La recensione di Michela Landi (Università di Firenze)
in: "Rivista di Letterature Moderne e Comparate e Storia delle arti", Fas. 2, aprile-giugno 2025, pp. 222-226
Roberto
Mosi, Tre principesse francesi a Firenze. Sylvia Boucot e le sorelle di
Napoleone, Elisa Baciocchi, Paolina Borghese e Carolina Murat, Firenze,
Angelo Pontecorboli Editore, 2024, pp.172.
In occasione dei duecentocinquant’anni dalla nascita di Napoleone
Bonaparte (1769), l’Università di Firenze ha organizzato nel 2019, in
collaborazione con la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, un convegno dal
titolo di sapore manzoniano: “Fu vera gloria? Napoleone tra sacralità e parodia”.
Il convegno ambiva a ricostruire,
ripercorrendone la ricezione in Francia, la discussa figura del condottiero in
particolar modo laddove fioriscono da lunga tradizione le parodie dei potenti e,
a maggior ragione, di personalità non autoctone. Di origini italiane (Sarzana e
San Miniato), ma còrso di nascita in una fase storica in cui la Corsica, terra
povera e sediziosa, difficilmente governabile dalla Repubblica di Genova, fu
ceduta alla Francia in cambio dell’aiuto francese durante le rivolte corse per l’indipendenza
capeggiate da Pasquale Paoli, il Bonaparte seppe approfittare dello strascico
della Rivoluzione per auto-proclamarsi, come è noto, Imperatore dei Francesi con
il nome di Napoleone I. L’auto-incoronazione a Notre-Dame del 2 dicembre 1804
inaugura così un decennio unico nella storia di Francia e d’Europa che,
conclusosi nel 1814, con la breve appendice che va dal 20 marzo al 22 giugno 1815, lascia in
Europa un segno indelebile, instaurandovi quella che chiameremmo con buona
approssimazione la politica capitalistico-borghese, nata dal compromesso tra il
familismo e il liberalismo economico. Incoronato Re d’Italia nel 1805 a Milano,
Napoleone sa che la gloria si costruisce anche con quel potere simbolico e
suggestivo che è l’arte; a Firenze individua,
ricorda Mosi, le opere artistiche atte a glorificare il regno di Francia (p. 22). Nasce così, in
Italia, il mito revanscista della Gioconda leonardesca sottratta da Napoleone
durante queste sue razzie mentre, come è noto, essa fu venduta a Francesco I di
Francia dallo stesso Leonardo a caro prezzo.
Il mito di Napoleone, in Francia come in Italia, è un
mito romantico; e, in Francia in come in
Italia il Romanticismo è, come Napoleone stesso, un fenomeno non autoctono: ha,
per questo, una durata storica limitata sebbene i suoi strascichi giungano,
attraverso la tradizione scolastica e la cultura di massa, fino a noi. Se il
mito romantico di Napoleone ha alimentato in Francia tanta grande letteratura –
da Chateaubriand a Lamartine; da Stendhal e Balzac, a Hugo – tutto questo
repertorio è segnato, appunto, dall’ambivalenza. L’oriundo che acclimata
in Francia, interpretando in forma autonoma ed eccentrica una inveterata
tradizione politica organica alla nazione; che esibisce un virilismo marziale
talvolta anche brutale in un paese dove la nobiltà era cortigiana da secoli; che procede al ripristino delle leggi marziali
e all’abolizione di molte conquiste etico-sociali della Rivoluzione, tra cui la
scuola laica e repubblicana, la schiavitù e la libertà di stampa, è e resta un
personaggio scomodo e ingombrante. Di eccentrico,
vi è anche il fatto che la Francia non avendo in stima, per consuetudine
morale, alcun pathos, né bellico né
sentimentale, né alcun eccesso autocelebrativo, Napoleone finì per incarnare, tra i più sciovinisti,
l’ennesima immagine folklorica dell’Italia. Resta il fatto che Napoleone servì
da modello ai novelli borghesi di Francia, diseredati dalla Rivoluzione o di
nuova ascensione sociale, ai cosiddetti
“parvenus” che popoleranno i romanzi realisti dell’Ottocento.
