Collegamento Testo
Roberto Mosi si interessa di poesia e fotografia. Per la poesia ha pubblicato Sinfonia per San Salvi (Il Foglio 2020), Orfeo in Fonte Santa (Ladolfi 2019), Il profumo dell’iris (Gazebo 2018), Navicello Etrusco (Il Foglio 2018), Eratoterapia (Ladolfi 2017), Poesie 2009-2016 (Ladolfi 2016). L’autore ha realizzato mostre di fotografia presso caffè letterari, biblioteche, sale di esposizione. Cura i Blog: www.robertomosi.it e www.poesia3002.blogspot.it .
Così abbiamo fatto, con le faccine degli amici e delle amiche spuntate una ad una sul video, alcuni arzilli, altri ancora spenti, assonnati, in pigiama. Raffaello, solerte guida di un’associazione di camminatori, ci ha detto, a questo punto, che il percorso della seconda tappa era di circa tre chilometri, dalla Loggia dei Lanzi fino a Piazza della Repubblica, dove sorgeva il foro romano, da qui si apre, con via del Corso, il Sestiere dove nacque e visse Dante.
“… in sul passo d’Arno.”
Inf. XIII, 146
Più volte, seguendo i percorsi legati alle vicende della Divina Commedia, torneremo sulle rive dell’Arno, fonte di vita ma anche causa di distruzione per la città, con le sue frequenti alluvioni. Questa volta ci limitiamo a ricordare l’episodio al quale fa riferimento il verso citato al termine del XIII Canto: Virgilio si rivolge ad un suicida e gli chiede di manifestarsi. Egli rivela di essere originario di Firenze, città che mutò il proprio protettore da Marte con san Giovanni Battista e per questo è vittima di continue guerre; solo la statua del dio pagano sull'Arno, di cui sopravvive un frammento, la preserva dalla totale distruzione.
La meta successiva, passando per il Lungarno
degli Acciaiuoli, è stata via Tornabuoni, la strada che oggi è il salotto
dell’eleganza fiorentina. Sul palazzo turrito che fu della famiglia dei
Gianfigliazzi, vicino alla chiesa di Santa Trinita e non lontano dagli abiti e
dalle borse di “Gucci”, la lapide:
“… com’io riguardando fra lor vegno,
In una borsa gialla vidi azzurro
Che d’un leone aveva faccia e
contegno.”
Inf. XVII, 58-60
Elisa, spiritosa, osserva che non è male
la combinazione di colori e di forme suggerite da questi versi. “Potrebbe
essere l’idea – dice, rivolgendo uno sguardo a Fabrizio - per il regalo di Natale!”. Vedo dalle immagini presenti sul video, che
ognuno sfoglia la propria Commedia – delle edizioni più diverse e strane – per
risalire a questa parte del libro. Siamo nel terzo girone del VII cerchio
dell’Inferno e Dante incontra gli usurai e condanna un peccato assai diffuso
nella Firenze dell’epoca – e in quella dei nostri giorni. Sono condannati a
star seduti in terra su sabbia ardente, agitando continuamente le mani per
difendersi dalla pioggia di fuoco che cade su di loro e con gli occhi fissi
sopra una borsa vuota al collo, sulla quale è dipinto lo stemma della propria
famiglia. E proprio dal loro stemma, un leone azzurro in campo giallo, Dante riconosce
i Gianfigliazzi. La borsa è la compagna inseparabile dell’usuraio, dove ripone
il libro dei debitori e le monete; e forse, per uno scherzo della sorte,
proprio in questa strada oggi si vendono borse a prezzi … da usuraio.
Commentando il Canto XVII, grande è stata
la nostra meraviglia nello scoprire la figura di Gerione, l’animale mostruoso
che fa salire sul proprio dorso Dante e Virgilio, per portarli in volo nei
cerchi sottostanti, nelle Malebolge: “Ecco la fiera con la coda aguzza …/ che
passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto il mondo appuzza!
(XVII, 1-3). Vediamo, letteralmente, con immagini impressionanti, la “fiera”
gettarsi in volo a spirale, in una folle discesa. Dante ha paura, è angosciato,
si sente come assalito dalla febbre quartana, si stringe disperatamente a
Virgilio che gli sta davanti, seduto, a cavalcioni, sull’incredibile prototipo
di aeroplano (vv. 85-87). Renato ha detto che queste scene fanno venire in
mente il volo fantastico di Astolfo a cavallo dell’ippogrifo, nei cieli della
luna (Orlando Furioso, XXXIV, 70-87); i
ragazzi, Claudio ed Anna, eccitati, ci hanno mostrato le figure del volo di
Gerione, presenti sui loro libri.
