giovedì 2 marzo 2023

"CITTA' e ANTICITTA", Michelucci, Palazzo, Elia, D'Alto, Toscano, Paolicchi, Mosi, Burgalassi - La pagina su Literary



Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci © The Author(s) 2016. This article is published with Creative Commons license CC BY-SA 4.0 Firenze University Press. DOI: 10.13128/contesti-20370 www.fupress.net/index.php/contesti/ Premessa Spazio pubblico è una espressione che, oggi, quasi d’istinto, opponiamo a spazio privato, in un confronto che si è fatto conflitto sempre più aspro: termini come privatizzazione, consumo di suolo, mercificazione dello spazio, speculazione edilizia, perdita della terra coltivabile, inquinamento dell’ambiente, cementificazione del territorio, si oppongono a termini, come: spazio pubblico, ambiente sostenibile in rapporto ai bisogni delle generazioni future, conservazione della biodiversità e della vita, diritto alla uguaglianza, conservazione dei beni comuni, ecc. Spazio pubblico è dunque una parola simbolo che evoca un insieme di cose, è la sintesi annunciata, a far prevalere il bonum commune, la publica utilitas. Il pubblico interesse: che dovrebbe porsi come “nettamente sovraordinato al profitto privato” (Settis, 2015, p. 48). Come vedremo, l’antinomia pubblico/privato non ricorre Streets and public space play a central role in the writings and works of Giovanni Michelucci. The article analyses the relationship between space and society in the vision of Michelucci, with references to some key moments in his life: the relationship with Lawrence Halprin, the reflections on Brunelleschi, and more in general on ancient cities, the crisis of public space in contemporary cities, and the design of a specific public space: the Garden of Encounters (Giardino degli Incontri), at the Sollicciano prison in Florence. Silvano D’Alto Università di Pisa silvanodalto@gmail.com Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci 53 nel linguaggio di Michelucci, o ricorre assai poco, ma non certo per indifferenza al tema, che anzi fu centrale e drammatico nel suo linguaggio e nella sua opera. Nei colloqui che ho avuto con lui era continua la sofferenza palesata perché il committente (pubblico o privato) si aprisse ad un pensiero più ampio, sempre rivolto a superare ogni narcisismo e si sentisse proiettato ai valori dell’”incontro” e del “percorso” (parole da lui amate) come senso della vita, perché la felicità dell’architetto era anche contrastata dalla sofferenza di andare nel cantiere e vedere che i tecnici avevano sconvolto la sua opera. Ogni volta bisognava ricominciare da capo. Ogni sua opera era una felicità e un dramma profondo. Più o meno, diceva questo: dovrei farmi ricoverare in una clinica dopo ogni lavoro. Potremmo dire che la sua relazione con gli uomini – committenti, tecnici, istituzioni – che incontrava nel corso dei suoi lavori era un continuo dover superare l’invasivo mondo degli stereotipi che lo avvolgevano come un soffio negativo, per quello stupore che sempre nasceva davanti alle sue proposte. Michelucci amava ricondurre quel conflitto pubblico/privato che lui conosceva ad un livello più alto o più profondo dell’agire: al livello dello spazio tout court. Spazio come dimensione senza aggettivi: quella dimensione era la città. Nella lezione di Brunelleschi scoperta da Michelucci, “[lo spazio], anche se recintato e di proprietà privata, ha l’impronta ‘pubblica’ non intende costringersi in un perimetro, e forma una cosa sola con lo spazio esterno urbano e con la natura circostante. È uno spazio ‘di tutti’. Anche se è stato cercato da un solo uomo; si avverte che quell’uomo raccoglieva Giovanni Michelucci CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI 54 la ‘speranza dei cittadini’, come dice Vasari”. Così lo spazio pubblico “sarà lo spazio dedicato al libero intrecciarsi dei rapporti comunicativi […] e il ‘privato’ sarà non un luogo di proprietà privata, ma il momento del raccoglimento individuale (nella vita di gruppo)” (Michelucci, 1972, pp. 64-65). Insomma lo spazio deve produrre la città. Città come divenire, come meta continua, incessante