giovedì 3 agosto 2023

R. M. , "L'invasione degli storni", Gazebo Edizioni - Prefazione di Giuseppe Panella - Disegni di Enrico Guerrini


Disegni Enrico Guerrini
Prefazione Giuseppe Panella

Giuseppe Panella

La rivolta degli uccelli migratori

«Nell’aria viola del tramonto egli guarda affiorare da una parte del cielo un pulviscolo minutissimo, una nuvola d’ali che volano. S’accorge che sono migliaia e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa. Quella che fin qui gli era sembrata un’immensità tranquilla e vuota si rivela tutta percorsa da presenze rapidissime e leggere. Rassicurante visione, il passaggio degli uccelli migratori, associato nella nostra memoria ancestrale all’armonico succedersi delle stagioni; invece il signor Palomar sente come un senso di apprensione. Sarà perché questo affollarsi del cielo ci ricorda che l’equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso d’insicurezza proietta dovunque minacce di catastrofe?»

E’ da questo spunto narrativo di Italo Calvino contenuto in Palomar del 1983[1] che Mosi fa partire il suo nuovo libro di poesie che segue le raccolte Luoghi del Mito (che è del 2010) e Nonluoghi (che è, invece, del 2009). Alla ricostruzione di aspetti particolari del mondo animale si associa il ritorno alla dimensione “modernizzata” del mondo mitico che contraddistingueva il precedente scritto di Mosi e l’indagine sulla “de-localizzazione” della poesia che, invece, era presente nei Nonluoghi ancora prima. In sostanza, con L’invasione degli storni si va precisando una sorta di deliberata trilogia poetica. In essa, alla descrizione di un mondo contemporaneo ormai degradato e senza centro, spesso incapace o inadeguato a prendere in considerazione la necessità di un cambiamento che lo conduca verso una dimensione più armonica della condizione umana (i Nonluoghi), si giustappone il ricordo del passato mitico dell’archetipo, l’uomo di sempre, quello che ha ancora in sé la possibilità di ritrovarsi e di impedire la distruzione del suo equilibrio interno in relazione alla natura (i Luoghi del mito). Nel nuovo libro, infine, è la Natura in scena con tutte le sue voci e con tutte le sue espressioni spesso mute ma non per questo meno espressive e capaci di mostrare il loro vero volto. E’ quello che accade della parte iniziale dell’Invasione degli storni dove allaValle dell’Inferno, luogo poetico e soprattutto campaniano per eccellenza, si aggiungono la Via del Purgatorio e il Nuovo Cinema Paradiso. Tre momenti in cui tra uomo e natura si crea un conflitto, si approfondisce e poi, forse utopisticamente e un po’ idillicamente, si risolve in una nuova alleanza. Nell’Inferno della radura del Mugello gli animali dimostrano tutta la loro perplessità circa il destino dell’uomo così come Gabriella, musa ispiratrice e novella Beatrice, indica la via:

«La cornacchia sfoglia / le pagine, scuote la testa / mi spinge fuori dalla valle. / La cascata sbarra il sentiero / l’acqua scende fragorosa. / Salto tra le onde, sui massi / in cerca della via d’uscita. / Scopro la grotta oltre il salto / dell’acqua, Gabriella mi porge / la mano: “Dopo la valle / scoprirai il tempo dell’Attesa”»[2].

Nella Valle dell’Inferno il solo soccorso di Dino Campana non basta: la Follia è già dentro l’uomo e lo rinserra nella sua morsa. Nel luogo in cui la Natura dovrebbe trionfare e decomporre la Storia ormai decotta dalle sue stesse contraddizioni di sempre, emergono i frammenti e gli spezzoni dell’ uomo contemporaneo a contaminarla. Al posto dell’armonia del passato e della ricomposizione delle contraddizioni del presente, predominano le scaglie e i frantumi della civilizzazione presente che distrugge e inquina, invece che purificare separando ciò che dura da ciò che deve essere distrutto, ciò che è fatto per servire da quello che è puro prodotto del profitto. L’Inferno è dunque questo, l’Indistinto, il luogo nel quale tutto è mescolato e il puro è tratto nel gorgo dell’impuro:

«Congestione di rifiuti urbani / nelle discariche a cielo aperto, / i topi si tengono per la coda / fanno festa gabbiani in volo / gatti impigriti dal grasso. / Ogni rifiuto giunge alla meta / differenziato per contenitore, / la Coscienza divide i rifiuti. / Umido organico: scarti / di cucina, erbe del prato. / Carta e cartone: giornali, / libri, fumetti, quaderni. / Plastica: bottiglie d’acqua, / involucri, piatti, sacchetti / Vetro: vasetti, brocche, / specchi, lampade, bicchieri. / Mondo virtuale: baci, amore, / passione, sentimento, emozione»[3].

