Lo spazio pubblico nel
pensiero e nell’opera
di Giovanni Michelucci
© The Author(s) 2016.
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with Creative Commons
license CC BY-SA 4.0
Firenze University Press.
DOI: 10.13128/contesti-20370
www.fupress.net/index.php/contesti/ Premessa
Spazio pubblico è una espressione che, oggi,
quasi d’istinto, opponiamo a spazio privato,
in un confronto che si è fatto conflitto sempre
più aspro: termini come privatizzazione,
consumo di suolo, mercificazione dello spazio,
speculazione edilizia, perdita della terra
coltivabile, inquinamento dell’ambiente,
cementificazione del territorio, si oppongono
a termini, come: spazio
pubblico, ambiente
sostenibile in rapporto ai
bisogni delle generazioni
future, conservazione della
biodiversità e della vita,
diritto alla uguaglianza,
conservazione dei beni comuni,
ecc. Spazio pubblico è dunque
una parola simbolo che evoca
un insieme di cose, è la sintesi
annunciata, a far prevalere il
bonum commune, la publica
utilitas. Il pubblico interesse:
che dovrebbe porsi come
“nettamente sovraordinato al
profitto privato” (Settis, 2015,
p. 48).
Come vedremo, l’antinomia
pubblico/privato non ricorre
Streets and public space
play a central role in the
writings and works of
Giovanni Michelucci.
The article analyses the
relationship between
space and society in the
vision of Michelucci, with
references to some key
moments in his life: the
relationship with Lawrence
Halprin, the reflections on
Brunelleschi, and more in
general on ancient cities,
the crisis of public space
in contemporary cities,
and the design of a specific
public space: the Garden of
Encounters (Giardino degli
Incontri), at the Sollicciano
prison in Florence.
Silvano D’Alto
Università di Pisa
silvanodalto@gmail.com
Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci
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nel linguaggio di Michelucci, o ricorre assai
poco, ma non certo per indifferenza al tema,
che anzi fu centrale e drammatico nel suo
linguaggio e nella sua opera. Nei colloqui che
ho avuto con lui era continua la sofferenza
palesata perché il committente (pubblico o
privato) si aprisse ad un pensiero più ampio,
sempre rivolto a superare ogni narcisismo e si
sentisse proiettato ai valori dell’”incontro” e del
“percorso” (parole da lui amate) come senso
della vita, perché la felicità dell’architetto era
anche contrastata dalla sofferenza di andare
nel cantiere e vedere che i tecnici avevano
sconvolto la sua opera. Ogni volta bisognava
ricominciare da capo. Ogni sua opera era una
felicità e un dramma profondo. Più o meno,
diceva questo: dovrei farmi ricoverare in una
clinica dopo ogni lavoro. Potremmo dire che
la sua relazione con gli uomini – committenti,
tecnici, istituzioni – che incontrava nel corso
dei suoi lavori era un continuo dover superare
l’invasivo mondo degli stereotipi che lo
avvolgevano come un soffio negativo, per
quello stupore che sempre nasceva davanti alle
sue proposte.
Michelucci amava ricondurre quel conflitto
pubblico/privato che lui conosceva ad un livello
più alto o più profondo dell’agire: al livello dello
spazio tout court. Spazio come dimensione
senza aggettivi: quella dimensione era la
città. Nella lezione di Brunelleschi scoperta da
Michelucci, “[lo spazio], anche se recintato e di
proprietà privata, ha l’impronta ‘pubblica’ non
intende costringersi in un perimetro, e forma
una cosa sola con lo spazio esterno urbano
e con la natura circostante. È uno spazio ‘di
tutti’. Anche se è stato cercato da un solo
uomo; si avverte che quell’uomo raccoglieva
Giovanni
Michelucci
CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI
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la ‘speranza dei cittadini’, come dice Vasari”.
Così lo spazio pubblico “sarà lo spazio dedicato
al libero intrecciarsi dei rapporti comunicativi
[…] e il ‘privato’ sarà non un luogo di proprietà
privata, ma il momento del raccoglimento
individuale (nella vita di gruppo)” (Michelucci,
1972, pp. 64-65). Insomma lo spazio deve
produrre la città. Città come divenire, come
meta continua, incessante evoluzione, non
come statica ripetizione di forme del passato.
Città variabile, perciò, come lui amava ripetere.