evoluzione, non come statica ripetizione di forme del passato. Città variabile, perciò, come lui amava ripetere. Se la città è variabile, tutto diviene non assoluto, non statico ma dinamico, non chiuso ma aperto e relazionale, mutevole di confini, secondo le esigenze di quella realtà in continua trasformazione che è la vita della città. Città variabile, ma che non nega il rapporto con le proprie radici. Senza radici un fiore muore o dura poco, senza radici anche una città perde se stessa. Ma, esiste una “misura umana”, si possono individuare dei codici privilegiati, un metalinguaggio, su cui fondare la qualità degli interventi, nel mentre la città varia? “A misura d’uomo” fu termine molto di moda negli anni Sessanta, quando il conflitto pubblico/ privato era forte e la richiesta di spazi pubblici elevata, come simbolo di una battaglia contro lo strapotere dell’espansione edilizia “a macchia d’olio”, come allora si diceva. Michelucci sposta il problema dal livello della forma alla produzione di nuovi significati dell’agire. “Se le città hanno perduto la ‘misura umana’ (ove questa sia mai esistita) – osserva Michelucci – non si deve all’espansione edilizia disordinata, caparbia, alla ‘muraglia di cemento’, alla distruzione del ‘verde’. Questi sono effetti non cause. Le cause vanno cercate nel fatto che la crescita della città ha seguito il criterio di ampliamento dello schema tradizionale di città murata, senza che un’idea nuova, una nuova interpretazione della vita e dello spazio vissuto, un’analisi più approfondita degli uomini, precisasse i rapporti fra il passato e il presente; ne scoprisse gli eventuali punti di contatto, o di distacco, separando ciò che è ancora vivo da quel che è morto” (Michelucci, 1971). Puoi cercare lo spazio pubblico – aggiungo io – dentro un contesto che nega la possibilità di costruire la città, come “punto di massima convergenza delle energie e della cultura di una comunità” (Mumford, 1938)? Questa l’aporia che Michelucci incontrava. E che risolveva nei suoi progetti inseguendo lo spazio tout court nel quale faceva confluire il suo senso della natura e della vita, perché come diceva di Brunelleschi “non c’è in ultima analisi dualismo tra natura e cultura. Anzi è realizzata una perfetta sintesi dove gli attributi dell’una e dell’altra non sono più riconoscibili: il punto più alto dei rapporti tra i due momenti è quando essi scompaiono dall’economia del discorso e si ritrovano indistinti nella cosa, senza mediazione. Il concetto rinascimentale di aprire una finestra nella natura: Brunelleschi non ha di queste preoccupazioni perché la natura l’ha messa Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci 55 dentro, è la sua persona. Questo non è che un modo per ribadire che Brunelleschi ha portato il sacro fuori dal recinto lo ha partecipato a tutti” (Michelucci, 1972, p. 93). Qui già scorgiamo un carattere, un dover essere dello spazio che noi diciamo pubblico: lo spazio pubblico non apre i suoi tentacoli dentro la selva del privato. Non è una finestra sulla natura, che mitiga l’alienazione del privato offrendo un altro recinto: quello del pubblico. Ma è un annuncio: portare fuori dal recinto tutte le forme di sacro (gli stereotipi della cultura, intangibili, che difendono interessi, ricchezza e potere e ogni forma anche culturale che si recinge, si ghettizza): ossia portare fuori dal recinto ciò che esclude dalla vita intesa come relazione di tutti gli uomini o meglio di tutti gli esseri viventi. Ciò evidentemente non significa escludere le diversità, ma farle vivere nella relazione che le unisce: l’incontro e il percorso cari a Michelucci. Michelucci e Halprin: antropologie inconciliabili Quando Lawrence Halprin venne a Firenze, nel 1986, per presentare le sue idee progettuali dell’area di Novoli e in particolare il parco con un grande specchio d’acqua al suo interno, un prototipo di spazio pubblico immerso in un’idea di natura, come Halprin scriveva a Michelucci “un parco che dovrebbe offrire il tipo di rapporto archetipo e ecologico con la natura di cui tutti abbiamo bisogno! E voglio che sia