Il tema della discarica come non luogo della postmodernità ricompare anche per attrazione nell’ultima parte del libro (nella sezione Periferie che già apparteneva ai Nonluoghi precedenti[4]) ed è un tema ormai topico nella disincantata metamorfosi del contemporaneo che allinea ironia e pathos nella scrittura matura di Mosi. Ma qui ha funzione eminentemente simbolica: i rifiuti sono ciò che appesantisce l’uomo e gli impedisce di essere ciò che vuole essere davvero, legato, com’è, alla “virtualità” dell’esistenza affettiva ed emozionale. L’Inferno è dunque il non luogo del consumo e della minaccia, della disarmonia tra la realtà sognata e il progetto globale che la nega in nome di una smodata e forsennata corsa al profitto: dunque, la negazione di una vita armoniosa. autentica.

Il Purgatorio è una Sala d’Attesa dove si scontano i peccati sotto forma di malattia. Il luogo della sofferenza, della ricerca di una guarigione che si fa aspettare infliggendo sofferenza e disagio a chi ne è la vittima spesso incolpevole, spesso inconsapevole, sempre timorosa e schiacciata dal male:

«Nella Sala d’Attesa l’odore / dell’alcol, il battito del tamburo / la pelle secca della lingua. / Folla nella Sala d’Attesa / la porta aperta sul Reparto, / il gioco degli scacchi, / per pedine la vita e la morte. / Passi sulla sabbia tra miraggi / evanescenti, il Tumore / tesse il tempo dell’Attesa. / Il maglio colpisce la facciata / abbatte la parete di rosso / un boato invade l’ospedale. / Tra le gru e le escavatrici / sopravvive solo il Reparto»[5].

Ed è nel Reparto che si consuma l’Attesa fatta di squallore, sofferenza, assenza; tra le sue mura fatte di gesso e di lacrime si cerca se stessi e ci si accinge a rinnovare la propria dimensione più profonda per essere di nuovo capaci di vivere e di giungere a quel Paradiso fatto di illusioni e di felicità che è la Fabbrica dei Sogni. Nel Reparto incombe il Ragno che tesse la tela del destino, che scandisce il passare del tempo, che annota e trattiene i passi di chi vorrebbe fuggirne ma non può. Chi ci riesce, infine, si slancia alla ricerca di qualcosa che prima, nel Reparto, gli era stato negato e che solo ora prende consistenza – ed è “la materia di cui sono fatti i sogni”:

”Suona la mia canzone, / Sam. Come a quel tempo”. / Implora dallo schermo, / lo sguardo di Ingrid, vago il suo sorriso. / “Canta: As Time Goes By”. / Ripeto le sue parole, / seguo Gabriella nel film. / Sono alle spalle di Bogart / sulla pista dell’aeroporto, / sento le parole dell’addio. // La mia mano non stringe / Gabriella, la poltrona è vuota»[6].

La vita è fatta di illusioni e di sogni proiettati su un telone che si illumina della gioia immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della Luna. Il Paradiso è perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova a raccontarci come è andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta qui, resa immobile e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di volare. Quando ci riesce, allora, si “illumina d’immenso”.

Note

[1] I. CALVINO, Palomar, con una presentazione dell’autore, Milano, Mondadori, 19942, p. 64.

[2] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 1.

[3] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 9.

[4] “Discariche di squallore / sotto i ponti dell’autostrada / vicini alla città, fulgore d’immagini, / di colori spruzzati sui piloni. // Attraversoo correndo la sera, / verso la campagna. / Graffiti mi accolgono in galleria, / parlano ogni volta / del fantastico creatore. // Ieri da una collina in rosa / mi ha salutato la pecora Dolly, / di fronte il gregge assorto / delle pecore normali, / al centro l’albero della vita / per frutti televisori / missili e computer“ (R. MOSI, L’invasione degli storni, pp. 55-56).