A metà del percorso di questa domenica, Raffaello, da brava guida, ci ha invitato a raggiungere – sempre in maniera virtuale , naturalmente - da via Tornabuoni, per via Strozzi, la vicina piazza della Repubblica, dove era il foro della colonia fondata dai romani nel 59 a. c., con il canonico orientamento N-S ed E-O, del cardine (corrispondente alle attuali via Roma e via Calimala) e del decumano (sulla direttrice di via degli Strozzi, degli Speziali e del Corso). Si rileva quindi che l’orientamento delle strade nelle diverse epoche, è rimasto costante fino ai nostri giorni.
La nostra “fantastica” camminata è
terminata, dunque, davanti a via del Corso nel sesto di Dante, nel grande mondo
di memorie e di storie legate alla sua epoca, che porta per insegna sul
gonfalone “due Chiavi vermiglie nel campo bianco”. Prima di salutarci Renato ha
voluto ricordare che questa via ha preso il nome dalla corsa, il palio, che ogni anno, si correva per
la Festa di San Giovanni Battista, patrono di Firenze, partendo dal Ponte alle
Mosse, fuori di Porta al Prato, passava dal centro e arrivava nel sestiere,
alla Porta di San Pier Maggiore. È stata immediata l’idea di un prossimo
appuntamento, quando sarà possibile, dopo la pandemia, alla Colonna
dell’Abbondanza, posta nel luogo dove in piazza della Repubblica, s’incrociano
cardine e decumano: presso questa Colonna, è sempre in movimento una
coloratissima giostra, dagli alti, splendenti cavalli: l’idea quella di salire,
giovani e anziani sui cavalli di cartapesta, in ricordo del Palio dei tempi di
Dante.
Al momento non è rimasto che seguire, in
grande allegria, la proposta di Renato di recitare insieme, sotto la sua guida,
i versi della Divina commedia, dal Canto XVII, 79-136, sul volo di Dante e di
Virgilio, “a cavallo” di Gerione:
Trova’
il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e
ardito.
Omai si scende per sì fatte scale:
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far
male».
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,
tal divenn’io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo
forte.
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
e disse: «Gerion, moviti omai:
le rote larghe e lo scender sia poco:
pensa la nova soma che tu
hai».
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a
gioco,
là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé
raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si
cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via
tieni!»,
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la
fera.
Ella sen va notando lenta lenta:
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa
sporgo.
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi
raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi
canti.
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e
fello;
così ne puose al fondo Gerione
al piè al piè de la stagliata rocca
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda
cocca.
Bella presentazione di Dante con i suoi versi scolpiti nel marmo - Gli aggettivi “bello” attribuito all’Arno e “grande” attribuito a Firenze, tradiscono, con la loro insistenza, la malinconia dell’esule e del politico.
Όμορφη παρουσίαση του Δάντη με τους στίχους του σκαλισμένους σε μάρμαρο - Τα επίθετα «όμορφος» που αποδίδεται στον Άρνο και «μεγάλος» που αποδίδεται στη Φλωρεντία, προδίδουν, με την επιμονή τους, τη μελαγχολία του εξόριστου και του πολιτικού
Incontrare, oggi, Dante Alighieri nelle
strade di Firenze e i versi della Divina Commedia scolpiti nel marmo, sui muri
degli antichi edifici, che ricordano personaggi e avvenimenti della vita della
città nei tempi dell’infanzia e della giovinezza del poeta: questo il compito,
esaltante, da perseguire domenica 8 novembre con un piccolo gruppo di amici e
di amiche, di età diverse, ognuno fornito delle regolamentari mascherine. È
stata purtroppo l’ultima domenica della Firenze “gialla”, nell’epoca della
pandemia, prima della fase arancione che ci vedrà, nella sostanza, relegati in
casa ma sempre intenti, ne sono certo, a programmare, disegnare per tempi
migliori, futuri percorsi di visita.