Come ricorda l’Autore nella sua postfazione, questo libro
costituisce il coronamento di un percorso iniziato nel 2013 con il saggio Elisa
Baciocchi e il fratello Napoleone. Storie francesi da Piombino a Parigi. Già
allora il riflettore era posto sulla granduchessa di Toscana, la quale resta la
protagonista indiscussa anche di questo lavoro. Il particolare di copertina del
volume, tratto dall’Incoronazione di Napoleone (Le sacre de
l’Empereur) di Jacques-Louis David (1805-1807) esposto al Louvre e in copia
a Versailles, rende conto in modo esemplare dell’intenzione dell’autore:
attraverso lo spostamento del riflettore su un dettaglio del dipinto
ritraente le tre sorelle, si mostra come
esse possano godere di luce mitica propria, acquisendo in un contesto storico e
familiare certo non loro favorevole, doti politiche, umane ed imprenditoriali
del tutto personali.
La cornice narrativa è rappresentata dalla figura di
Sylvia Boucot de Hautmesnil, la cui prerogativa è quella di aver svolto il
ruolo di dama di compagnia delle tre sorelle nei tre momenti successivi della
loro vita fiorentina. La funzione della Boucot è duplice: testimone oculare
nella storia reale, essa funge da catalizzatrice della narrazione. Essa
costituisce insomma il prisma attraverso il quale le tre figure rivelano al
narratore la loro dimensione intima, domestica, mentre al narratore è dato in
prima persona il compito di osservarle nella vita sociale. Attraverso la figura
di garanzia che è Sylvia Boucot e del suo resoconto che va sotto il titolo di Diario Fiorentino, il narratore
spalanca i polverosi armadi-archivi della storia tentando di classificare la mole invadente e caotica dei
ricordi pubblici e privati. Emissaria della voce di Sylvia Boucot è la voce
seconda del Narratore, la quale, in apparenza tributaria di tutte le voci di
cui Sylvia è testimone aurale, tira le fila del passato e del presente
legandoli fra loro inscindibilmente, così come lega fra loro i luoghi
attraversati a fasi alterne dalle tre sorelle (Austria, Francia, Italia,
Corsica, Inghilterra), ponendo appunto il riflettore sui loro soggiorni
fiorentini.
Elisa giunge in Toscana come principessa sovrana otto
mesi dopo l’Incoronazione di Napoleone, avvenuta il 2 dicembre 1804: entra a
Lucca, trionfalmente, il 14 luglio 1805.
Quando è acclamata Granduchessa di Toscana, nel 1809, la corte si sposta a
Palazzo Pitti; Paganini suona per lei. Ma ecco che deve lasciare rapidamente Firenze
nel 1814 con la caduta di Napoleone e, dopo un breve soggiorno in Moldavia, si
trasferisce a Trieste, dove muore per un’infezione contratta durante un bagno
termale.
Paolina, principessa Borghese ritratta da Canova, artista
da lei protetto, come Venere Vincitrice, approda a Firenze nell’ultima fase
della sua vita per ricongiungersi con il marito che risiedeva presso il Palazzo
Borghese-Salviati in Via Ghibellina. Si trasferisce poi a Villa Strozzi, a
Montughi, oggi nota come Villa Fabbricotti, dove muore. Mosi si arresta sul
drammatico effetto di una donna guastata dalla malattia che si rivede all’apice
della sua bellezza, resa immortale dallo scultore.
Moglie di Gioacchino Murat, re di Napoli, e reggente per
conto del marito, Carolina Murat chiama
a sé Sylvia Boucot prima in Austria, poi a Trieste, e Napoli, infine a Firenze.
Anche per lei, come per Paolina, Firenze è l’ultima dimora. Risiederà nel
palazzo Bonaparte, che accoglie oggi l’Hotel Excelsior di piazza Ognissanti, di
fronte a quel palazzo che sarebbe divenuto la sede del più antico Istituto di
cultura al mondo: l’Istituto Francese di Firenze. Scomparsa nel 1839, Carolina è
sepolta a pochi metri dalla sua residenza, nella cappella Murat della chiesa di
Ognissanti, dove riposano Sandro Botticelli e Amerigo Vespucci.