adatto per passeggiate e picnic, pieno di fiori, alberi, suoni di uccelli e cascate, a contatto stretto con le piante”. Michelucci risponde a Halprin con grande gentilezza e determinazione, con un esempio: “Piazza del Campo a Siena o piazza Navona a Roma, pur non ospitando nessun elemento di verde, hanno in sé il senso della natura più di qualsiasi parco cittadino. Allora cos’è la natura se non l’interiorizzazione di tutti gli elementi dell’universo, materiali e culturali, di memoria e di vita vissuta non solo dall’uomo, ma da tutti gli esseri viventi?” (Cassigoli, 2004, p. 34). Lo spazio di Michelucci ha una dimensione antropologica; il tempo e lo spazio hanno spessori profondi di storia e di vita, vengono da lontano, hanno radici. La natura non la devi cercare fuori da te, sarebbe una forma di alienazione, ma dentro di te, come una dimensione del tuo essere. Lo spazio deve essere la rivelazione a te di te stesso. Allora lo spazio è “vero”, con un termine che piaceva Lo spazio, anche se recintato e di proprietà privata, ha l’impronta ‘pubblica’, non intende costringersi in un perimetro, e forma una cosa sola con lo spazio esterno urbano e con la natura circostante. È uno spazio ‘di tutti’. CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI 56 a Michelucci. Lo spazio di Halprin è un’altra antropologia, Halprin non ha la città della storia dentro di sé, come l’aveva Michelucci; ha dentro di sé gli elementi del paesaggio (non la città) americano, forse le grandi pianure, le montagne, le cascate e qualcosa di ancora più profondo, un senso della libertà che non è il senso della libertà della città dell’Occidente. La libertà di Piazza del Campo è quella dimensione della città che Michelucci interpretava coma coralità, lo stare insieme per vivere l’incontro e il percorso, cioè la vita, una costruzione straordinariamente complessa che ti impegna con te stesso, guardandoti dentro, non fuggendo nella libertà di spazi sconfinati. Piazza del Campo è spazio politico, la torre del Mangia sta a testimoniare un dramma di storia non alienabile né dal concetto di natura né di cultura. Qualunque concezione di spazio pubblico per Michelucci è un’idea di città, è un’idea globale, ma non totale, non ideologica, non ideale: ma città variabile, appunto, come si è detto, non univocamente definita né definitiva. Per quanto di dimensioni limitate, uno spazio per essere tale, spazio dell’uomo nella sua identità di continua relazione, deve incorporare il senso città, il frammento che parla già del tutto: uno spazio urbano, spazio pubblico per antonomasia, come pensarlo “Penso a una prima cellula, una sorta di DNA della terza città, non aggressiva, in cui elemento etico e costruttivo coincidano, un organismo limitatissimo, ma talmente vitale da suscitare reazioni a catena nell’ambiente circostante, quasi invisibile a occhio nudo, ma capace di ridare alla città il senso del continuo, della memoria di sé” (Michelucci, 1990, p. 16). Lo spazio generatore di vita, questo è lo spazio per Michelucci, spazio pubblico per antonomasia. Lo spazio pubblico: spazio collettivo, di movimento, di fiaba “Ti sei mai chiesto – chiede Michelucci al suo intervistatore – come mai la piazza del Campo di Siena è sempre così piena di gente che si siede sulla fontana o per terra, sulla pavimentazione di mattoni, o passeggia vagabondando? Hai notato che mentre nella struttura viaria della città è impresso il senso del transito, essa – la piazza – ha quello della sosta? Il senso, cioè, di un luogo in cui si ritrovano sia i cittadini sia chi viene da lontano per far mercato o per conoscere la città e le infinite opere d’arte che essa conserva? Una città una piazza in cui sei il benvenuto, l’ospite atteso […] mi sembra di aver capito il motivo. Essa, anzitutto, è stata costruita conservando la struttura naturale da cui è stata ricavata: il punto di confluenza delle colline circostanti. Inoltre è opera non di singoli artisti, ma dell’intera popolazione […] per cui è nata un’opera d’arte collettiva, corale, nella quale ogni uomo può riconoscersi, può trovare, La natura non la devi cercare fuori da te, sarebbe una forma di alienazione, ma dentro di te, come una dimensione del tuo essere. Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci 57 cioè, quanto occorre per soddisfare le proprie esigenze pratiche e culturali. Caratteristica questa di tutte le città antiche” (Michelucci, 1980, p. 33). “La gente colta o incolta che sia […] considera questo spazio come indispensabile complemento della propria casa. Complemento che ha, oltretutto, l’atmosfera della fiaba”. E ancora, Michelucci continuando sulla fiaba, che nasce dalla fantasia, nella quale egli crede più che nell’immaginazione, “perché non sconfina mai nell’arbitrio, ma si avvale appunto dei mezzi usuali e li dosa così da ottenere variazioni infinite […]. La fiaba per me non è un’evasione, è un ritrovarsi spiritualmente in tanti […]. La fiaba è l’elemento fondamentale di identità di una comunità, il momento di incontro di tante realtà, di tanti punti di vista, di tante generazioni che in qualche modo affiorano ancora nel nostro presente in una forma spirituale, fantastica ma concreta di cui abbiamo estremo bisogno proprio quando stiamo per perdere – come ora – il senso del vivere sociale, dello stare insieme. La stessa forma che, in qualche modo, ritrovo, murata, in Piazza del Campo” (Michelucci, 1980, pp. 31, 34). Dunque lo spazio pubblico, o meglio lo spazio tout court, per Michelucci è uno spazio in cui sei l’ospite atteso, in cui ci si trova spiritualmente in tanti, che contiene il senso della natura, è un’opera d’arte collettiva, ha l’atmosfera di una fiaba, ha il senso del movimento e della sosta. In una parola, amata da Michelucci, è un fatto corale. Questi sono alcuni codici dello spazio pubblico, universali, direi, degli spazi pubblici della città di tutti i tempi. È una vera e propria antropologia urbana, almeno per quanto concerne la città dell’Occidente, ma forse anche più in là, perché le culture si differenziano profondamente ma in tutte ritrovi quelle dimensioni dell’umano che appartengono all’homo sapiens, costruttore di cultura. La vera bellezza di Piazza del Campo, aggiunge Michelucci, “sta appunto nel fatto che essa è vissuta come se la sua creazione non avesse un termine, come se il vivere quotidiano portasse ogni giorno una giustificazione a ciò che un tempo storico indefinibile ha realizzato e sta realizzando” (Michelucci, 1980, p. 35). Lo spazio pubblico ‘riuscito’ (altro termine amato da Michelucci), vive dunque il senso di una CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI 58 creazione continua. Ecco, uno spazio pubblico, spazio dell’uomo, dovrebbe rivelare anche nel frammento quell’idea di città che si insegue come una narrazione in fieri. Anche nella sedia, nel tavolo dovresti cogliere l’urbano, che è il bisogno di relazione, di senso. La città viene prima del frammento, ma il frammento già deve contenere l’urbano. Devi pensare che quel frammento sarà parte della città. La parte che contiene il tutto. Potremmo dire: la parte equipotente al tutto – qui il tutto è appunto la città – per dirla chiosando un paradosso dei sistemi infiniti di Cantor. Questo richiamarsi dei frammenti in una tensione che si svolge ininterrotta come un continuo rinfacciarsi l’un l’altro è già un implicito movimento nel cuore dell’urbano. Osserva Michelucci commentando la spazialità di Brunelleschi: “In Brunelleschi si dovrà ribadire che la dimensione dello spazio è quella del movimento: ecco allora dove lo spazio interno si salda con quello esterno […] e nessun cambiamento di scala o di misura si impone al visitatore. Ancora Michelucci: “In Brunelleschi il movimento è un fatto vitale di libertà anche visiva, egli non ci fa muovere presentandoci una serie di episodi che cambiano; siamo noi che ci muoviamo scontando ogni qualsiasi forma, per l’identificazione della quale è necessario uno sforzo su se stessi. Altrimenti è difficile fermarsi ed osservare; anzi l’osservazione delle cose diventa l’impatto stupito con se stessi” (Michelucci, 1972, p. 108). Uno spazio pubblico chiede il movimento perché il suo compito è suscitare relazioni, ossia produrre