giovedì 19 novembre 2020

La Firenze di Dante e le lapidi per la Divina Commedia - L'incredibile "volo" del poeta - Collegamento"Literary"

 

Collegamento Literary 23 . 12

Per il secondo appuntamento di domenica 15 novembre legato al progetto “I versi di Dante scolpiti nel marmo, per le strade di Firenze”, una brutta sorpresa: Firenze e la Toscana sono stati dichiarati “zona rossa” e  sono fissate regole che ci costringono a rimanere a casa. In un primo momento, un profondo sgomento ha preso tutto il gruppo, impegnato a ripercorrere i luoghi segnati dalle lapidi con i versi della Commedia, luoghi ricchi di memorie e di significati. C’è stata però una reazione, è subito piaciuta la proposta di Elisa, che lavora in una celebre biblioteca, di usare internet per collegarci all’inizio della mattina, per riprendere – in maniera virtuale – il cammino già fatto la domenica precedente, dalla “Casa di Dante” e dal Bel San Giovanni, fino alla Loggia dei Lanzi, in piazza della Signoria. 



Così abbiamo fatto, con le faccine degli amici e delle amiche spuntate una ad una sul video, alcuni arzilli, altri ancora spenti, assonnati, in pigiama. Raffaello, solerte guida di un’associazione di camminatori, ci ha detto, a questo punto, che il percorso della seconda tappa era di circa tre chilometri, dalla Loggia dei Lanzi fino a Piazza della Repubblica,  dove sorgeva il foro romano, da qui si apre, con via del Corso, il Sestiere dove nacque e visse Dante. 


I nostri passi, o meglio la nostra fantasia, ci hanno portato per via Por Santa Maria, al Ponte Vecchio, a metà del quale troviamo nella Loggetta sotto il Corridoio Vasariano, i versi:

 

                                                    “… in sul passo d’Arno.”

                                                                        Inf. XIII, 146

 

Più volte, seguendo i percorsi legati alle vicende della Divina Commedia, torneremo sulle rive dell’Arno, fonte di vita ma anche causa di distruzione per la città, con le sue frequenti alluvioni. Questa volta ci limitiamo a ricordare l’episodio al quale fa riferimento il verso citato al termine del XIII Canto: Virgilio si rivolge ad un suicida e gli chiede di manifestarsi. Egli rivela di essere originario di Firenze, città che mutò il proprio protettore da Marte con san Giovanni Battista e per questo è vittima di continue guerre; solo la statua del dio pagano sull'Arno, di cui sopravvive un frammento, la preserva dalla totale distruzione.  





La meta successiva, passando per il Lungarno degli Acciaiuoli, è stata via Tornabuoni, la strada che oggi è il salotto dell’eleganza fiorentina. Sul palazzo turrito che fu della famiglia dei Gianfigliazzi, vicino alla chiesa di Santa Trinita e non lontano dagli abiti e dalle borse di “Gucci”, la lapide:

 

         “… com’io riguardando fra lor vegno,

         In una borsa gialla vidi azzurro

         Che d’un leone aveva faccia e contegno.”

                                                         Inf. XVII, 58-60

 

Elisa, spiritosa, osserva che non è male la combinazione di colori e di forme suggerite da questi versi. “Potrebbe essere l’idea – dice, rivolgendo uno sguardo a Fabrizio -  per il regalo di Natale!”.  Vedo dalle immagini presenti sul video, che ognuno sfoglia la propria Commedia – delle edizioni più diverse e strane – per risalire a questa parte del libro. Siamo nel terzo girone del VII cerchio dell’Inferno e Dante incontra gli usurai e condanna un peccato assai diffuso nella Firenze dell’epoca – e in quella dei nostri giorni. Sono condannati a star seduti in terra su sabbia ardente, agitando continuamente le mani per difendersi dalla pioggia di fuoco che cade su di loro e con gli occhi fissi sopra una borsa vuota al collo, sulla quale è dipinto lo stemma della propria famiglia. E proprio dal loro stemma, un leone azzurro in campo giallo, Dante riconosce i Gianfigliazzi. La borsa è la compagna inseparabile dell’usuraio, dove ripone il libro dei debitori e le monete; e forse, per uno scherzo della sorte, proprio in questa strada oggi si vendono borse a prezzi … da usuraio.

