L’invasione degli storni
Commedia
popolare
in tre atti
Roberto
Mosi e Enrico Guerrini
Link al testo
Roberto Mosi
Grafica di Enrico Guerrini
L’invasione degli storni
trilogia
Edizione LaRecherche
Edizione Gazebo Libri
Roberto Mosi
L’invasione degli storni
(Trilogia)
A Gabriella,
il respiro, il volo di un giorno
.Giuseppe Panella
LA RIVOLTA DEGLI UCCELLI MIGRATORI
«Nell’aria viola del tramonto egli guarda affiorare
da una parte del cielo un pulviscolo minutissimo, una nuvola d’ali che volano.
S’accorge che sono migliaia e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa. Quella
che fin qui gli era sembrata un’immensità tranquilla e vuota si rivela tutta
percorsa da presenze rapidissime e leggere. Rassicurante visione, il passaggio
degli uccelli migratori, associato nella nostra memoria ancestrale all’armonico
succedersi delle stagioni; invece il signor Palomar sente come un senso di
apprensione. Sarà perché questo affollarsi del cielo ci ricorda che
l’equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso d’insicurezza
proietta dovunque minacce di catastrofe?»
E’ da questo
spunto narrativo di Italo Calvino contenuto in Palomar del 1983[1] che Mosi
fa partire il suo nuovo libro di poesie. Nella parte iniziale dell’Invasione
degli storni dove alla Valle dell’Inferno, luogo poetico e
soprattutto campaniano per eccellenza, si aggiungono la Via del Purgatorio e il Nuovo Cinema Paradiso. Tre momenti in
cui tra uomo e natura si crea un conflitto, si approfondisce e poi, forse
utopisticamente e un po’ idilliacamente,
si risolve in una nuova alleanza. Nell’Inferno della radura del Mugello gli
animali dimostrano tutta la loro perplessità circa il destino dell’uomo così
come Gabriella, musa ispiratrice e novella Beatrice, indica la via:
«La cornacchia sfoglia / le pagine, scuote la testa / mi spinge
fuori dalla valle. / La cascata sbarra il sentiero / l’acqua scende fragorosa.
/ Salto tra le onde, sui massi / in cerca della via d’uscita. / Scopro la
grotta oltre il salto / dell’acqua, Gabriella mi porge / la mano: “Dopo la valle
/ scoprirai il tempo dell’Attesa”»[2].
Nella Valle
dell’Inferno il solo soccorso di Dino Campana non basta: la Follia è già dentro
l’uomo e lo rinserra nella sua morsa. Nel luogo in cui la Natura dovrebbe
trionfare e decomporre la Storia ormai decotta dalle sue stesse contraddizioni
di sempre, emergono i frammenti e gli spezzoni dell’ uomo contemporaneo a
contaminarla. Al posto dell’armonia del passato e della ricomposizione delle
contraddizioni del presente, predominano le scaglie e i frantumi della civilizzazione
presente che distrugge e inquina, invece che purificare separando ciò che dura
da ciò che deve essere distrutto, ciò che è fatto per servire da quello che è
puro prodotto del profitto. L’Inferno è dunque questo, l’Indistinto, il luogo
nel quale tutto è mescolato e il puro è tratto nel gorgo dell’impuro:
«Congestione di rifiuti urbani / nelle
discariche a cielo aperto, / i topi si tengono per la coda / fanno festa
gabbiani in volo / gatti impigriti dal grasso. / Ogni rifiuto giunge alla meta
/ differenziato per contenitore, / la Coscienza divide i rifiuti. / Umido
organico: scarti / di cucina, erbe del prato. / Carta e cartone: giornali, /
libri, fumetti, quaderni. / Plastica: bottiglie d’acqua, / involucri, piatti,
sacchetti / Vetro: vasetti, brocche, / specchi, lampade, bicchieri. / Mondo virtuale: baci, amore, / passione,
sentimento, emozione»[3].
