Roberto
Mosi: “Progetto Quartieri di Firenze – Fabrizio Borghini”
Novoli
nel cuore
Sono
nato durante la guerra in via Baracca al n. 68 e qui ho vissuto fino al 1970
quando mi sono sposato e sono andato ad abitare in un palazzo appena costruito
in via Stradella, il breve tratto di strada a fianco dell’ex Villa Demidoff,
presso la chiesa di S. Maria in Polverosa. Il mio appartamento si trovava
all’undicesimo piano: un osservatorio straordinario sul quartiere e sulle
vertiginose trasformazioni avvenute negli anni Cinquanta e Sessanta.
Il
quartiere non era più quello della mia infanzia quando via di Novoli era un
sentiero di campagna costeggiato da alte siepi, soggetto spesso ad allagarsi e
diventare un fiumicello melmoso. Il paesaggio di campagna è rimasto nella mia
memoria di ragazzo, campi, filari di viti, frutteti, piccoli borghi e case
coloniche; fra questi spiccavano costruzioni importanti e antiche come la Villa
di Torre degli Agli e la Villa Buonarroti ma anche l’allora moderno
stabilimento della Fiat con l’altissima ciminiera.
La
casa di via Baracca era un edifico di tre piani dove abitavano otto famiglie,
davanti c’era un grande cortile chiuso da un cancello e là si svolgeva gran
parte della nostra vita, a metà fra quella di campagna e quella di città.
Avevano una grande importanza i rapporti di vicinato e si viveva molto all’aperto,
nella buona stagione ci si incontrava nella corte il pomeriggio e la sera per
lavorare insieme, per scambiare due chiacchiere mentre i ragazzi giocavano: per
me era una meraviglia ascoltare i discorsi dei grandi che ricordavano episodi
della guerra e della lotta partigiana o parlavano dei problemi del lavoro,
degli scioperi, degli scontri con la polizia e si soffermavano anche sugli
ultimi pettegolezzi del quartiere, storie di innamoramenti, di fughe d’amore,
di corna. Nel cortile c’erano le botteghe di due artigiani, un famoso
restauratore di mobili antichi e un fabbricante di scope di saggina; piccoli
orti e recinti con galline e conigli. Via Baracca era anche allora una grande
via di scorrimento che collegava Ponte alle Mosse con Peretola, c’erano tanti
piccoli negozi, il pizzicagnolo Romeo, la merceria della Gina, la trattoria del
Papucci, l’ortolano Fiorenzo, il macellaio e passavano il pescivendolo con i
pesci d’Arno nella zucca, il contadino con il barroccio carico di frutta e
verdura, l’arrotino, lo sprangaio che riparava gli ombrelli e i catini rotti,
il friggitore con i bomboloni ancora caldi e tutti urlavano i loro richiami. A
breve distanza un contadino con la stalla, dove si poteva comprare il latte
appena munto, e dove, d’estate, si andava a prendere l’acqua fresca, del pozzo.
I
punti di riferimento del quartiere erano la chiesa di Santa Maria a Novoli e il
Circolo Rigacci in via Baracca. Il priore era un prete piccino piccino con una
gobba e quindi, naturalmente, veniva chiamato “Il gobbo”. Tutti noi ragazzi eravamo
passati per le sue mani durante la preparazione alla prima comunione: aveva un
lunghissimo bastone che dalla sua poltrona faceva roteare sulle nostre teste e,
a volte, calava su di noi. Memorabili le processioni per alcune festività e per
i funerali. Il traffico caotico di via Baracca si bloccava e lentamente si
snodava la processione al passo della banda e, di sera, alla luce delle torce e
delle candele.
Il
Circolo Rigacci era un forte centro di aggregazione sociale e politica, con
sezioni di partiti di sinistra. Si tenevano quindi incontri politici, in alcuni
periodi molto animati e ogni sabato sera si ballava o nel giardino o nella sala
al primo piano con la partecipazione sia di adulti che di ragazzi, la musica
allora si sentiva per tutto il quartiere.
Le
scuole elementari erano lontane, a San Iacopino e noi bambini ci spostavamo in
gruppo, perché i genitori non ci potevano accompagnare, e percorrevamo ogni
giorno una distanza di circa sei chilometri fra andata e ritorno, un’impresa
notevole soprattutto per i più piccoli. Più comodo il viaggio verso le scuole
medie, anche se nel centro di Firenze, perché si andava con il tram numero 29
che passava da via Baracca.
E’
stato per me importante vivere e crescere in questo quartiere che era campagna
e città allo stesso tempo, che mi ha dato il senso della comunità e della
solidarietà e la possibilità di godere di una piena libertà a contatto con la
natura. Legati a questo quartiere sono
alcuni episodi che ricordo anche se ero piccolissimo, come il rombo
terrificante delle superfortezze volanti che passavano sulle nostre teste per
andare a bombardare le Officine Ferroviarie di Porta al Prato e la fuga verso
il rifugio scavato in fondo al cortile, insieme alla nonna, quando suonava
l’allarme aereo. Una volta un soldato tedesco, alla ricerca di uomini nascosti,
irruppe nella nostra casa con il mitra spianato e mi hanno raccontato che si avventò su un vassoio con della frutta
coloratissima in ceramica: prese una pesca, l’addentò e la scagliò via con
un’imprecazione.