Se la città è variabile, tutto diviene non
assoluto, non statico ma dinamico, non chiuso
ma aperto e relazionale, mutevole di confini,
secondo le esigenze di quella realtà in continua
trasformazione che è la vita della città. Città
variabile, ma che non nega il rapporto con le
proprie radici. Senza radici un fiore muore o
dura poco, senza radici anche una città perde se
stessa.
Ma, esiste una “misura umana”, si possono
individuare dei codici privilegiati, un
metalinguaggio, su cui fondare la qualità degli
interventi, nel mentre la città varia? “A misura
d’uomo” fu termine molto di moda negli
anni Sessanta, quando il conflitto pubblico/
privato era forte e la richiesta di spazi pubblici
elevata, come simbolo di una battaglia contro lo
strapotere dell’espansione edilizia “a macchia
d’olio”, come allora si diceva. Michelucci sposta il
problema dal livello della forma alla produzione
di nuovi significati dell’agire. “Se le città hanno
perduto la ‘misura umana’ (ove questa sia mai
esistita) – osserva Michelucci – non si deve
all’espansione edilizia disordinata, caparbia,
alla ‘muraglia di cemento’, alla distruzione del
‘verde’. Questi sono effetti non cause. Le cause
vanno cercate nel fatto che la crescita della
città ha seguito il criterio di ampliamento dello
schema tradizionale di città murata, senza
che un’idea nuova, una nuova interpretazione
della vita e dello spazio vissuto, un’analisi
più approfondita degli uomini, precisasse i
rapporti fra il passato e il presente; ne scoprisse
gli eventuali punti di contatto, o di distacco,
separando ciò che è ancora vivo da quel che
è morto” (Michelucci, 1971). Puoi cercare lo
spazio pubblico – aggiungo io – dentro un
contesto che nega la possibilità di costruire la
città, come “punto di massima convergenza
delle energie e della cultura di una comunità”
(Mumford, 1938)? Questa l’aporia che
Michelucci incontrava. E che risolveva nei suoi
progetti inseguendo lo spazio tout court nel
quale faceva confluire il suo senso della natura
e della vita, perché come diceva di Brunelleschi
“non c’è in ultima analisi dualismo tra natura e
cultura. Anzi è realizzata una perfetta sintesi
dove gli attributi dell’una e dell’altra non sono
più riconoscibili: il punto più alto dei rapporti
tra i due momenti è quando essi scompaiono
dall’economia del discorso e si ritrovano
indistinti nella cosa, senza mediazione. Il
concetto rinascimentale di aprire una finestra
nella natura: Brunelleschi non ha di queste
preoccupazioni perché la natura l’ha messa
Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci
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dentro, è la sua persona. Questo non è che un
modo per ribadire che Brunelleschi ha portato il
sacro fuori dal recinto lo ha partecipato a tutti”
(Michelucci, 1972, p. 93). Qui già scorgiamo un
carattere, un dover essere dello spazio che
noi diciamo pubblico: lo spazio pubblico non
apre i suoi tentacoli dentro la selva del privato.
Non è una finestra sulla natura, che mitiga
l’alienazione del privato offrendo un altro
recinto: quello del pubblico. Ma è un annuncio:
portare fuori dal recinto tutte le forme di
sacro (gli stereotipi della cultura, intangibili,
che difendono interessi, ricchezza e potere e
ogni forma anche culturale che si recinge, si
ghettizza): ossia portare fuori dal recinto ciò che
esclude dalla vita intesa come relazione di tutti
gli uomini o meglio di tutti gli esseri viventi.
Ciò evidentemente non significa escludere le
diversità, ma farle vivere nella relazione che le
unisce: l’incontro e il percorso cari a Michelucci.
Michelucci e Halprin: antropologie
inconciliabili
Quando Lawrence Halprin venne a Firenze, nel
1986, per presentare le sue idee progettuali
dell’area di Novoli e in particolare il parco con
un grande specchio d’acqua al suo interno, un
prototipo di spazio pubblico immerso in un’idea
di natura, come Halprin scriveva a Michelucci
“un parco che dovrebbe offrire il tipo di rapporto
archetipo e ecologico con la natura di cui tutti
abbiamo bisogno! E voglio che sia adatto per
passeggiate e picnic, pieno di fiori, alberi, suoni
di uccelli e cascate, a contatto stretto con le
piante”. Michelucci risponde a Halprin con
grande gentilezza e determinazione, con un
esempio: “Piazza del Campo a Siena o piazza
Navona a Roma, pur non ospitando nessun
elemento di verde, hanno in sé il senso della
natura più di qualsiasi parco cittadino. Allora
cos’è la natura se non l’interiorizzazione di tutti
gli elementi dell’universo, materiali e culturali,
di memoria e di vita vissuta non solo dall’uomo,
ma da tutti gli esseri viventi?” (Cassigoli, 2004,
p. 34).