Questa, in sintesi, la trama delle tre vite, che si snodano
come in una sequenza filmica sotto gli occhi della longeva Sylvia Boucot e, per
procura, sotto quelli del narratore. Questi propone, delle tre trame
succedentisi storicamente, un intreccio suggestivo che segue il filo
immaginario dei ricordi della dama di compagnia. Grazie alla abile tessitura narrativa
di Mosi, infatti, diversi tempi e
diversi luoghi vengono a convergere in modo centripeto intorno alla città di
Firenze, punto focale della rimemorazione. La cartografia urbana del capoluogo
toscano, i palazzi nobiliari abitati dalle tre donne e la vita che ruota
intorno ad esse ci permette di ripercorrere la città con un doppio sguardo, al
contempo diacronico e sincronico, storico-archivistico, e topologico. Una rimemorazione che ha spesso un carattere onirico, quello di una “città
sognata”, nella misura in cui certi “temi”,
certi “eventi” o certi “luoghi” si ripropongono periodicamente alla
memoria sotto più angolazioni e punti di vista: veri e propri “motivi
musicali”, leitmotive alla Wagner che ritroviamo, variati, in fasi
diverse della narrazione. Forse il modello Proust, l’amato autore di Mosi,
affiora attraverso l’effetto sgranato
del racconto, imprimendo alle cose la forma del ricordo che gli fu congeniale.
E, proprio come in Proust, il fasto immaginifico dello
sguardo d’infanzia si profila attraverso la descrizione di figure principesche
magnificenti, belle di fama e di
sventura, che avvivano il nostro atavico desiderio di immedesimazione: Sylvia
impersona allora, catalizzandola intorno
a sé, tutta la nostra segreta ammirazione fanciullesca. Il realismo del dato
storico viene, infatti, continuamente passato al setaccio del suo ricordo, che
polverizza la continuità del dettato e la fa turbinare intorno ad una
topografia magica: la Firenze dei primi anni dell’Ottocento, punto di fuga,
appunto, su cui convergono tutte le linee narrative. Ed è Firenze che elegge
come protagonista del volume ancora una volta Elisa Baciocchi, Granduchessa di
Toscana dal 1809 al 1814. A lei infatti si deve in larga parte la Firenze
attuale, urbanisticamente improntata al modello parigino in fase anch’esso di
accelerata modernizzazione sotto il segno di Napoleone I. La Baciocchi acclimata
in Toscana i modi di vita della corte francese e, come a compensare l’assenza
di un terreno di coltura e una certa italica refrattarietà al codice
comportamentale, potenzia l’etichetta, che si avvale di ben
duecentocinquantatré articoli. Mentre la Toscana, divenuta parte integrante
dell’Impero napoleonico, si divide in tre dipartimenti – Arno, Ombrone (Siena),
Mediterraneo (Livorno) – e la legislazione leopoldina è sostituita dalla
legislazione francese, Firenze, “la belle ville”, si trasforma nella “Mairie de
Florence”, con un “maire” nominato dall’Imperatore e un Consiglio con funzioni
consultive, sovraordinato da un prefetto
(p. 53). Così, Firenze, sotto il governo di colei che il fratello
considerava “la migliore dei suoi ministri”, costituisce un caso esemplare degli effetti
del buongoverno francese in Italia, frutto della recente Rivoluzione. I sei
anni in cui la Toscana fu annessa all’Impero napoleonico (nel 1814 la Baciocchi
dovette lasciare la Toscana, ritornata nelle mani del Granduca Ferdinando III)
furono infatti gli anni dei più grandi mutamenti politico-urbanistici per
Firenze: dalla nascita del catasto e del regolamento edilizio, all’anagrafe,
che richiese l’assegnazione di un nome alle vie e un numero civico. Tra le
grandi opere progettate dalla Baiocchi merita almeno ricordarne due: il Foro
Napoleone, che prevedeva un corridoio tra San Marco e Porta San Gallo, e la
porta sul Mare di Firenze, con un canale navigabile aperto sulla riva destra
dell’Arno, da piazza Ognissanti: qui un arco monumentale avrebbe significato
che Firenze era la porta verso il mondo. Un ruolo preponderante in questi
progetti “illuminati” doveva avere avuto la massoneria: del Grande Oriente
d’Italia, fondato nel 1805 a Milano sul modello francese, il Gran Maestro era
Eugenio de Beauharnais, viceré del Regno d’Italia. La stessa Elisa aprì nel
1809 una loggia a lei intitolata presso l’attuale Chiesa di San Pancrazio. E,
così come i Lumi della Rivoluzione nacquero dalle inquietanti ombre
dell’esoterismo massone, non mancano elementi anche macabri legati alla principessa come il prelievo, in
punto di morte, del suo cuore, conservato
nella cappella Baciocchi a San Petronio a Bologna.