[5] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 13.

[6] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 20.

 L'invasione degli storni

Valle dell’inferno

il Gigante si scuote dal sonno
si alza vacillando in piedi
le mani alla fronte.
Un lampo illumina la Cupola
il boato squarcia la notte.
Il Palazzo è avvolto dal fumo,
giungono nubi di voci:
“La bomba!”, “Gli Uffizi!”
Il gigante maledice,
gli occhi caverne di fuoco.
La bocca schiuma di bava.
Trema la terra del prato,
si apre il labirinto, cado
come corpo morto cade.
La Cornacchia conta gli arrivi
li moltiplica per i numeri primi.
Ad ogni arrivo batte le ali
scrive il nome sulla lavagna.
Gracida contenta, mostra
le gore d’acqua putrida
abitate dal gracidio delle rane.
L’occhio del campanile
di Casetta di Tiara si affaccia
sopra i miasmi della valle.
Il treno attraversa la galleria
nel pulsare delle vene d’acqua,
tremano le radici del bosco.
Il cervo scappa spaventato
sul fianco la ferita di uno sparo.
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L’acqua canta tra il muschio
dei massi, si disperde in correnti,
si compone in pozze
sommerse dai cespugli.
Gabriella, coronata di luce
nella radura mostra la strada
che dalla valle sale
per i fianchi della montagna.
Sopra la cima dei castagni
la vertigine delle rocce,
colonne aeree di una cattedrale
aperta sul candeggiare del cielo.
“Mi perdo in questi boschi
- le parole di Dino - ritrovo
il centro di me stesso tra i fumi
della Follia. Casetta di Tiara
oltre i fianchi della valle,
approdo per l’incendio d’amore”.
Le rocce parlano dell’essere
le acque giocano con l’apparire.
Le piene dell’inverno trascinano
pupazzi bianchi caduti dal cielo.
Sulle camicie ricamate Libertà
Uguaglianza Fraternità
si disfano, approdano sui massi.
Immagini di pietra alle pareti,
ideologie sedimentate:
ora il volo libero del gabbiano
ora colonne fino alle guglie
della cattedrale attraversate
da oriente a occidente
da ricami di nuvole guidati
dal fantasma della Ragione.
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La Ragione sposò il Progresso
si unì alla Giustizia Sociale
bambini rossi sono nati
sono cresciuti bambini rossi
dispersi dalle piene del fiume.
È strana la sera di Mosca
suona il carillon della Piazza,
“Mezzanotte a Mosca”, brilla
la stella rossa sul Cremlino,
vibrano bandiere rosse, rosse
al vento sulle mura, sventolano
all’aeroporto di Mosca.
S’illumina la stella rossa sopra
la Casa del Popolo all’Impruneta,
resiste al maglio della Storia.
Al capezzale della storia
si spengono serate d’inverno
i vetri, una piaga rossa languente,
brillano ai raggi del tramonto.
Il profilo aguzzo s’illumina
traspare il cielo degli occhi
specchio di altre stagioni
infuso di malinconia.
La corrente porta via la salma
discioglie il sapore della Storia
nel labirinto dei Nonluoghi.
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orchidee di benvenuto
al banco dei Nonluoghi
per il viaggio tra i detriti
triturati dell’Identità.
Congestione di rifiuti urbani
nelle discariche a cielo aperto,
i topi si tengono per la coda
fanno festa gabbiani in volo
gatti impigriti dal grasso.
Orchidee di benvenuto
al banco dei Nonluoghi.
Improvvisi gigli di plastica,
la Bellezza nasce tra i rifiuti.
La lucciola abbandona
lo sciame per baciare il led
pulsante di luce rossa,
ronza intorno al blackberry.
Nella gora putrida d’acqua
frammenti dell’uomo digitale
bit byte zero uno zero uno
individui scissi in frammenti,
tele comando nella testa:
consenso ordine sicurezza.
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Mostri agitano le code,
un mulinello d’acqua
si agita al centro.
Le sostanze precipitano
nella pupilla dell’occhio,
si aprono bocche affamate
d’oppio. Maschere del potere
lottano sulla sabbia della riva
le facce rosse di fuoco.
La Cornacchia sul ramo
attende il vero vincitore.
La Cornacchia sfoglia
le pagine, scuote la testa
mi spinge fuori dalla valle.
La cascata sbarra il sentiero
l’acqua scende fragorosa.
Salto tra le onde, sui massi
in cerca della via d’uscita.
Scopro la grotta oltre il salto
dell’acqua, Gabriella mi porge
la mano: “Dopo la valle
scoprirai il tempo dell’Attesa”.
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Via del Purgatorio