Lo spazio di Michelucci ha una dimensione
antropologica; il tempo e lo spazio hanno
spessori profondi di storia e di vita, vengono
da lontano, hanno radici. La natura non la
devi cercare fuori da te, sarebbe una forma
di alienazione, ma dentro di te, come una
dimensione del tuo essere. Lo spazio deve
essere la rivelazione a te di te stesso. Allora
lo spazio è “vero”, con un termine che piaceva
Lo spazio, anche se recintato e
di proprietà privata, ha l’impronta
‘pubblica’, non intende costringersi in
un perimetro, e forma una cosa sola con
lo spazio esterno urbano e con la natura
circostante. È uno spazio ‘di tutti’.
CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI
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a Michelucci. Lo spazio di Halprin è un’altra
antropologia, Halprin non ha la città della
storia dentro di sé, come l’aveva Michelucci;
ha dentro di sé gli elementi del paesaggio
(non la città) americano, forse le grandi
pianure, le montagne, le cascate e qualcosa
di ancora più profondo, un senso della libertà
che non è il senso della libertà della città
dell’Occidente. La libertà di Piazza del Campo
è quella dimensione della città che Michelucci
interpretava coma coralità, lo stare insieme per
vivere l’incontro e il percorso, cioè la vita, una
costruzione straordinariamente complessa che
ti impegna con te stesso, guardandoti dentro,
non fuggendo nella libertà di spazi sconfinati.
Piazza del Campo è spazio politico, la torre
del Mangia sta a testimoniare un dramma di
storia non alienabile né dal concetto di natura
né di cultura. Qualunque concezione di spazio
pubblico per Michelucci è un’idea di città, è
un’idea globale, ma non totale, non ideologica,
non ideale: ma città variabile, appunto, come
si è detto, non univocamente definita né
definitiva.
Per quanto di dimensioni limitate, uno spazio
per essere tale, spazio dell’uomo nella sua
identità di continua relazione, deve incorporare
il senso città, il frammento che parla già del
tutto: uno spazio urbano, spazio pubblico
per antonomasia, come pensarlo “Penso
a una prima cellula, una sorta di DNA della
terza città, non aggressiva, in cui elemento
etico e costruttivo coincidano, un organismo
limitatissimo, ma talmente vitale da suscitare
reazioni a catena nell’ambiente circostante,
quasi invisibile a occhio nudo, ma capace di
ridare alla città il senso del continuo, della
memoria di sé” (Michelucci, 1990, p. 16). Lo
spazio generatore di vita, questo è lo spazio per
Michelucci, spazio pubblico per antonomasia.
Lo spazio pubblico: spazio collettivo, di
movimento, di fiaba
“Ti sei mai chiesto – chiede Michelucci al suo
intervistatore – come mai la piazza del Campo di
Siena è sempre così piena di gente che si siede
sulla fontana o per terra, sulla pavimentazione
di mattoni, o passeggia vagabondando? Hai
notato che mentre nella struttura viaria della
città è impresso il senso del transito, essa – la
piazza – ha quello della sosta? Il senso, cioè,
di un luogo in cui si ritrovano sia i cittadini
sia chi viene da lontano per far mercato o per
conoscere la città e le infinite opere d’arte che
essa conserva? Una città una piazza in cui sei
il benvenuto, l’ospite atteso […] mi sembra di
aver capito il motivo. Essa, anzitutto, è stata
costruita conservando la struttura naturale da
cui è stata ricavata: il punto di confluenza delle
colline circostanti. Inoltre è opera non di singoli
artisti, ma dell’intera popolazione […] per cui
è nata un’opera d’arte collettiva, corale, nella
quale ogni uomo può riconoscersi, può trovare,
La natura non la devi
cercare fuori da te,
sarebbe una forma
di alienazione, ma
dentro di te, come una
dimensione del tuo
essere.
Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci
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cioè, quanto occorre per soddisfare le proprie
esigenze pratiche e culturali. Caratteristica
questa di tutte le città antiche” (Michelucci,
1980, p. 33). “La gente colta o incolta che sia […]
considera questo spazio come indispensabile
complemento della propria casa. Complemento
che ha, oltretutto, l’atmosfera della fiaba”. E
ancora, Michelucci continuando sulla fiaba,
che nasce dalla fantasia, nella quale egli crede
più che nell’immaginazione, “perché non
sconfina mai nell’arbitrio, ma si avvale appunto
dei mezzi usuali e li dosa così da ottenere
variazioni infinite […]. La fiaba per me non è
un’evasione, è un ritrovarsi spiritualmente in
tanti […]. La fiaba è l’elemento fondamentale
di identità di una comunità, il momento di
incontro di tante realtà, di tanti punti di vista,
di tante generazioni che in qualche modo
affiorano ancora nel nostro presente in una
forma spirituale, fantastica ma concreta di
cui abbiamo estremo bisogno proprio quando
stiamo per perdere – come ora – il senso del
vivere sociale, dello stare insieme. La stessa
forma che, in qualche modo, ritrovo, murata, in
Piazza del Campo” (Michelucci, 1980, pp. 31, 34).
Dunque lo spazio pubblico, o meglio lo spazio
tout court, per Michelucci è uno spazio in cui sei
l’ospite atteso, in cui ci si trova spiritualmente
in tanti, che contiene il senso della natura, è
un’opera d’arte collettiva, ha l’atmosfera di
una fiaba, ha il senso del movimento e della
sosta. In una parola, amata da Michelucci,
è un fatto corale. Questi sono alcuni codici
dello spazio pubblico, universali, direi, degli
spazi pubblici della città di tutti i tempi. È una
vera e propria antropologia urbana, almeno
per quanto concerne la città dell’Occidente,
ma forse anche più in là, perché le culture si
differenziano profondamente ma in tutte
ritrovi quelle dimensioni dell’umano che
appartengono all’homo sapiens, costruttore di
cultura. La vera bellezza di Piazza del Campo,
aggiunge Michelucci, “sta appunto nel fatto
che essa è vissuta come se la sua creazione non
avesse un termine, come se il vivere quotidiano
portasse ogni giorno una giustificazione a ciò
che un tempo storico indefinibile ha realizzato
e sta realizzando” (Michelucci, 1980, p. 35). Lo
spazio pubblico ‘riuscito’ (altro termine amato
da Michelucci), vive dunque il senso di una
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creazione continua. Ecco, uno spazio pubblico,
spazio dell’uomo, dovrebbe rivelare anche nel
frammento quell’idea di città che si insegue
come una narrazione in fieri. Anche nella sedia,
nel tavolo dovresti cogliere l’urbano, che è il
bisogno di relazione, di senso. La città viene
prima del frammento, ma il frammento già
deve contenere l’urbano. Devi pensare che
quel frammento sarà parte della città. La parte
che contiene il tutto. Potremmo dire: la parte
equipotente al tutto – qui il tutto è appunto
la città – per dirla chiosando un paradosso dei
sistemi infiniti di Cantor.
Questo richiamarsi dei frammenti in una
tensione che si svolge ininterrotta come un
continuo rinfacciarsi l’un l’altro è già un implicito
movimento nel cuore dell’urbano. Osserva
Michelucci commentando la spazialità di
Brunelleschi: “In Brunelleschi si dovrà ribadire
che la dimensione dello spazio è quella del
movimento: ecco allora dove lo spazio interno
si salda con quello esterno […] e nessun
cambiamento di scala o di misura si impone al
visitatore. Ancora Michelucci: “In Brunelleschi
il movimento è un fatto vitale di libertà anche
visiva, egli non ci fa muovere presentandoci una
serie di episodi che cambiano; siamo noi che
ci muoviamo scontando ogni qualsiasi forma,
per l’identificazione della quale è necessario
uno sforzo su se stessi. Altrimenti è difficile
fermarsi ed osservare; anzi l’osservazione delle
cose diventa l’impatto stupito con se stessi”
(Michelucci, 1972, p. 108).
Uno spazio pubblico chiede il movimento
perché il suo compito è suscitare relazioni,
ossia produrre un senso vitale della città. Ma il
movimento è una narrazione dell’intimo, una
rivelazione; perciò la conclusione, “l’impatto
stupito con se stessi”. Che cos’è dunque lo
spazio? “Le nostre menti sono per abitudine
fisse sulla materia tangibile, e noi parliamo solo
di ciò che arresta il nostro occhio; alla materia si
dà forma, lo spazio viene da sé. Lo spazio è un
‘niente’ – una pura negazione di ciò che è solido
– per questo non vi badiamo. Ma per quanto
possiamo non badarvi, lo spazio agisce su di noi
e può dominare il nostro spirito” (citazione da G.