Il tema della
discarica come non luogo della postmodernità ricompare anche per attrazione
nell’ultima parte del libro (nella sezione Periferie
che già apparteneva ai Nonluoghi
precedenti[4]) ed è un
tema ormai topico nella disincantata metamorfosi del contemporaneo che allinea
ironia e pathos nella scrittura
matura di Mosi. Ma qui ha funzione eminentemente simbolica: i rifiuti sono ciò
che appesantisce l’uomo e gli impedisce di essere ciò che vuole essere davvero,
legato, com’è, alla “virtualità” dell’esistenza affettiva ed emozionale.
L’Inferno è dunque il non luogo del consumo e della minaccia, della disarmonia
tra la realtà sognata e il progetto globale che la nega in nome di una smodata
e forsennata corsa al profitto: dunque, la negazione di una vita armoniosa.
autentica.
Il Purgatorio è
una Sala d’Attesa dove si scontano i peccati sotto forma di malattia. Il luogo
della sofferenza, della ricerca di una guarigione che si fa aspettare
infliggendo sofferenza e disagio a chi ne è la vittima spesso incolpevole,
spesso inconsapevole, sempre timorosa e schiacciata dal male:
«Nella Sala d’Attesa l’odore / dell’alcol, il battito del tamburo / la
pelle secca della lingua. / Folla nella Sala d’Attesa / la porta aperta sul
Reparto, / il gioco degli scacchi, / per pedine la vita e la morte. / Passi
sulla sabbia tra miraggi / evanescenti, il Tumore / tesse il tempo dell’Attesa.
/ Il maglio colpisce la facciata / abbatte la parete di rosso / un boato invade
l’ospedale. / Tra le gru e le escavatrici / sopravvive solo il Reparto»[5].
Ed è nel Reparto
che si consuma l’Attesa fatta di squallore, sofferenza, assenza; tra le sue
mura fatte di gesso e di lacrime si cerca se stessi e ci si accinge a rinnovare
la propria dimensione più profonda per essere di nuovo capaci di vivere e di
giungere a quel Paradiso fatto di illusioni e di felicità che è la Fabbrica dei
Sogni. Nel Reparto incombe il Ragno che tesse la tela del destino, che
scandisce il passare del tempo, che annota e trattiene i passi di chi vorrebbe
fuggirne ma non può. Chi ci riesce, infine, si slancia alla ricerca di qualcosa
che prima, nel Reparto, gli era stato negato e che solo ora prende consistenza
– ed è “la materia di cui sono fatti i sogni”:
« ”Suona la mia
canzone, / Sam. Come a quel tempo”.
/ Implora dallo schermo, / lo sguardo di Ingrid,
vago il suo sorriso. / “Canta: As Time Goes By”. / Ripeto le sue
parole, / seguo Gabriella nel film. /
Sono alle spalle di Bogart / sulla
pista dell’aeroporto, / sento le parole dell’addio. // La mia mano non stringe
/ Gabriella, la poltrona è vuota»[6].
La vita è fatta di
illusioni e di sogni proiettati su un telone che si illumina della gioia
immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della Luna. Il Paradiso è
perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova a raccontarci come è
andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare dell’immondizia allo
schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta qui, resa immobile
e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di volare. Quando ci riesce,
allora, si “illumina d’immenso”.
I. Valle dell’Inferno
La cornacchia conta gli arrivi
li moltiplica per i numeri primi.
Ad ogni arrivo
batte le ali
scrive il nome
sulla lavagna.
Gracida contenta,
mostra
le gore d’acqua
putrida
abitate dal
gracidio delle rane.
L’occhio del
campanile
di Casetta di
Tiara si affaccia
sopra i miasmi
della valle.
La macchina
cattura immagini
a misura
dell’occhio digitale.
Il treno
attraversa la galleria
nel pulsare delle
vene d’acqua,
tremano le radici
del bosco.
Il cervo scappa
spaventato,
sul fianco la
ferita di uno sparo.
Il Gigante
si scuote dal sonno
si alza vacillando
in piedi
le mani alla
fronte.
Un lampo illumina
la Cupola,
il boato squarcia
la notte.
Il Palazzo è
avvolto dal fumo,
giungono nubi di
voci:
“La bomba!”, “Gli
Uffizi!”
Il Gigante maledice,
gli occhi caverne
di fuoco.
