato quotidianamente con la realtà ed i suoi fermenti ed a ciò che accade nei luoghi della loro quotidiana esistenza.

Entrambi, inoltre, sono asciutti e densi nella loro espressione, vibranti ed allo stesso tempo concreti. Poiché conosco la scrittura sia di Stefanoni che di Mosi, mi sento di dire che sono due voci importanti nel panorama letterario odierno, perché veritieri, onesti, aderenti ad una poetica d’impegno; ben lontani da tutti quelle costruzioni funamboliche dei versi che sanno di poco o di niente.

La loro poesia è sapida, insomma. Mi piace, dunque, incontrarli insieme e sapere del loro legame di reciproca stima. Vorrei ricordare che l’amicizia non deve essere un passaporto d’approvazione quando si giudica una scrittura. L’obiettività è il più bel dono amicale che si possa donare, e la recensione di Stefanoni mi appare obiettiva.

 

Visita la pagina personale di Leopoldo Attolico  leopoldo attolico - 11/01/2016 17:11:00 [ leggi altri commenti di leopoldo attolico » ]

 

In una nitida chiosa di Stefanoni leggiamo di "valori forti", di referenti che al di là della retorica e dell’enfasi designano ragioni di vita e di scrittura imprescindibili ma purtroppo ormai latitanti nella poesia che oggi ci occupa. Credo che questa circostanza accrediti felicemente l’Autore del libro in questione e lo collochi in un ambito - ormai raro - di ideale prezioso antagonismo .

Un augurio e un saluto

leopoldo attolico -

 

 

 






1 commento:

  1. n una nitida chiosa di Stefanoni leggiamo di "valori forti", di referenti che al di là della retorica e dell’enfasi designano ragioni di vita e di scrittura imprescindibili ma purtroppo ormai latitanti nella poesia che oggi ci occupa. Credo che questa circostanza accrediti felicemente l’Autore del libro in questione e lo collochi in un ambito - ormai raro - di ideale prezioso antagonismo .

    Un augurio e un saluto


    leopoldo attolico -

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