Scott, in Michelucci, 1972, p. 109).
Quali i confini dello spazio pubblico
Quali sono i confini di uno spazio pubblico? Per
Michelucci uno spazio pubblico è un’apertura,
mai una chiusura: deve travalicare il limite degli
stereotipi urbani e porsi come senso che attiva
relazioni nuove, appunto un senso nuovo della
città. “Un confine – osserva Michelucci – ha
sempre il segno della consapevolezza di una
verità relativa, importante proprio perché
consapevole della sua relatività; una verità
che accumula dunque attenzioni per ciò che
è fuori della sua portata” (Michelucci, 1972, p.
26). Dunque, per noi che cerchiamo di capire, se
travalichi il confine, trovi nuovi mondi, ricominci
il percorso della vita. Brunelleschi travalicava il
confine: era la condizione per produrre la città.
“In San Lorenzo – osserva – qualunque maestro
Lo spazio pubblico ‘riuscito’ vive il senso di una creEcco, uno spazio pubblico, spazio dell’uomo, dovrebframmento quell’idea di città che si insegue come u
Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci
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del Rinascimento avrebbe organizzato, nel coro,
un gioco prospettico: Brunelleschi, inventore
della prospettiva ha tagliato netto l’orizzonte.
Ma mentalmente, fatalmente si corre oltre
di esso e si è spinti di nuovo verso la città, che
ormai domina la memoria e la percezione.
Una linea paradossalmente riconduce ad una
fondamentale circolarità. Il muro è una specie
di cortina provvisoria, fatta declinare perché
bisognava pur concludere, con semplicità senza
artificio” (Michelucci, 1972, p. 93).
Se il confine è consapevolezza del luogo,
l’andare oltre è quel compito costantemente
creativo che appartiene alla città. “Lo spazio
urbano – dice Michelucci – è una creazione
perenne che precede la forma e non è separabile
dalla vita, dal tempo, dalle ipotesi sul futuro”
(Michelucci, 1971, p. 71). Di qui nascono
implicazioni anche riguardo al problema della
forma dello spazio pubblico: “la ricerca della
forma non può essere mai tuttavia l’elemento
determinante di una inversione di tendenza,
specie quando ciò che prevale non è tanto
il delinearsi di nuove direzioni, ma il timore
per l’attuale tipo di sviluppo. Una forma non
si crea mai esaltando solo il concetto del
limite, ponendo cioè remore a ciò che sembra
irrefrenabile” (Michelucci, 1984, p. 1). Ma la
forma nasce dal bisogno, e il bisogno si precisa
nei processi di partecipazione: muovendo da
diritti, libertà, uguaglianza, non dai processi
di esclusione della società globalizzata. Nasce
dalla “nave dei folli”, dalla città dei luoghi e
degli spazi e non dalla città dei flussi, forte di
potere ricchezza e informazione. “La forma – ci
dice Michelucci – è la parola per cui gli uomini
si intendono tacendo, essa non ha bisogno di
essere spiegata, ma avvolge, penetra l’uomo
e gli parla in un linguaggio universale, un
linguaggio certo non alieno da quello della
sofferenza” (Michelucci, 1991, p. 25). Ecco, nel
bisogno che la forma cerca di risolvere è chiarita
la presenza della sofferenza, componente non
alienabile dalla vita.
È lo spazio la guida per dare senso alla forma,
dando risposta alle più svariate condizioni
dell’uomo. “In questo senso uno spazio parla
con un linguaggio sempre nuovo. Perché il
modificarsi è motivato dal desiderio di sentire le
più svariate esigenze e non dalla gratuità di una
forma, la quale non farebbe altro che rendere
l’edificio ancora più inaccessibile. Ed è questa la
sorte di molta nostra architettura” (Michelucci,
1991, p. 24).
Ciò che è “pubblico” deve farsi “spazio”
Il problema per Michelucci, si sarà compreso,
non è che lo spazio diventi pubblico (con
certificato istituzionale), ma che il pubblico
diventi spazio. E allora tutto cambia. È un
continuo fiorire di idee, di pensieri che si
allacciano a catena. Un groviglio pieno di vita.
“Guai se credessimo di avere scoperto una
volta per tutte la chiave di interpretazione
della città; essa è infatti una fonte continua di
problemi che non solo l’uomo non ha risolto,
azione continua.
bbe rivelare anche nel
una narrazione in fieri.
CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI
60
ma non si è neppure ancora posti […]. L’uomo
ha infatti bisogno di convivere con il diverso da
sé, per questo la città dell’uomo deve essere
la città di tutti gli esseri viventi, la città della
natura in tutti i suoi aspetti” (Michelucci, 1991,
p. 17). Lo spazio pubblico in Michelucci non si
definisce con uno schema, con un insieme di
procedure più o meno ripetibili, ma sarà diverso
nelle diverse circostanze che lo pongono in
essere. Dalla natura si può prendere esempio:
“La natura sembra suggerirci una concezione
opposta dello spazio, come un intrecciarsi
continuo di organismi e situazioni. La natura
restituisce lo spazio, quando lo utilizza,
arricchendolo. La natura varia in continuazione
anche quando si ripete. Esprime se stessa
attraverso la molteplicità degli esseri e delle
manifestazioni. Dà più di quello che le chiedi
e risponde quasi sempre in modo indiretto e
imprevisto (Michelucci, 1991, p. 14). E la natura
è infinita. Un infinito da decodificare, da
riscoprire all’interno di quel dramma di ordinedisordine da cui è forgiata anche la città della
storia. “La città non è mai nata da una mente
ordinatrice o da un consenso generale”. Perciò
si tratta di guardare allo spazio, alla città,
“non come ad una serie di funzioni che legano
il cittadino, con i suoi bisogni individuali, alle
istituzioni, ma come una serie di situazioni che,
comunicando tra di loro, siano in grado di offrire
soluzioni nuove a problemi apparentemente
irrisolvibili” (Michelucci, 1991, p. 14). Vivacità
della vita – aggiungiamo noi – dentro all’urbano:
“quelle strade, quelle piazze, quegli edifici che
più amiamo si sono lentamente modellati
attraverso la compresenza, l’incontro, lo scontro
casuale di situazioni e interessi assai diversi tra
loro” (Michelucci, 1991, p. 24). In conclusione,
il pubblico, lo spazio pubblico, che si fa spazio
tout court è il luogo fertile di embrioni di vita e di
città che crescono all’unisono, empaticamente.
Costruire la relazione per fondare il linguaggio
dello spazio
Riflettendo sul disagio della follia, Michelucci
coglie “il dramma terribile dell’isolamento, del
sentirsi contemporaneamente murati vivi e
minacciati dall’esterno” (Michelucci, 1991, p.
24). Come vincere l’isolamento? Come costruire
lo spazio che lo sconfigga e lo spazio pubblico
in particolare? Cercando la relazione. “Si può
anche partire all’inizio da una relazione tra due
individui. L’importante è che nella tensione
continua che tra essi si crea, e che li coinvolge,
si sedimenti qualcosa verso l’esterno, una
situazione psicologica i cui riferimenti allo spazio
fisico dovrebbero essere analizzati in tutte le
possibili implicazioni. In questo caso tra i due
e chi li osserva si può già creare un linguaggio
nuovo, uno spazio esterno strutturato
dalla verità del loro rapporto, piuttosto che
dai segni convenzionali della realtà che li
circonda” (Michelucci, 1991, p. 24). Scrive ancora
Michelucci: “Si comincia ad enucleare così
uno spazio capace di estendersi e di arricchirsi
attraverso il numero delle persone che entrano
Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci
61
in gioco e che partecipano consapevolmente a
questo itinerario di ricostruzione dello spazio
vissuto” (Michelucci, 1991, p. 24). Ma è proprio
la follia che, per Michelucci, può aggiungere
qualcosa alla città, al suo inesauribile bisogno
di dare risposta creativa anche al disagio
psichico “che può diventare protagonista di
questa ricostruzione di spazi per la città”. Non
un servizio, ma una serie di situazioni con cui
il servizio si arricchisce e arricchisce la città,
non il luogo predisposto per la follia, se mai un
luogo della follia”, dove cioè il disagio psichico
diventa protagonista del cambiamento. E una
conclusione che, allargando lo sguardo, è un
vero e proprio paradigma per lo spazio pubblico:
“Mi rendo conto di tutte le difficoltà tecniche e
operative che tali ipotesi comportano. E tuttavia
non saprei vedere altra strada se non quella
di indicare in coloro che sono considerati gli
esclusi della città presente i protagonisti del suo
rinnovamento” (Michelucci, 1991, p. 24).