La bocca schiuma
di bava.
Trema la terra del
prato,
si apre il
labirinto, cado
come corpo morto cade.
L’acqua canta tra il muschio
dei massi, si
disperde in correnti,
si compone in
pozze
sommerse dai
cespugli.
Gabriella, coronata di luce [7]
nella radura
mostra la strada
che dalla valle
sale
per i fianchi
della montagna.
Sopra la cima dei
castagni
la vertigine delle
rocce,
colonne aeree di
una cattedrale
aperta sul
candeggiare del cielo.
“Mi perdo in
questi boschi
- le parole di
Dino - ritrovo
il centro di me
stesso tra i fumi
della Follia.
Casetta di Tiara
oltre i fianchi
della valle,
approdo per
l’incendio d’amore.”
Le rocce parlano dell’essere,
le acque giocano
con l’apparire.
Le piene
dell’inverno trascinano
pupazzi bianchi caduti
dal cielo.
Sulle camicie
ricamate, Libertà
Uguaglianza
Fraternità
si disfano,
approdano sui massi.
Immagini di pietra
alle pareti,
ideologie
sedimentate:
ora il volo libero
del gabbiano
ora colonne fino
alle guglie
della cattedrale
attraversate
da oriente a
occidente
da armenti
ricamati di nuvole,
guidati dal fantasma della Ragione.
La Ragione sposò il Progresso
si unì alla
Giustizia Sociale,
bambini rossi sono
nati
sono cresciuti
bambini rossi
dispersi dalle
piene del fiume.
E’ strana la sera
di Mosca
suona il carillon
della Piazza,
“Mezzanotte a
Mosca”, brilla
la stella rossa
sul Cremlino,
vibrano bandiere
rosse, rosse
al vento sulle
mura, sventolano
all’aeroporto di Mosca.
S’illumina la
stella rossa sopra
la Casa del Popolo
all’Impruneta,
resiste al maglio
della Storia.
Al capezzale della Storia
si spengono serate
d’inverno
i vetri, una piaga rossa languente,
brillano ai raggi
del tramonto.
Il profilo aguzzo
s’illumina
traspare il cielo
degli occhi
specchio di altre
stagioni.
La corrente ha
portato via la salma
ha disciolto il
sapore della Storia
nel labirinto dei Nonluoghi.
Orchidee di benvenuto
al banco dei
Nonluoghi,
per il viaggio tra
i detriti
dell’identità,
triturati
dalla comunicazione.
Orchidee di
benvenuto
al banco dei
Nonluoghi,
si muove la folla
allo stesso
passo, lo sguardo
in avanti,
oltre chi cammina
zoppicando.
Improvvisi gigli
di plastica,
la Bellezza spunta
tra i rifiuti.
Congestione di rifiuti urbani
nelle discariche a
cielo aperto,
i topi si tengono
per la coda
fanno festa
gabbiani in volo
gatti impigriti
dal grasso.
Ogni rifiuto
giunge alla meta
differenziato per
contenitore,
la Coscienza
divide i rifiuti.
Umido organico:
scarti
di cucina, erbe
del prato.
Carta e cartone:
giornali,
libri, fumetti,
quaderni.
Plastica:
bottiglie d’acqua,
involucri, piatti,
sacchetti.
Vetro: vasetti,
brocche,
specchi, lampade,
bicchieri .
Mondo virtuale:
baci, amore,
passione, sentimento, emozione.
La lucciola abbandona
lo sciame per
baciare il led
pulsante di luce
rossa,
ronza intorno al blackberry.
Nella gora putrida
d’acqua
frammenti
dell’uomo digitale
bit byte zero uno zero uno
individui scissi
in frammenti,
tele comando nella
testa:
consenso ordine
sicurezza.
Mostri agitano le code,
un mulinello
d’acqua
si muove al
centro.
Le sostanze precipitano
nel vuoto
dell’occhio,
si aprono bocche
affamate d’oppio.
Maschere del
potere
lottano sulla
sabbia della riva
le facce rosse di fuoco.
La cornacchia sul ramo
attende il prossimo vincitore.