Nella sala d’Attesa l’odore
dell’alcol, il battito del tamburo
la pelle secca della lingua.
Folla nella Sala d’Attesa
la porta aperta del Reparto,
il gioco degli scacchi,
per pedine la vita e la morte.
Passi sulla sabbia tra miraggi
evanescenti, il Tumore
tesse il tempo dell’Attesa.
Il maglio colpisce la facciata
abbatte la parete di rosso
un boato invade l’ospedale.
Tra le gru e le escavatrici
sopravvive solo il Reparto.
Lo squallore del Reparto
annunciato dai pini sfiancati
dalla grigia siepe assetata.
Il mio nome suona nella Sala
tra vassoi dei pasti consumati,
facce spente di cartapesta.
Sulle pareti carte disegnate
dal gemito d’acqua dei tubi
dal gorgoglio delle docce.
Ho ricostruito la foce di fiumi,
un tedoforo in corsa
le forme di donne discinte.
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La poltrona mi accoglie
vicino alla finestra. Sulle colline
le forme chiare degli olivi.
La mano cerca la vena,
l’ago, le gocce si rincorrono,
il braccio si gonfia
stride il campanello.
Sette flaconi, sette liquidi
si mescolano al sangue,
caldo, fiamme di fuoco.
Le colline sono illuminate
dallo sguardo indifferente del sole.
E avanza la chemioterapia.
Per la chemioterapia
una mano è inchiodata dall’ago.
L’altra sfoglia pratiche d’ufficio.
Il vicino indossa vesti diverse
dell’amico e del rivale.
Nella sala facce maschili
lontana la leggerezza delle donne.
“È solo un effetto placebo.
Solo il chirurgo spunta
gli artigli del male”.
La mattina al lavoro,
il pomeriggio nel Reparto.
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il Reparto oncologico
è abitato al pomeriggio
da stanche infermiere,
da macchine per le pulizie,
Il medico alla fine del turno
mostra ad occhi ansiosi
le carte della partita.
Gli ultimi lasciano il Reparto,
l’edificio galleggia sugli aghi
dei pini che sfiorano il cielo
scuro, in attesa della notte.
il ragno si affaccia dal soffitto,
di notte tesse la tela.
Scende veloce per il filo,
osserva i pazienti distesi,
gli aghi infilati nelle vene.
Mi guarda con simpatia.
Risale svelto, scompare
oltre il tubo del riscaldamento.
L’aspetto, l’Attesa è lunga.
Penso ai tesori del ripostiglio
resti di mosche, di moscerini.
“Cosa si ricorderà di me,
del mio passaggio nella stanza?”
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Chiudo gli occhi sulla poltrona.
Nella stanza suona il telefono,
corro a perdifiato per strade
per scale e corridoi infiniti.
La camera è nell’ombra
il letto al centro, il lenzuolo
copre lo sguardo fisso, di gelo.
La mia mano si allunga
chiudo gli occhi di Bruno.
La sedia a dondolo si alza
si abbassa, cigola di dolore.
Guardo disteso, oltre la finestra.
Lo sguardo si abbassa
la collina si è imbiancata di neve
un vecchio ha voltato la terra.
Passano i mesi, semina l’orto
intreccia le canne per i pomodori.
Alle cinque il bus della scuola
attraversa le strade della collina.
Un cane abbaia, forsennato.
Giorni di pioggia, giorni di sole
intrecciano racconti,
depressione ed euforia.
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Stabat mater dolorosa
juxta crucem lacrymosa,
dum pendebat Filius.
Parole disegnate nell’albo
si intrecciano
tra le nubi dei pensieri,
senso di colpa, di sconfitta.
Domande sui fogli:
“Perché?” Improvvisa
Gabriella, coronata di luce,
sfoglia le pagine, il sapore
di un bacio, di una carezza.
L’ultima flebo, svanisce
il sapore della chemioterapia.
La sala d’aspetto è invasa
dai nuovi arrivati.
Lascio l’ospedale, corro
nella strada in discesa, l’aria
accarezza la pelle arrossata.
Gabriella mi guida,
pedalo leggero nella città,
la nuova Sala dell’Attesa.
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Nuovo Cinema Paradiso