un senso vitale della città. Ma il movimento è una narrazione dell’intimo, una rivelazione; perciò la conclusione, “l’impatto stupito con se stessi”. Che cos’è dunque lo spazio? “Le nostre menti sono per abitudine fisse sulla materia tangibile, e noi parliamo solo di ciò che arresta il nostro occhio; alla materia si dà forma, lo spazio viene da sé. Lo spazio è un ‘niente’ – una pura negazione di ciò che è solido – per questo non vi badiamo. Ma per quanto possiamo non badarvi, lo spazio agisce su di noi e può dominare il nostro spirito” (citazione da G. Scott, in Michelucci, 1972, p. 109). Quali i confini dello spazio pubblico Quali sono i confini di uno spazio pubblico? Per Michelucci uno spazio pubblico è un’apertura, mai una chiusura: deve travalicare il limite degli stereotipi urbani e porsi come senso che attiva relazioni nuove, appunto un senso nuovo della città. “Un confine – osserva Michelucci – ha sempre il segno della consapevolezza di una verità relativa, importante proprio perché consapevole della sua relatività; una verità che accumula dunque attenzioni per ciò che è fuori della sua portata” (Michelucci, 1972, p. 26). Dunque, per noi che cerchiamo di capire, se travalichi il confine, trovi nuovi mondi, ricominci il percorso della vita. Brunelleschi travalicava il confine: era la condizione per produrre la città. “In San Lorenzo – osserva – qualunque maestro Lo spazio pubblico ‘riuscito’ vive il senso di una creEcco, uno spazio pubblico, spazio dell’uomo, dovrebframmento quell’idea di città che si insegue come u Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci 59 del Rinascimento avrebbe organizzato, nel coro, un gioco prospettico: Brunelleschi, inventore della prospettiva ha tagliato netto l’orizzonte. Ma mentalmente, fatalmente si corre oltre di esso e si è spinti di nuovo verso la città, che ormai domina la memoria e la percezione. Una linea paradossalmente riconduce ad una fondamentale circolarità. Il muro è una specie di cortina provvisoria, fatta declinare perché bisognava pur concludere, con semplicità senza artificio” (Michelucci, 1972, p. 93). Se il confine è consapevolezza del luogo, l’andare oltre è quel compito costantemente creativo che appartiene alla città. “Lo spazio urbano – dice Michelucci – è una creazione perenne che precede la forma e non è separabile dalla vita, dal tempo, dalle ipotesi sul futuro” (Michelucci, 1971, p. 71). Di qui nascono implicazioni anche riguardo al problema della forma dello spazio pubblico: “la ricerca della forma non può essere mai tuttavia l’elemento determinante di una inversione di tendenza, specie quando ciò che prevale non è tanto il delinearsi di nuove direzioni, ma il timore per l’attuale tipo di sviluppo. Una forma non si crea mai esaltando solo il concetto del limite, ponendo cioè remore a ciò che sembra irrefrenabile” (Michelucci, 1984, p. 1). Ma la forma nasce dal bisogno, e il bisogno si precisa nei processi di partecipazione: muovendo da diritti, libertà, uguaglianza, non dai processi di esclusione della società globalizzata. Nasce dalla “nave dei folli”, dalla città dei luoghi e degli spazi e non dalla città dei flussi, forte di potere ricchezza e informazione. “La forma – ci dice Michelucci – è la parola per cui gli uomini si intendono tacendo, essa non ha bisogno di essere spiegata, ma avvolge, penetra l’uomo e gli parla in un linguaggio universale, un linguaggio certo non alieno da quello della sofferenza” (Michelucci, 1991, p. 25). Ecco, nel bisogno che la forma cerca di risolvere è chiarita la presenza della sofferenza, componente non alienabile dalla vita. È lo spazio la guida per dare senso alla forma, dando risposta alle più svariate condizioni dell’uomo. “In questo senso uno spazio parla con un linguaggio sempre nuovo. Perché il modificarsi è motivato dal desiderio di sentire le più svariate esigenze e non dalla gratuità di una forma, la quale non farebbe altro che rendere l’edificio ancora più inaccessibile. Ed è questa la sorte di molta nostra architettura” (Michelucci, 1991, p. 24). Ciò che è “pubblico” deve farsi “spazio” Il problema per