Un prototipo di spazio pubblico: il “Giardino
degli incontri”
Perciò prototipo di spazio pubblico, per
ammissione dello stesso Michelucci, è “Il
giardino degli incontri”, nel carcere di Sollicciano.
È un giardino particolare, perché gli alberi del
giardino sono una fantastica costruzione di
cemento e formano la struttura portante della
copertura. Alla base le sedute per l’incontro
con i familiari. È l’albero simbolico che diventa
fiaba, la fiaba nel carcere. L’originalità del
progetto – chiarisce Michelucci – sta nel
fatto che le strutture e gli elementi propri
di un giardino sono qui adibiti in massima
parte per gli incontri con i familiari. Le piante
diventano dunque protagoniste a pieno titolo,
non dell’ambiente naturale, il che avrebbe
assunto inevitabilmente l’aspetto di una
squallida aiuola dentro il carcere, ma di quello
designato all’incontro delle persone più care.
[...] Posso solo dire che esso rappresenta in
pieno il concetto di spazio pubblico. Esso non
vale per le particolarità formali e tecniche, che
pur vi sono, quanto per il significato che ad
esso attribuiscono coloro che l’hanno voluto e
progettato: una situazione che ornai raramente
si verifica nella progettazione della città”
(Michelucci, 1991, p. 23). Centrale è dunque, in
questa riflessione di Michelucci, il problema
del senso dell’azione. Senza il senso non si può
costruire la razionalità dell’azione. Qui, si tratta
del senso urbano, cioè di un modo di essere
nella città e della città, un percepirsi ed essere
percepiti nella città di tutti. Ossia il sentirsi
ciascuno parte, e dunque attore, di quel tutto
che è l’urbano nel suo continuo farsi e disfarsi,
nella sua fascinazione di ordine e disordine.
Essenza dell’urbano è la continua reciproca
specularità dell’azione, una riverberazione
empatica di sentimenti ed emozioni a carico
di quel fenomeno, recentemente scoperto,
dei cosiddetti ‘neuroni specchio’, che grande
interesse hanno per svelare i segreti della
vivacità della vita urbana. Uno spazio pubblico
CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI
62
Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci
63
dovrebbe incorporare per eccellenza questa
coralità del senso urbano, essere la parte che
rivela il tutto, il frammento che rivela la città
nuova.
La sacralità che la città ha smarrito
Per Michelucci lo spazio, si è detto, è
pubblico per antonomasia, “è la possibilità
di ricominciare, il senso del non finito, la
persuasione che ogni situazione compromessa
può avere esiti positivi, la capacità insita
nell’uomo di mettere in comunicazione cioè
fatti, cose, persone che
apparentemente non sono
fatte per stare insieme.
Così avvincendo con legami
sempre più profondi e
impensati gli esseri della
natura animati e inanimati,
nasce il senso del sacro, il
miracolo della creazione”
(Michelucci, 1991, p. 26). Sacro,
che Michelucci non amava
se produce separazione. “O
tutto è sacro o tutto è profano” commentava in
una conversazione con me. “Io voglio una città
dove ci sia posto per la favola, per il mito, per
tutto ciò che è sacro alla comunità”. Parlando
della chiesa, così si chiarì completamente:
“Non voglio, non mi interessa più, costruire
un ‘edificio monumento’ dedicato al culto,
staccato dalla città. Quindi, chiunque dovesse
commissionarmi una chiesa sa già che mi
impegnerei a costruire un pezzo di città aperto
a tutti. Ma anche chi dovesse commissionarmi
un edificio pubblico laico, tenga presente che
mi impegnerei ad esprimervi quel senso di
sacralità che la città ha smarrito”. Michelucci
trasmette un senso profondo della vita,
della partecipazione, dell’uguaglianza, della
cordialità tra gli uomini.
Lo spazio pubblico, oggi
Quale la situazione in cui opera oggi lo spazio
pubblico nella cosiddetta città diffusa, nello
sprawl urbanistico? La lezione di Giovanni
Michelucci è che per costruire la nuova città,
cioè per dare senso a quella agglomerazione
di realtà individualiste e divise, veri recinti
dell’essere che domina il territorio, è che anche
nel frammento prodotto dalla società nelle sue
forme pubbliche e private dovrebbe nascere lo
spirito del luogo urbano, cioè il DNA della città.
Cioè il privato dovrebbe rinunciare a qualcosa (il
recinto in cui chiudersi) e il pubblico pretendere
qualcosa che costruisce il senso del vivere
associato, come nuova dimensione della città.