 

Commentando il Canto XVII, grande è stata la nostra meraviglia nello scoprire la figura di Gerione, l’animale mostruoso che fa salire sul proprio dorso Dante e Virgilio, per portarli in volo nei cerchi sottostanti, nelle Malebolge: “Ecco la fiera con la coda aguzza …/ che passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto il mondo appuzza! (XVII, 1-3). Vediamo, letteralmente, con immagini impressionanti, la “fiera” gettarsi in volo a spirale, in una folle discesa. Dante ha paura, è angosciato, si sente come assalito dalla febbre quartana, si stringe disperatamente a Virgilio che gli sta davanti, seduto, a cavalcioni, sull’incredibile prototipo di aeroplano (vv. 85-87). Renato ha detto che queste scene fanno venire in mente il volo fantastico di Astolfo a cavallo dell’ippogrifo, nei cieli della luna (Orlando Furioso, XXXIV, 70-87); i ragazzi, Claudio ed Anna, eccitati, ci hanno mostrato le figure del volo di Gerione, presenti sui loro libri.

 

A metà del percorso di questa domenica, Raffaello, da brava guida, ci ha invitato a raggiungere – sempre in maniera virtuale , naturalmente - da via Tornabuoni, per via Strozzi, la vicina piazza della Repubblica, dove era il foro della colonia fondata dai romani nel 59 a. c., con il canonico orientamento N-S ed E-O, del cardine (corrispondente alle attuali via Roma e via Calimala) e del decumano (sulla direttrice di via degli Strozzi, degli Speziali e del Corso). Si rileva quindi che l’orientamento delle strade nelle diverse epoche, è rimasto costante fino ai nostri giorni.




La direttrice che segue il decumano verso est, passa per via del Corso che era la spina dorsale del Sestiere della Porta di San Piero Maggiore, dove erano le case degli Alighieri e dove Dante nacque, trascorse l’infanzia e gli anni della gioventù, dove era la casa che abitò dopo il suo matrimonio con Gemma Donati. San Pier Maggiore era una delle sei circoscrizioni in cui, dal 1250, era divisa la città; cinque su sei, escluso il sesto d’Oltrarno, si dividevano la città come le fette di una torta, partendo dal centro più antico.






Abbiamo fatto una riflessione comune sull’importanza che avevano i sestieri nella vita di Firenze: qualunque nomina o elezione, che si trattasse dei feditori da schierare in prima linea alla battaglia di Campaldino o dei sei priori che subentravano ogni due mesi al governo della città, avveniva sulla base dei sesti, che quindi erano lo spazio naturale delle alleanze politiche e delle competizioni: i Cerchi e i Donati, futuri capi dei Bianchi e dei Neri, avevano le loro case e torri nel sesto di Porta San Piero, a poca distanza dagli Alighieri (si veda Alessandro Barbero, “Dante”, p. 67-70).

La nostra “fantastica” camminata è terminata, dunque, davanti a via del Corso nel sesto di Dante, nel grande mondo di memorie e di storie legate alla sua epoca, che porta per insegna sul gonfalone “due Chiavi vermiglie nel campo bianco”. Prima di salutarci Renato ha voluto ricordare che questa via ha preso il nome dalla corsa, il palio, che ogni anno, si correva per la Festa di San Giovanni Battista, patrono di Firenze, partendo dal Ponte alle Mosse, fuori di Porta al Prato, passava dal centro e arrivava nel sestiere, alla Porta di San Pier Maggiore. È stata immediata l’idea di un prossimo appuntamento, quando sarà possibile, dopo la pandemia, alla Colonna dell’Abbondanza, posta nel luogo dove in piazza della Repubblica, s’incrociano cardine e decumano: presso questa Colonna, è sempre in movimento una coloratissima giostra, dagli alti, splendenti cavalli: l’idea quella di salire, giovani e anziani sui cavalli di cartapesta, in ricordo del Palio dei tempi di Dante.














Al momento non è rimasto che seguire, in grande allegria, la proposta di Renato di recitare insieme, sotto la sua guida, i versi della Divina commedia, dal Canto XVII, 79-136, sul volo di Dante e di Virgilio, “a cavallo” di Gerione:

 

Trova’ il duca mio ch’era salito 
già su la groppa del fiero animale, 
e disse a me: «Or sie forte e ardito.                               