Michelucci, si sarà compreso, non è che lo spazio diventi pubblico (con certificato istituzionale), ma che il pubblico diventi spazio. E allora tutto cambia. È un continuo fiorire di idee, di pensieri che si allacciano a catena. Un groviglio pieno di vita. “Guai se credessimo di avere scoperto una volta per tutte la chiave di interpretazione della città; essa è infatti una fonte continua di problemi che non solo l’uomo non ha risolto, azione continua. bbe rivelare anche nel una narrazione in fieri. CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI 60 ma non si è neppure ancora posti […]. L’uomo ha infatti bisogno di convivere con il diverso da sé, per questo la città dell’uomo deve essere la città di tutti gli esseri viventi, la città della natura in tutti i suoi aspetti” (Michelucci, 1991, p. 17). Lo spazio pubblico in Michelucci non si definisce con uno schema, con un insieme di procedure più o meno ripetibili, ma sarà diverso nelle diverse circostanze che lo pongono in essere. Dalla natura si può prendere esempio: “La natura sembra suggerirci una concezione opposta dello spazio, come un intrecciarsi continuo di organismi e situazioni. La natura restituisce lo spazio, quando lo utilizza, arricchendolo. La natura varia in continuazione anche quando si ripete. Esprime se stessa attraverso la molteplicità degli esseri e delle manifestazioni. Dà più di quello che le chiedi e risponde quasi sempre in modo indiretto e imprevisto (Michelucci, 1991, p. 14). E la natura è infinita. Un infinito da decodificare, da riscoprire all’interno di quel dramma di ordinedisordine da cui è forgiata anche la città della storia. “La città non è mai nata da una mente ordinatrice o da un consenso generale”. Perciò si tratta di guardare allo spazio, alla città, “non come ad una serie di funzioni che legano il cittadino, con i suoi bisogni individuali, alle istituzioni, ma come una serie di situazioni che, comunicando tra di loro, siano in grado di offrire soluzioni nuove a problemi apparentemente irrisolvibili” (Michelucci, 1991, p. 14). Vivacità della vita – aggiungiamo noi – dentro all’urbano: “quelle strade, quelle piazze, quegli edifici che più amiamo si sono lentamente modellati attraverso la compresenza, l’incontro, lo scontro casuale di situazioni e interessi assai diversi tra loro” (Michelucci, 1991, p. 24). In conclusione, il pubblico, lo spazio pubblico, che si fa spazio tout court è il luogo fertile di embrioni di vita e di città che crescono all’unisono, empaticamente. Costruire la relazione per fondare il linguaggio dello spazio Riflettendo sul disagio della follia, Michelucci coglie “il dramma terribile dell’isolamento, del sentirsi contemporaneamente murati vivi e minacciati dall’esterno” (Michelucci, 1991, p. 24). Come vincere l’isolamento? Come costruire lo spazio che lo sconfigga e lo spazio pubblico in particolare? Cercando la relazione. “Si può anche partire all’inizio da una relazione tra due individui. L’importante è che nella tensione continua che tra essi si crea, e che li coinvolge, si sedimenti qualcosa verso l’esterno, una situazione psicologica i cui riferimenti allo spazio fisico dovrebbero essere analizzati in tutte le possibili implicazioni. In questo caso tra i due e chi li osserva si può già creare un linguaggio nuovo, uno spazio esterno strutturato dalla verità del loro rapporto, piuttosto che dai segni convenzionali della realtà che li circonda” (Michelucci, 1991, p. 24). Scrive ancora Michelucci: “Si comincia ad enucleare così uno spazio capace di estendersi e di arricchirsi attraverso il numero delle persone che entrano Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci 61 in gioco e che partecipano consapevolmente a questo itinerario di ricostruzione dello spazio vissuto” (Michelucci, 1991, p. 24). Ma è proprio la follia che, per Michelucci, può aggiungere qualcosa alla città, al suo inesauribile bisogno di dare risposta creativa anche al disagio psichico “che può diventare protagonista di questa ricostruzione di spazi per la città”. Non un servizio, ma una serie di situazioni con cui il servizio si arricchisce