Nella prima pagina il vincitore,
la foto dello
spaventapasseri.
In ordine,
cristalli di zolfo
fotografie di
guerra
ampolle putride
d’acqua.
Per ogni foglio
l’eco di un canto:
“Alla mattina, appena alzata”,
“Debout, les damnès de la terre!
Debout, les forçats de la
faim!”
Il canto svanisce
nel silenzio di
pagine bianche.
La cornacchia
sfoglia
le pagine, scuote
la testa
mi spinge fuori
dalla valle.
La cascata sbarra
il sentiero
l’acqua scende
fragorosa.
Salto tra le onde,
sui massi
in cerca della via
d’uscita.
Scopro la grotta
oltre il salto
dell’acqua, Gabriella mi porge
la mano: “Dopo la
valle
scoprirai il tempo dell’Attesa.”
II. Via del Purgatorio
Nella Sala d’Attesa l’odore
dell’alcol, il
battito del tamburo,
la pelle secca
della lingua.
Folla nella Sala
d’Attesa
la porta aperta
del Reparto,
il gioco degli
scacchi,
per pedine la vita
e la morte.
Passi sulla sabbia
tra miraggi
evanescenti, il
Tumore
tesse il tempo
dell’Attesa.
Il maglio colpisce
la facciata
abbatte la parete
di rosso
un boato invade
l’ospedale.
Tra le gru e le
escavatrici
sopravvive solo il Reparto.
Lo squallore del Reparto
annunciato dai
pini sfiancati
dalla grigia siepe
assetata.
Il mio nome suona
nella Sala
tra vassoi dei
pasti consumati,
facce spente di
cartapesta.
Sulle pareti carte
disegnate
dal gemito d’acqua
dei tubi
dal gorgoglio delle
docce.
Ho ricostruito la
foce di fiumi,
un tedoforo in
corsa
le forme di donne discinte.
La poltrona mi accoglie
vicino alla
finestra. Sulle colline
le forme chiare
degli olivi.
La mano cerca la
vena,
l’ago, le gocce si
rincorrono,
il braccio si
gonfia
suona, gracida il
campanello.
Sette flaconi,
sette liquidi
si mescolano al
sangue,
caldo, fiamme di
fuoco.
Le colline sono
illuminate
dallo sguardo
indifferente del sole.
E avanza la chemioterapia.
Per la chemioterapia
una mano è inchiodata
dall’ago.
L’altra sfoglia
pratiche d’ufficio.
Il vicino indossa
vesti diverse
dell’amico e del
rivale.
Nella sala facce
maschili,
lontana la
leggerezza delle donne.
“E’ solo un
effetto placebo.
Solo il chirurgo
spunta
gli artigli del
male.”
La mattina al
lavoro,
il pomeriggio nel Reparto.
Il Reparto oncologico
è abitato al
pomeriggio
da stanche
infermiere,
da macchine per le
pulizie,
Il medico alla
fine del turno
mostra ad occhi
ansiosi
le carte della
partita.
Gli ultimi lasciano
il Reparto,
l’edificio
galleggia sugli aghi
dei pini che
sfiorano il cielo
scuro, in attesa della notte.
Il ragno si affaccia dal soffitto,
di notte tesse la
tela.
Scende veloce per
il filo,
osserva i pazienti
distesi,
gli aghi infilati
nelle vene.
Mi guarda con
simpatia.
Risale svelto,
scompare
oltre il tubo del
riscaldamento.
L’aspetto,
l’Attesa è lunga.
Penso ai tesori
del ripostiglio
resti di mosche,
di moscerini.
“Cosa si ricorderà
di me,
del mio passaggio nella stanza?”
Chiudo gli occhi sulla poltrona.
Nella stanza suona
il telefono,
corro a perdifiato
per strade
per scale e
corridoi infiniti.
La camera è
nell’ombra
il letto al
centro, il lenzuolo
copre lo sguardo
fisso, di gelo.
La mia mano si
allunga
chiudo gli occhi
di Bruno.
La sedia a dondolo
si alza
si abbassa, cigola di dolore.
Guardo disteso, oltre la finestra.