Nel silenzio svaniscono le luci
mormorano le foglie dei platani,
si accende l’occhio della cabina.
Gabriella, coronata di luce,
mi tiene stretta la mano.
Il fascio di luce taglia la sala
imprigionato da nubi di fumo.
Vivono in bianco e nero
i racconti del mondo,
ombre proiettate dalla cabina,
immersa nella nube notturna
del Cinema Paradiso.
Alle mie spalle il respiro
di Alfredo e Salvatore.
ombre di scarpe appese
un violino adagiato sopra
la mensola, bottiglie
fiori secchi, legni, assi
farfalle attirate dalla luce.
Ogni cosa è stata rimossa.
Giuseppe Tornatore
mi guida per le stanze
annerite di polvere e fumo
della Fattoria di Celle.
Si alzano dalla polvere
forme sopravvissute,
le forme fisiche dell’ombra.
Gli sguardi sprofondano
nell’anima di luce delle cose.
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Applausi volano in festa,
il Cinema sprofonda nel silenzio.
La musica nasce da lontane
sorgenti, danza
nelle trame delle luci,
si apre in onde tra il suono
di archi ed ottoni.
Sono attore e comparsa,
principe e servo, leggero
nel girotondo incessante
della musica di Otto e mezzo.
Gli altri sono parte di me,
nel cerchio della vita.
Leggeri i passi salgono
il Monte tra il verde degli ultimi
castagni, le voci dei compagni
galleggiano nell’aria di temporale.
Case mute parlano di racconti
lontani, il paese si scioglie
in sentieri solitari.
Il gruppo è disteso in una rete
di parole, per il sentiero
che sale a La Verna.
Robin Hood guida all’incontro
col Sacro Monte, nello zaino
il suono dei Canti Orfici.
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Fotografo suono e silenzio
cerco forme nella discarica
della memoria, nei pensieri
tra la melma del giorno.
Formo un impasto d’argilla
da penetrare a piene mani,
un rullo di fotogrammi
da proiettare in sequenza.
Appare il senso, la forma,
il fuoco abbraccia la creta,
l’opera è pronta per brillare
alla polvere del giorno:
Michelangelo, Blow-Up.
Tratti scolpiscono il foglio,
forme prendono vita.
Piazza dei Miracoli nell’ora
di mezzogiorno, invasa di sole.
Enrico disegna la parola,
la mano e la matita una sola cosa.
Mi spinge a rincorrere la palla
lanciata da Umberto D. per gioco,
a cercare nella folla dei segni
le vie dell’utopia.
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Le vie della città nel sole.
Evapora ogni angolo d’ombra
i ventilatori ronzano
intorno ad opachi pensieri.
Ragazzi disegnano spirali
sulle pareti del sottopasso,
lo sguardo di Marylin
il corpo di Jane Russel.
Un sassofono incanta
il cappello di monete.
È la tregua della sera, chitarre
si accordano con brezze leggere.
Apre Nuovo Cinema Paradiso,
ombre innamorate
vagano per l’acquario della città.
“Suona la mia canzone,
Sam. Come a quel tempo”.
Implora dallo schermo
lo sguardo innamorato
di Ingrid, vago il suo sorriso.
“Canta: As time goes by”.
Ripeto le sue parole,
seguo Gabriella nel film.
Sono alle spalle di Bogart
sulla pista dell’aeroporto,
sento le parole dell’addio.
La mia mano non stringe
Gabriella, la poltrona è vuota.
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“Nell’ora viola del tramonto”
il vuoto, poi un pulviscolo d'ali
invade la cupola del cielo,
la nube s'addensa, sfiora la casa,
Hitchcock è parte del moto,
si alza nella nuvola
percorsa da inquiete presenze.
Ora la nuvola evapora
ogni storno si allontana
raggiunge un punto lontano.
Ora dai quattro angoli del cielo
emerge un vortice gremito
di battere d'ali, una sfera roteante
sopra il ronzio della cinepresa.
L'ultimo chiarore scompare
l'ombra sale dalle strade
sommerge le cupole,
le tegole dei tetti,
inghiotte il volo delle piume.
Nei nidi appesi alle gronde
riposano i racconti del mondo,
la testa sotto le ali.
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Dialogo tra l’autore e la Cornacchia della Valle
dell’Inferno