e arricchisce la città, non il luogo predisposto per la follia, se mai un luogo della follia”, dove cioè il disagio psichico diventa protagonista del cambiamento. E una conclusione che, allargando lo sguardo, è un vero e proprio paradigma per lo spazio pubblico: “Mi rendo conto di tutte le difficoltà tecniche e operative che tali ipotesi comportano. E tuttavia non saprei vedere altra strada se non quella di indicare in coloro che sono considerati gli esclusi della città presente i protagonisti del suo rinnovamento” (Michelucci, 1991, p. 24). Un prototipo di spazio pubblico: il “Giardino degli incontri” Perciò prototipo di spazio pubblico, per ammissione dello stesso Michelucci, è “Il giardino degli incontri”, nel carcere di Sollicciano. È un giardino particolare, perché gli alberi del giardino sono una fantastica costruzione di cemento e formano la struttura portante della copertura. Alla base le sedute per l’incontro con i familiari. È l’albero simbolico che diventa fiaba, la fiaba nel carcere. L’originalità del progetto – chiarisce Michelucci – sta nel fatto che le strutture e gli elementi propri di un giardino sono qui adibiti in massima parte per gli incontri con i familiari. Le piante diventano dunque protagoniste a pieno titolo, non dell’ambiente naturale, il che avrebbe assunto inevitabilmente l’aspetto di una squallida aiuola dentro il carcere, ma di quello designato all’incontro delle persone più care. [...] Posso solo dire che esso rappresenta in pieno il concetto di spazio pubblico. Esso non vale per le particolarità formali e tecniche, che pur vi sono, quanto per il significato che ad esso attribuiscono coloro che l’hanno voluto e progettato: una situazione che ornai raramente si verifica nella progettazione della città” (Michelucci, 1991, p. 23). Centrale è dunque, in questa riflessione di Michelucci, il problema del senso dell’azione. Senza il senso non si può costruire la razionalità dell’azione. Qui, si tratta del senso urbano, cioè di un modo di essere nella città e della città, un percepirsi ed essere percepiti nella città di tutti. Ossia il sentirsi ciascuno parte, e dunque attore, di quel tutto che è l’urbano nel suo continuo farsi e disfarsi, nella sua fascinazione di ordine e disordine. Essenza dell’urbano è la continua reciproca specularità dell’azione, una riverberazione empatica di sentimenti ed emozioni a carico di quel fenomeno, recentemente scoperto, dei cosiddetti ‘neuroni specchio’, che grande interesse hanno per svelare i segreti della vivacità della vita urbana. Uno spazio pubblico CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI 62 Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci 63 dovrebbe incorporare per eccellenza questa coralità del senso urbano, essere la parte che rivela il tutto, il frammento che rivela la città nuova. La sacralità che la città ha smarrito Per Michelucci lo spazio, si è detto, è pubblico per antonomasia, “è la possibilità di ricominciare, il senso del non finito, la persuasione che ogni situazione compromessa può avere esiti positivi, la capacità insita nell’uomo di mettere in comunicazione cioè fatti, cose, persone che apparentemente non sono fatte per stare insieme. Così avvincendo con legami sempre più profondi e impensati gli esseri della natura animati e inanimati, nasce il senso del sacro, il miracolo della creazione” (Michelucci, 1991, p. 26). Sacro, che Michelucci non amava se produce separazione. “O tutto è sacro o tutto è profano” commentava in una conversazione con me. “Io voglio una città dove ci sia posto per la favola, per il mito, per tutto ciò che è sacro alla comunità”. Parlando della chiesa, così si chiarì completamente: “Non voglio, non mi interessa più, costruire un ‘edificio monumento’ dedicato al culto, staccato dalla città. Quindi, chiunque dovesse commissionarmi una chiesa sa già che mi impegnerei a costruire un pezzo di città aperto a tutti. Ma anche chi dovesse commissionarmi un edificio pubblico laico, tenga presente che mi impegnerei ad esprimervi quel senso di sacralità che la città ha smarrito”. Michelucci trasmette un senso profondo