Lo sguardo si
abbassa
La collina si è
imbiancata di neve
un vecchio ha
voltato la terra.
Passano i mesi,
semina l’orto
intreccia le canne
per i pomodori.
Alle cinque il bus
della scuola
attraversa le
strade della collina.
Un cane abbaia,
forsennato.
Giorni di pioggia,
giorni di sole
intrecciano racconti,
depressione ed euforia.
Stabat
mater dolorosa
juxta crucem lacrymosa,
dum pendebat Filius.
Parole disegnate
nell’albo
si intrecciano
tra le nubi dei
pensieri,
senso di colpa, di
sconfitta.
Domande sui fogli:
“Perché?”
Improvvisa
Gabriella, coronata di luce,
sfoglia le pagine,
il sapore
di un bacio, di una carezza.
L’ultima flebo, svanisce
il sapore della
chemioterapia.
La sala d’aspetto
è invasa
dai nuovi
arrivati.
Lascio l’ospedale,
corro
nella strada in
discesa, l’aria
accarezza la pelle
arrossata.
Gabriella mi guida,
pedalo leggero
nella città,
la nuova Sala d’Attesa.
III. Nuovo Cinema Paradiso
Nel silenzio svaniscono le luci,
mormorano le
foglie dei platani,
si accende
l’occhio della cabina.
Gabriella, coronata di luce,
mi tiene stretta
la mano.
Il fascio di luce
taglia la sala
imprigionato da
nubi di fumo.
Vivono in bianco e
nero
i racconti del mondo,
ombre proiettate
dalla cabina,
immersa nella nube
notturna
del Cinema
Paradiso.
Alle mie spalle il
respiro
di Alfredo e Salvatore.
Ombre di scarpe appese
un violino
adagiato sopra
la mensola, bottiglie
fiori secchi,
legni, assi
farfalle attirate
dalla luce.
Ogni cosa è stata
rimossa.
Giuseppe Tornatore
mi guida per le
stanze
annerite di
polvere e fumo
della Fattoria di
Celle.
Si alzano dalla
polvere
forme
sopravvissute,
le forme fisiche
dell’ombra.
Gli sguardi
sprofondano
nell’anima di luce delle cose.
Applausi volano in festa,
il Cinema
sprofonda nel silenzio.
La musica nasce da
lontane
sorgenti, danza
nelle trame delle
luci,
si apre in onde
tra il suono
di archi ed
ottoni.
Sono attore e
comparsa,
principe e servo,
leggero
nel girotondo
incessante
della musica di Otto e mezzo.
Gli altri sono
parte di me,
nel cerchio della vita.
Leggeri i passi salgono
il Monte tra il
verde degli ultimi
castagni, le voci
dei compagni
galleggiano
nell’aria di temporale.
Case mute parlano
di racconti
lontani, il paese
si scioglie
in sentieri
solitari.
Il gruppo è disteso
in una rete
di parole, per il
sentiero
che sale a La
Verna.
Robin Hood guida all’incontro
col Sacro Monte,
nello zaino
il suono dei Canti Orfici.
Fotografo suono e silenzio,
cerco forme nella
discarica
della memoria, nei
pensieri
tra la melma del
giorno.
Formo un impasto
d’argilla
da penetrare a
piene mani,
un rullo di
fotogrammi
da proiettare in
sequenza.
Appare il senso,
la forma,
il fuoco abbraccia
la creta,
l’opera è pronta
per brillare
alla polvere del
giorno:
Michelangelo, Blow-Up.
Tratti scolpiscono il foglio,
forme prendono
vita.
Piazza dei
Miracoli nell’ora
di mezzogiorno,
invasa di sole.
Enrico mi parla
disegnando la parola,
la mano e la
matita una sola cosa.
Mi spinge a
rincorrere la palla
lanciata da Umberto D. per gioco,
a cercare nella
folla dei segni
le vie dell’utopia.
Le vie della città nel sole.
Evapora ogni
angolo d’ombra
i ventilatori
ronzano
intorno ad opachi
pensieri.
Ragazzi disegnano
spirali
sulle pareti del
sottopasso,
lo sguardo di Marylin
il corpo di Jane Russel.