Ma la lotta per il consumo di suolo e il diritto alla
città non segue le direttrici dell’uguaglianza, ma
quelle della disparità feroce e della conseguente
“città duale” (Castells): la separazione
feroce tra chi dispone di potere, ricchezza e
comunicazione e chi è sempre più al margine
fino all’esclusione. Michelucci teorizzò la città
carcere e la città senza carcere. C’è il carcere e la
città carcere, quella in cui l’urbano, i bisogni del
Il giardino
degli incontri
L’originalità del
progetto di Michelucci
sta nel fatto che le
strutture e gli elementi
propri di un giardino
sono qui adibiti in
massima parte per gli
incontri con i familiari.
Le piante diventano
dunque protagoniste
a pieno titolo, non
dell’ambiente naturale
CONTESTI CITTÀ TERRITORI PROGETTI
64
profondo, che Michelucci chiama la fiaba, cioè lo
spazio autenticamente pubblico, è dimenticato
e sostituito dal supermercato e dal recinto in cui
isolarsi, che garantisce solitudine e sicurezza.
La vita è altrove. Lo spazio autenticamente
pubblico nasce da autentici processi
partecipativi, da un atteggiamento nuovo verso
la vita.
In conclusione, riporto un pensiero di Michelucci
che chiarisce il probabile autentico punto di
vista necessario per guardare avanti: “Vorrei che
anche le cose, lo spazio che ci circonda, fossero
abitati da una sensazione di partecipazione
perché allora realizzerei davvero quel sogno
della nuova città che mi porto dietro da sempre
e che non è altro luogo, ma lo stesso luogo, la
stessa situazione che possa essere vissuta in un
altro modo, in un’altra dimensione di relazioni
e sensazioni. Solo allora possono nascere le
piazze, le strade, le voci della nostra infanzia,
non come qualcosa che ci sta dietro ma come
qualcosa che ci accompagna per costruire il
nuovo, senza paura di perderci”.
Questa bella conclusione di Michelucci traggo
dal frontespizio di un libro recente dal titolo
Energie Ribelli in cui l’autrice Emma Viviani,
sociologa e operatrice da decenni nel sociale
della emarginazione, narra come ha dato vita,
ormai da oltre un decennio al gruppo di Araba
Fenice di Viareggio, che parte proprio dal
pensiero di Giovanni Michelucci per sviluppare
un laboratorio di ricerca e di incontri gestito
da “energie ribelli” (gli esclusi e gli inclusi ma
ribelli) in cui il principio dell’auto-progettazione
consente di unire spazi e società, cioè di
costruire un autentico spazio pubblico. Appunto
gli esclusi della città presente che, secondo
il pensiero di Michelucci, devono diventare i
protagonisti del suo rinnovamento.
Lo spazio pubblico nel pensiero e nell’opera di Giovanni Michelucci
65
Cassigoli R. 2004, Architettura a Firenze e dintorni,
Cadmo, Fiesole.
Mumford L. 1938, The Culture of Cities, Harcourt &
Brace, New York.
Michelucci G. 1971, Città e anticittà, Calderini, Bologna.
Michelucci G. 1972, Brunelleschi Mago, Tellini, Pistoia.
Michelucci G. 1980, La felicità dell’architetto, Tellini,
Pistoia.
Michelucci G. 1981, Intervista sulla nuova città,
Laterza, Roma-Bari.
Michelucci G. 1984, Ordine e disordine, “I Confini della
città”, no. 11.
Michelucci G. 1991, Michelucci per la città, Artificio,
Firenze.
Settis S. 2015, Il mondo salverà la bellezza?, Ponte alle
Grazie, Firenze.
Viviani E.A. 2015, Energie Ribelli, Edizioni ETS, Pisa.
Roberto Mosi si interessa di poesia e fotografia. Per la poesia ha pubblicato Sinfonia per San Salvi (Il Foglio 2020), Orfeo in Fonte Santa (Ladolfi 2019), Il profumo dell’iris (Gazebo 2018), Navicello Etrusco (Il Foglio 2018), Eratoterapia (Ladolfi 2017), Poesie 2009-2016 (Ladolfi 2016). L’autore ha realizzato mostre di fotografia presso caffè letterari, biblioteche, sale di esposizione. Cura i Blog: www.robertomosi.it e www.poesia3002.blogspot.it .
giovedì 2 marzo 2023
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