I documenti qui convocati
(scambi epistolari, decreti, annunci) funzionano come un primo piano storico,
mentre intorno aleggia la forza disgregante della morte e lo sfumato della
lontananza. Dovessimo ricondurre questo lavoro ad un qualche genere di
riferimento lo ascriveremmo alla “mitobiografia”, dove la lacuna storica è
colmata appunto dalla forza poietica del ricordo o dell’immaginazione. Non solo
vi è qui polifonia (la voce narratoriale interna o esterna, la voce di Sylvia,
narratrice delegata…), ma vi è ibridazione di modi enunciativi: romanzo,
romanzo epistolare, saggio storico, diario intimo.
L’Autore si concede talvolta il lusso di togliersi la
maschera, e di assumere lui medesimo lo sguardo panoramico dell’onniscienza: si
situa, ad esempio, in quello che Northrop Frye definisce il “punto di epifania”
fornitogli dall’elevazione del palazzo nobiliare. Dalla terrazza dell’Hotel
Excelsior, già Palazzo Bonaparte, egli gode, ad esempio, della magnifica vista su Firenze: panoramica
storica e topografica al contempo restituita in tempo scenico. In questa fusione di sacralità e mondanità
Firenze è, in fondo, la grande protagonista; è, al contempo, una Chiesa e un
palcoscenico. Certo è che la passione di Elisa Baciocchi per il teatro (si veda
il capitolo: “Il teatro allo specchio”), e in particolare la sua vocazione
attoriale tragica (amava Racine e
aveva interpretato Fedra in più luoghi
suggestivi della Toscana), la sua frequentazione, in parallelo all’attività
politica, del “salotto buono” di Firenze, il mondano Teatro della Pergola, fa
di lei la protagonista indiscussa del sogno imperiale.
Corredano il lavoro le quattro sinossi biografiche che
riassumono cronologicamente i fatti storici, mentre le magnifiche riproduzioni di
immagini su carta rigata avorio
aggiungono eleganza e la patina del tempo a questo gioiello storico e
narrativo.
Michela Landi
(Università di Firenze)
michela.landi@unifi.it
L’Autore si concede talvolta il lusso di togliersi la maschera, e di assumere lui medesimo lo sguardo panoramico dell’onniscienza: si situa, ad esempio, in quello che Northrop Frye definisce il “punto di epifania” fornitogli dall’elevazione del palazzo nobiliare. Dalla terrazza dell’Hotel Excelsior, già Palazzo Bonaparte, egli gode, ad esempio, della magnifica vista su Firenze: panoramica storica e topografica al contempo restituita in tempo scenico. In questa fusione di sacralità e mondanità Firenze è, in fondo, la grande protagonista; è, al contempo, una Chiesa e un palcoscenico. Certo è che la passione di Elisa Baciocchi per il teatro (si veda il capitolo: “Il teatro allo specchio”), e in particolare la sua vocazione attoriale tragica (amava Racine e aveva interpretato Fedra in più luoghi suggestivi della Toscana), la sua frequentazione, in parallelo all’attività politica, del “salotto buono” di Firenze, il mondano Teatro della Pergola, fa di lei la protagonista indiscussa del sogno imperiale.
RispondiEliminaCorredano il lavoro le quattro sinossi biografiche che riassumono cronologicamente i fatti storici, mentre le magnifiche riproduzioni di immagini su carta rigata avorio aggiungono eleganza e la patina del tempo a questo gioiello storico e narrativo.