Un sassofono
incanta
il cappello di
monete.
E’ la tregua della
sera, chitarre
si accordano con
brezze leggere.
Apre Nuovo
Cinema Paradiso,
ombre innamorate
vagano per
l’acquario della città.
“Suona
la mia canzone,
Sam. Come a quel tempo.”
Implora dallo
schermo
lo sguardo
innamorato
di Ingrid, vago il suo sorriso.
“Canta: As time goes by.”
Ripeto le sue
parole,
seguo Gabriella nel film.
Sono alle spalle
di Bogart
sulla pista
dell’aeroporto,
sento le parole dell’addio.
La mia mano non
stringe
Gabriella, la poltrona è vuota.
Nell’ora
viola del tramonto
il vuoto, poi un
pulviscolo d'ali
invade la cupola
del cielo,
la nube s'addensa,
sfiora la casa,
Hitchcock è parte del moto,
si alza nella nuvola
percorsa da
inquiete presenze.
Ora la nuvola
evapora
ogni storno si
allontana
raggiunge un punto
lontano.
Ora dai quattro
angoli del cielo
emerge un vortice
gremito
di battere d'ali,
una sfera roteante
sopra il ronzio
della cinepresa.
L'ultimo chiarore
scompare,
l'ombra sale dalle
strade
sommerge le
cupole,
le tegole dei
tetti,
inghiotte il volo
delle piume.
Nei nidi appesi
alle gronde
riposano i racconti del mondo,
la testa sotto le
ali.
Dialogo tra l’autore e la Cornacchia della Valle dell’Inferno.
Autore – Sei il primo personaggio che appare
sulla scena della Trilogia,
indaffarato e un po’ agitato.
Cornacchia – Mi piace la
parte. Sono un animale solitario, si dice intelligente, linguacciuto. Sono
anche un po’ mago, mi piace la cabala e gioco volentieri con i numeri.
A. – Sembra che ti diverta.
C. – Ma certo! Non sai, nel tuo caso, la
faccia buffa che avevi quando sei arrivato, dopo che sei caduto nel labirinto
che congiunge la città alla Valle.
A. – Sembri innamorata di questa Valle,
nascosta fra i monti dell’Appennino, incavata come dal colpo di lancia di un
gigante.
C. – Sì, mi piace stare qui. La mia voce è
potente, cra, cra, cra. Rimbomba
contro le pareti, l’eco rimbalza in tutte le direzioni, sembra il gracchiare di
un branco di cornacchie, una cornacchiaia,
si dice: non mi sento più sola. Il fondo della Valle - negli anfratti e nelle
gore del torrente - è pieno di cianfrusaglie, dei resti scenici lasciati dalla
Storia. E poi ci sono le discariche di rifiuti pieni di bocconcini. Devo dire,
però . . .
A. – Che cosa?
C. – Negli ultimi anni c’è stato un
impazzimento generale. E' stata scavata a fianco della Valle un’enorme galleria
per i treni veloci. Si è violentata la terra e ora molte sorgenti sono
all’asciutto, si fanno battute di caccia per uccidere gli animali del bosco. E’
giunto poi fino alla Valle l’eco dell’attentato ai Georgofili, a Firenze. Mi
presi un bello spavento, le penne sul dorso sono diventate grigie. Il Gigante dell’Appennino, nel Parco di
Pratolino, si svegliò dal sonno di secoli. C’è un’esplosione di follia generale
che non ha niente a che vedere con la follia innocente di quel poeta famoso di Marradi.
A. – L’hai conosciuto?
C. – L’ho visto diverse volte, vestito di
pelli di pecora. L’ultima volta passò in compagnia di una signora, sul sentiero
in alto che porta a Casetta di Tiara.
A. – Perché mi hai lasciato uscire dalla Valle dell’Inferno?
C. – Ho conosciuto la tua storia e ho
capito che il tuo viaggio doveva continuare. Gabriella, la tua musa ispiratrice, mi aveva raccontato tutto.