Omai si scende per sì fatte scale: 
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo, 
sì che la coda non possa far male».                             

Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo 
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte, 
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,                        

tal divenn’io a le parole porte; 
ma vergogna mi fé le sue minacce, 
che innanzi a buon segnor fa servo forte.                      

I’ m’assettai in su quelle spallacce; 
sì volli dir, ma la voce non venne 
com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.                        

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne 
ad altro forse, tosto ch’i’ montai 
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;                      

e disse: «Gerion, moviti omai: 
le rote larghe e lo scender sia poco: 
pensa la nova soma che tu hai».                                   

Come la navicella esce di loco 
in dietro in dietro, sì quindi si tolse; 
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,                                 

là ’v’era ’l petto, la coda rivolse, 
e quella tesa, come anguilla, mosse, 
e con le branche l’aere a sé raccolse.                         

Maggior paura non credo che fosse 
quando Fetonte abbandonò li freni, 
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;                 

né quando Icaro misero le reni 
sentì spennar per la scaldata cera, 
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,                      

che fu la mia, quando vidi ch’i’ era 
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta 
ogne veduta fuor che de la fera.                                    

Ella sen va notando lenta lenta: 
rota e discende, ma non me n’accorgo 
se non che al viso e di sotto mi venta.                         

Io sentia già da la man destra il gorgo 
far sotto noi un orribile scroscio, 
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.                 

Allor fu’ io più timido a lo stoscio, 
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti; 
ond’io tremando tutto mi raccoscio.                             

E vidi poi, ché nol vedea davanti, 
lo scendere e ’l girar per li gran mali 
che s’appressavan da diversi canti.                             

Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, 
che sanza veder logoro o uccello 
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,                             

discende lasso onde si move isnello, 
per cento rote, e da lunge si pone 
dal suo maestro, disdegnoso e fello;                          

così ne puose al fondo Gerione 
al piè al piè de la stagliata rocca 
e, discarcate le nostre persone, 

si dileguò come da corda cocca.           

 

  

 

 

 

2 commenti:

  1. La nostra “fantastica” camminata è terminata, dunque, davanti a via del Corso nel sesto di Dante, nel grande mondo di memorie e di storie legate alla sua epoca, che porta per insegna sul gonfalone “due Chiavi vermiglie nel campo bianco”. Prima di salutarci Renato ha voluto ricordare che questa via ha preso il nome dalla corsa, il palio, che ogni anno, si correva per la Festa di San Giovanni Battista, patrono di Firenze, partendo dal Ponte alle Mosse, fuori di Porta al Prato, passava dal centro e arrivava nel sestiere, alla Porta di San Pier Maggiore. È stata immediata l’idea di un prossimo appuntamento, quando sarà possibile, dopo la pandemia, alla Colonna dell’Abbondanza, posta nel luogo dove in piazza della Repubblica, s’incrociano cardine e decumano: presso questa Colonna, è sempre in movimento una coloratissima giostra, dagli alti, splendenti cavalli: l’idea quella di salire, giovani e anziani sui cavalli di cartapesta, in ricordo del Palio dei tempi di Dante.

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  2. Trova’ il duca mio ch’era salito
    già su la groppa del fiero animale,
    e disse a me: «Or sie forte e ardito.

    nferno, Canto XVII, v. 79 ...

    Omai si scende per sì fatte scale:
    monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
    sì che la coda non possa far male».

    Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
    de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
    e triema tutto pur guardando ’l rezzo,

    tal divenn’io a le parole porte;
    ma vergogna mi fé le sue minacce,
    che innanzi a buon segnor fa servo forte.

    I’ m’assettai in su quelle spallacce;
    sì volli dir, ma la voce non venne
    com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.

    Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
    ad altro forse, tosto ch’i’ montai
    con le braccia m’avvinse e mi sostenne;

    e disse: «Gerion, moviti omai:
    le rote larghe e lo scender sia poco:
    pensa la nova soma che tu hai».

    Come la navicella esce di loco
    in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
    e poi ch’al tutto si sentì a gioco,

    là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,
    e quella tesa, come anguilla, mosse,
    e con le branche l’aere a sé raccolse.

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