Autore – Sei il primo personaggio che appare sulla
scena della Valle dell’Inferno, il primo atto dell’Invasione
degli storni, indaffarato e un po’ agitato.
Cornacchia – Mi piace la parte. Sono un animale solitario,
si dice intelligente, linguacciuto. Sono
anche un po’ mago, mi piace la cabala e gioco volentieri
con i numeri.
A. – Sembra che ti diverta.
C. – Ma certo! Non sai, nel tuo caso, la faccia buffa
che avevi quando sei arrivato, dopo che sei caduto
nel labirinto che congiunge la città alla Valle.
A. – Sembri innamorata di questa Valle, nascosta fra
i monti dell’Appennino, incavata come dal colpo
di lancia di un gigante.
C. – Sì, mi piace stare qui. La mia voce è potente, cra,
cra, cra. Rimbomba contro le pareti, l’eco rimbalza
in tutte le direzioni, sembra il gracchiare di un
branco di cornacchie, una cornacchiaia, si dice:
non mi sento più sola. Il fondo della Valle - negli
anfratti e nelle gore del torrente - è pieno di cianfrusaglie,
dei resti scenici lasciati dalla Storia. E poi
ci sono le discariche di rifiuti pieni di bocconcini.
Devo dire, però . . .
A. – Che cosa?
C. – Negli ultimi anni c’è stato un impazzimento generale.
È stata scavata a fianco della Valle
un’enorme galleria per i treni veloci. Si è violentata
la terra e ora molte sorgenti sono all’asciutto, si
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fanno battute di caccia per uccidere gli animali del
bosco. È giunto poi fino alla Valle l’eco dell’attentato
ai Georgofili, a Firenze. Mi presi un bello spavento,
le penne sul dorso sono diventate grigie. Il
Gigante dell’Appennino, nel Parco di Pratolino, si
svegliò dal sonno di secoli. C’è un’esplosione di
follia generale che non ha niente a che vedere con
la follia innocente di quel poeta famoso di Marradi.
A. – L’hai conosciuto?
C. – L’ho visto diverse volte, vestito di pelli di pecora.
L’ultima volta passò in compagnia di una signora,
sul sentiero in alto che porta a Casetta di
Tiara.
A. – Perché mi hai lasciato uscire dalla Valle dell’Inferno?
C. – Ho conosciuto la tua storia e ho capito che il tuo
viaggio doveva continuare. Gabriella, la tua musa
ispiratrice, mi aveva raccontato tutto.
A. – Conosci le altre tappe?
C. – Sì. Gli storni me ne hanno parlato.
A. – E cosa ti hanno raccontato?
C. – Gli storni che abitano sulle colline di Careggi,
dalle parti di Via del Purgatorio, ti hanno visto dietro
i vetri della finestra dell’ospedale nei giorni
della malattia. Ti hanno visto precipitare sul fondo
e poi rinascere a una vita nuova.
A. – I racconti volano! Ti lascio ora ai tuoi calcoli, la
fila dei nuovi arrivati diventa sempre più lunga.
C. – Sì, mi sono lasciata prendere dalle chiacchiere.
Un'ultima cosa. Gli storni che abitano le colline di
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Bellosguardo, vicino all’arena estiva “Chiar di
luna”, ti hanno visto la sera arrivare al cinema e
immergerti nel sogno di Nuovo Cinema Paradiso e
di tanti altri film. Devi tornare a trovarmi con un
sacco di racconti, di storie di film, di versi. Il tuo è
un viaggio alla ricerca della speranza e la speranza
è contagiosa.
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1 commento:

  1. Il ragno


    Il ragno si affaccia dal soffitto,
    di notte tesse la tela.
    Scende veloce per il filo,
    osserva i pazienti distesi,
    gli aghi infilati nelle vene.
    Mi guarda con simpatia.
    Risale svelto, scompare
    oltre il tubo del riscaldamento.
    L’aspetto, l’Attesa è lunga.
    Penso ai tesori del ripostiglio
    resti di mosche, di moscerini.
    “Cosa si ricorderà di me,
    del mio passaggio nella stanza?”





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