A. – Conosci le altre tappe?
C. – Sì. Gli storni me ne hanno parlato.
A. – E cosa ti hanno raccontato?
C. – Gli storni che abitano sulle colline
di Careggi, dalle parti di Via del
Purgatorio, ti hanno visto dietro i vetri della finestra dell’ospedale nei
giorni della malattia. Ti hanno visto precipitare sul fondo e poi rinascere a
una vita nuova.
A. – I racconti volano! Ti lascio ora ai
tuoi calcoli, la fila dei nuovi arrivati diventa sempre più lunga.
C. – Sì, mi sono lasciata prendere dalle chiacchiere. Un'ultima cosa. Gli storni che abitano le colline di Bellosguardo, vicino all’arena estiva “Chiardiluna”, ti hanno visto la sera arrivare al cinema e immergerti nel sogno di Nuovo Cinema Paradiso e di tanti altri film. Devi tornare a trovarmi con un sacco di racconti, di storie di film, di versi. Il tuo è un viaggio alla ricerca della speranza e la speranza è contagiosa.
Roberto
Mosi vive a Firenze. E’ stato dirigente per la Cultura della Regione Toscana. Ha pubblicato nel 2008 con GazeboLibri, il
libro di poesie Florentia, al quale è
stato assegnato il primo premio del concorso nazionale “Villa Bernocchi” 2009
(Verbania). Ha pubblicato inoltre le
raccolte: Luoghi del mito (Falloppio,
Como, 2010), Aquiloni (Il Foglio,
Piombino 2010), Nonluoghi (Comune di
Firenze, 2009), Itinera (Masso delle
Fate, Lastra a Signa 2007), Parole e
paesaggi (Libroitaliano World, Ragusa 2006). Le raccolte Aquiloni, Nonluoghi e Itinera
sono pubblicate anche nella forma di eBook, da www.laRecherche.it (Roma). Le
recensioni e le segnalazioni sulle opere dell’autore comparse sulle riviste, sono raccolte nel
portale www.literary.it. Cura il
Blog per la poesia www.poesia3000.splinder.com.
Ha curato
alcune mostre dedicate ad approfondire le inter-relazioni fra testo poetico,
immagini fotografiche, da lui realizzate, e disegni. I libri oggetto di questa
ricerca sono Itinera, Nonluoghi e Luoghi
del mito. Le mostre si sono tenute a Firenze presso la Biblioteca del
Palagio di Parte Guelfa (2009 e 2011), il CaffèLetterario Cuculia (2009 e 2010), il CaffèLetterario La Citè (2010 e 2011) e, a Sesto Fiorentino, presso il Palazzo
Pretorio (2011).
Mosi è fra
i redattori della rivista fiorentina “Testimonianze”
fondata da Ernesto Balducci. Alcuni degli articoli pubblicati: “Il paesaggio fra poesia e memoria”
(2002), “Dino Campana, un viaggio
chiamato amore” (2004), “Gli
angeli sulla Cupola di Berlino” (2004), “Mario Luzi, la tensione verso la semplicità” (2005), “Da quando Modugno cantò volare” (2007),
“Aeroplani di carta” (2008), “Quando mio padre combatteva in Etiopia” (2011).
Fra le
opere di saggista: “Cibernetica e
città del futuro”, in “Città e anticittà” a cura di Giovanni Michelucci,
1971; Sulle tracce di Napoleone ed
Elisa: percorsi e luoghi napoleonici nella costa toscana (Fazzi Editore,
2005). L’autore è impegnato, come volontario, nell’educazione degli adulti, in
particolare con il progetto Auser La città che apprende.
Riferimenti:
r.mosi@tin.it; www.robertomosi.it
Indice
Prefazione di Giuseppe Panella
La rivolta degli uccelli migratori
L’invasione degli storni
(Trilogia – “Racconti in volo)
Valle dell’Inferno
Via del Purgatorio
Nuovo Cinema Paradiso
Postfazione
Dialogo tra l’autore e la
Cornacchia
Bio-bibliografia
(RETRO DI COPERTINA)
Nell’ora viola del tramonto
il vuoto, poi un pulviscolo d'ali
invade la cupola del cielo,
la nube s'addensa, sfiora la casa,
Hitchcock è parte del moto,
si alza nella nuvola
percorsa da inquiete presenze.