della vita, della partecipazione, dell’uguaglianza, della cordialità tra gli uomini. Lo spazio pubblico, oggi Quale la situazione in cui opera oggi lo spazio pubblico nella cosiddetta città diffusa, nello sprawl urbanistico? La lezione di Giovanni Michelucci è che per costruire la nuova città, cioè per dare senso a quella agglomerazione di realtà individualiste e divise, veri recinti dell’essere che domina il territorio, è che anche nel frammento prodotto dalla società nelle sue forme pubbliche e private dovrebbe nascere lo spirito del luogo urbano, cioè il DNA della città. Cioè il privato dovrebbe rinunciare a qualcosa (il recinto in cui chiudersi) e il pubblico pretendere qualcosa che costruisce il senso del vivere associato, come nuova dimensione della città. Ma la lotta per il consumo di suolo e il diritto alla città non segue le direttrici dell’uguaglianza, ma quelle della disparità feroce e della conseguente “città duale” (Castells): la separazione feroce tra chi dispone di potere, ricchezza e comunicazione e chi è sempre più al margine fino all’esclusione. Michelucci teorizzò la città carcere e la città senza carcere. C’è il carcere e la città carcere, quella in cui l’urbano, i bisogni del Il giardino degli incontri L’originalità del progetto di Michelucci sta nel fatto che le strutture e gli elementi propri di un giardino sono qui adibiti in massima parte per gli incontri con i familiari. Le piante diventano dunque protagoniste a pieno titolo, non dell’ambiente naturale CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI 64 profondo, che Michelucci chiama la fiaba, cioè lo spazio autenticamente pubblico, è dimenticato e sostituito dal supermercato e dal recinto in cui isolarsi, che garantisce solitudine e sicurezza. La vita è altrove. Lo spazio autenticamente pubblico nasce da autentici processi partecipativi, da un atteggiamento nuovo verso la vita. In conclusione, riporto un pensiero di Michelucci che chiarisce il probabile autentico punto di vista necessario per guardare avanti: “Vorrei che anche le cose, lo spazio che ci circonda, fossero abitati da una sensazione di partecipazione perché allora realizzerei davvero quel sogno della nuova città che mi porto dietro da sempre e che non è altro luogo, ma lo stesso luogo, la stessa situazione che possa essere vissuta in un altro modo, in un’altra dimensione di relazioni e sensazioni. Solo allora possono nascere le piazze, le strade, le voci della nostra infanzia, non come qualcosa che ci sta dietro ma come qualcosa che ci accompagna per costruire il nuovo, senza paura di perderci”. Questa bella conclusione di Michelucci traggo dal frontespizio di un libro recente dal titolo Energie Ribelli in cui l’autrice Emma Viviani, sociologa e operatrice da decenni nel sociale della emarginazione, narra come ha dato vita, ormai da oltre un decennio al gruppo di Araba Fenice di Viareggio, che parte proprio dal pensiero di Giovanni Michelucci per sviluppare un laboratorio di ricerca e di incontri gestito da “energie ribelli” (gli esclusi e gli inclusi ma ribelli) in cui il principio dell’auto-progettazione consente di unire spazi e società, cioè di costruire un autentico spazio pubblico. Appunto gli esclusi della città presente che, secondo il pensiero di Michelucci, devono diventare i protagonisti del suo rinnovamento. Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci 65 Cassigoli R. 2004, Architettura a Firenze e dintorni, Cadmo, Fiesole. Mumford L. 1938, The Culture of Cities, Harcourt & Brace, New York. Michelucci G. 1971, Città e anticittà, Calderini, Bologna. Michelucci G. 1972, Brunelleschi Mago, Tellini, Pistoia. Michelucci G. 1980, La felicità dell’architetto, Tellini, Pistoia. Michelucci G. 1981, Intervista sulla nuova città, Laterza, Roma-Bari. Michelucci G. 1984, Ordine e disordine, “I Confini della città”, no. 11. Michelucci G. 1991, Michelucci per la città, Artificio, Firenze. Settis S. 2015, Il mondo salverà la bellezza?, Ponte alle Grazie, Firenze. Viviani E.A. 2015, Energie Ribelli, Edizioni ETS, Pisa. 

 

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