Con
la Liberazione arrivarono gli americani: una unità dell’esercito disboscò
completamente, con l’impiego di enormi bulldozer, il Parco di Villa Demidoff:
le piante abbattute furono una ricchezza per gli abitanti del quartiere che ebbero
gratis la legna e la zona accessibile a tutti fu un meraviglioso terreno di
gioco e di avventura per i ragazzi, che erano liberi di scorrazzare fra le
grotte e gli anfratti dei giardini.
Nella
corte imperava il gioco del calcio, ricordo lunghissime, accanite partite che
duravano ore e ore; ritornano alla memoria anche le spedizioni che facevamo
insieme, in varie occasioni, accompagnati da adulti, per partecipare alle feste
che si tenevano alle Cascine o per fare, d’estate, il bagno fra i ciottoli
dell’Arno in secca o per andare, la domenica, al cinema, “Azzurri” o “Aldebaran”:
durante la proiezione di film lunghissimi come “Via con il vento” ci portavamo un’ampia scorta di panini e
bibite. Per molte generazioni del quartiere la gita all’alba sulla cima di
Monte Morello ha rappresentato come un rito, un momento di passaggio alla
maggiore età e anch’io, adolescente, con un gruppo di amici salimmo sul monte,
a piedi, passando da Castello e da Quarto, per assistere allo spettacolo unico,
esaltante dell’alba, con il sole che infiammava, a poco a poco, la valle
dell’Arno fino alle lontane colline dell’Arno.
In
alcune occasioni, via Baracca e via di Novoli si vestivano di colori e di grida,
per alcune manifestazioni sportive molto partecipate: ricordo il passaggio del
Giro d’Italia e del Giro della Toscana; la partenza, in mezzo ad un’incredibile
folla, di un giro della Toscana in automobile, vicino al ponte sul Mugnone, fra le macchine da corsa c’era quella del
mitico Biondetti. Negli anni Cinqanta si tenne una spettacolare corsa di
motociclette sul tratto fra via Forlanini e la prima parte di via di Novoli,
con la pista delimitata dalle balle di fieno, attorniata, pericolosamente, da
molti spettatori. Accadde che alcuni motociclisti ad una curva, ruzzolarono per
terra e le moto andarono a sbattere contro le transenne, fortunatamente, senza
danni per le persone.
Nel
tempo ho visto attenuarsi i caratteri della campagna, gli stretti rapporti di
vicinato, in sintonia con i cambiamenti della città e del nostro Paese. Un
ruolo importante ha avuto la nascita della televisione, con gli abitanti della
corte e del quartiere, che si ritiravano davanti al nuovo, mirabolante strumento,
nei salotti delle loro case, per chi poteva, o ai bar della zona. Un colpo decisivo
alla vita comunitaria fu dato dal successo, nella seconda metà degli anni Cinquanta,
della trasmissione “Lascia o raddoppia”: le strade erano deserte e i cinema “Azzurri” e “Aldebaran”
sospendevano addirittura la normale programmazione per proiettare lo spettacolo
di Mike Bongiorno.
L’alluvione
del 1966 sfiorò in parte la zona di via Baracca dove ancora abitavo, l’acqua
nella serata del 4 novembre arrivò a trenta centimetri d’altezza e tutti i
condomini della corte si impegnarono in uno sforzo comune per costruire un piccolo
muro all’altezza del cancello ma lo sforzo risultò inutile. Nella vicina via
Carissimi, una strada che congiunge via Baracca a via di Novoli, c’era la sede regionale
della polizia stradale e una piccola folla di radunò fin dalla mattina davanti
agli uffici per ascoltare le notizie sui drammatici avvenimenti di Firenze
ormai isolata dal mondo. Gli abitanti della mia zona furono, in un certo senso,
fortunati ma intorno, come sappiamo, il
disastro, a cominciare da piazza Puccini, dal Barco, dal vicino Parco delle
Cascine. Passammo i due mesi successivi al lume delle candele e impegnati a
fare lunghe code per rifornirsi di acqua potabile.
Con
l’arrivo degli anni Settanta il volto del quartiere di Novoli appare ormai
stravolto, colpito dalla speculazione edilizia, da una politica urbanistica
male accorta. In una poesia dedicata al mio quartiere (“Le rose di Novoli”
nella silloge “Il profumo dell’iris”) esprimo a chiare lettere questo disagio: Passo
oggi lungo i muri/ tra la folla dei motori/ per il quartiere di Novoli/ stanza
di sbratto della città. Mi preme ricordare che l’architetto Giovanni
Michelucci in un colloquio che ebbi con lui, mi parlò di alcune idee
progettuali che aveva coltivato con dei colleghi che ponevano al centro l’idea
di Novoli come porta di accesso, in grado di presentare un volto moderno,
equilibrato, di accoglienza per i viaggiatori che arrivavano dal nord; ma
questa idea si scontrò con coloro che, all’epoca, detenevano il potere. Mi
sembra che oggi si tenda, con le scelte urbanistiche degli ultimi tempi, a
recuperare questo disegno progettuale, rendendo la zona più “a misura d’uomo”.
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