Ora la nuvola evapora
ogni storno si allontana
raggiunge un punto lontano.
Ora dai quattro angoli del cielo
emerge un vortice gremito
di battere d'ali, una sfera roteante
sopra il ronzio della cinepresa.
L'ultimo chiarore scompare,
l'ombra sale dalle strade
sommerge le cupole,
le tegole dei tetti,
inghiotte il volo delle piume.
Nei nidi appesi alle gronde
riposano i racconti
del mondo,
la testa sotto le ali.
[1]
I. CALVINO, Palomar, con una presentazione
dell’autore, Milano, Mondadori, 19942, p. 64.
[2]
R. MOSI, L’invasione degli storni, ((( p. 11))).
[3]
R. MOSI, L’invasione degli storni,
(((p. 9))).
[4]
“Discariche di squallore / sotto i ponti dell’autostrada / vicini alla
città, fulgore d’immagini, / di colori spruzzati sui piloni. // Attraversoo
correndo la sera, / verso la campagna. / Graffiti mi accolgono in galleria, /
parlano ogni volta / del fantastico
creatore. // Ieri da una collina in rosa / mi ha salutato la pecora Dolly, / di
fronte il gregge assorto / delle pecore normali,
/ al centro l’albero della vita / per frutti televisori / missili e computer“
(R. MOSI, L’invasione degli storni,
pp. 55-56).
[5]
R. MOSI, L’invasione degli storni,
(((p. 13))).
[6]
R. MOSI, L’invasione degli storni,
(((p. 20))).
[7]
Il nome Gabriella richiama quello della sorella dell’autore,
morta dopo un giorno di vita. Nel ricordo è coronata di luce
come
Beatrice, guida per Dante nella Divina Commedia.
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“L’invasione degli storni” di R. Mosi, Gazebo Libri, Firenze 2012
Commento di Carmelo Mezzasalma
Riguardo
a “L’invasione degli storni” dico subito – a parte la suggestiva e acuta
prefazione di Giuseppe Panella – che mi sono davvero meravigliato di come, in
una trama di pagine non troppo estesa – la sua poesia riesce a raccogliere
tanta suggestione di visionarietà e di realismo. Un viaggio interiore e allo
stesso tempo visivo, davvero dantesco, per disegnare un messaggio di monito e
di rivolta contro le derive della nostra contemporaneità scissa e frantumata
perché organa ormai di una perduta e salutare utopia. Nessun moralismo, tuttavia, ma una dolente
presa di coscienza di quelle “vite di scarto” di cui parla Bauman che si raccoglie
e s’interroga ancora – e non potrebbe essere altrimenti – tra i luoghi di un
vivere umano e i non-luoghi dell’alienazione di cui sono metafora le discariche
non solo della città, ma della storia. Certo, Panella ha detto questo in
maniera esemplare: “dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della
coscienza”. Ma vorrei aggiungere, quasi per sottolineare la mia ammirazione,
che ciò avviene in virtù di un linguaggio poetico fortemente concentrato,
lucido e fermo, eppure capace di abbandonarsi ancora alle modulazioni del
sogno, del volo, vorrei dire di un lirismo che mostra intatta la sua tensione
proprio quando appare più evidente la sua sconfitta nel marasma che ci
attanaglia di menzogne collettive in cui troppi si rifugiano per non vedere e
sentire soprattutto se stessi. Ecco perché a me “L’invasione degli storni”
appare come un poemetto a quadri, ma dilatato e aperto, mai rinunciatario o
disperato e proprio perché capace di alzarsi in
volo attraverso le immagini-guida, come l’indimenticabile Nuovo Cinema
Paradiso, o la figura di Gabriella, che svegliano l’incanto della vita e
nonostante le ombre della malattia e la tenebra di quest’ora della storia. Sì,
la poesia è questo “racconto” dolce e inesauribile, per toccare quel mistero
della speranza che ci abita e ci restituisce la nostra vera umanità fatta di
umiliazioni e sconfitte, ma anche di rinascite e sia pure con “la testa sotto
le ali”.
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