Il gruppo, nei frequenti collegamenti in
video conferenza tenuti nei giorni precedenti l’incontro, aveva già deciso di
eleggere come guida, pratica, il prezioso libretto di Foresto Niccolai
“Firenze. Le lapidi dei luoghi danteschi” e, in particolare, la parte dedicata
al primo “viaggio”, l’Inferno. Il libretto di Niccolai informa che le lapidi
che ricordano fatti ed episodi della vita fiorentina “nel tempo torbido del
grande poeta”. Fatti ed episodi ai quali sono legati i nomi di gloriose famiglie
e di uomini famosi che Dante giudicò, con il suo sdegno o con la sua lode.
“Ma il tempo molti ricordi ha fatto
svanire, e molti giudizi ha reso vaghi e sibillini. Dare una spiegazione chiara
è lo scopo che mi propongo”, sostiene Foresto Niccolai. “Fu nel 1900 che il
Comune di Firenze prese l’iniziativa di collocare nelle vie e nelle piazze cittadine,
una serie di lapidi a ricordo dei luoghi danteschi. Fu formata una commissione
composta da Isidoro del Lungo, Pietro Torrigiani, Giuseppe Minuti, con compiti
storico-letterari, che ricercò i luoghi ed i canti della Divina Commedia e nel
1907 le lapidi furono collocate.” Le lapidi sono 34: 9 per l’Inferno, 8 per il
Purgatorio, 20 per il Paradiso; la maggior parte di queste, 20, sono collocate
al centro, nel Sestiere di San Piero, dove nacque e visse Dante.
Il nostro gruppo si è dunque ritrovato la
mattina di domenica 8 novembre, proprio in via Dante Alighieri. Ho visto, con piacere, che ognuno è arrivato
con libri sotto il braccio o nella borsa, comprati nelle librerie o presi a
prestito nelle biblioteche, scelti in vario modo, rispondendo al richiamo
tamburellante dei media sull’avvicinarsi dei 700 anni dalla morte del poeta. In
tutti la voglia di conoscere, capire, godere della poesia, poter anche avanzare
riflessioni critiche, senza farsi travolgere dall’onda anomala della retorica. Non
mancava il libro, dai toni eccessivi di Cazzullo “A riveder le stelle”,
l’ammaliante volume “Firenze segreta di Dante” di Dario Pisano, il “Dante” di
Barbero con la provocazione sul profilo di usuraio del poeta, “Come donna
innamorata” di Marco Santagata.
Mia nipote Anna si è portata dietro “Dante
per gioco. L’Inferno” (Federighi Edizioni) e il suo amico Claudio “Dante. La
Divina Commedia a fumetti” di Marcello Toninelli.
L’incontro è stato sotto la lapide posta
sulla cosiddetta Casa di Dante - edificio ricostruito da Giuseppe Castellucci
(1910) su antiche mura – che recita:
… “Io fui nato e
cresciuto
Sovra
‘l bel fiume d’Arno alla gran villa.
Inf. XXIII , 94-95
Sono queste le parole che pronuncia
Dante in risposta alla domanda che gli rivolgono, nel girone degli ipocriti, i due
frati che si sono avvicinati a lui:
“O Tosco, ch’al collegio/ de l’ipocriti tristi
se’ venuto, / dir chi tu se’ non aver in dispregio”.
Abbiamo osservato che nelle espressioni
del poeta si avverte il sospiro dell’esule per la sua patria. Gli aggettivi
“bello” attribuito all’Arno, e “grande” attribuito a Firenze, insieme alla
precisazione “nato e cresciuto” per indicare che non è fiorentino del contado,
tradiscono, con la loro insistenza, questa sottintesa malinconia dell’esule e
del politico. Ci siamo soffermarti, in particolare sull’espressione “la gran
villa”, ricordando che nello scorcio del Duecento, il movimento di rinnovamento
edilizio, all’interno e all’esterno di Firenze, ebbe la sua naturale conclusione
nella costruzione dei grandi edifici pubblici e religiosi, che hanno dato poi
nei secoli la fisionomia definitiva alla città, modificandola completamente. Si
pensi all’inizio dei lavori – alla loro ripresa – per quanto riguarda Santa
Maria Novella, Santa Croce, la nuova cattedrale, Palazzo Vecchio, il palazzo
del Comune. Si può dire che a quell’epoca Firenze era tutto un cantiere!
Abbiamo voluto proseguire seguendo
ancora il registro della malinconia e dei teneri ricordi dell’esule. Ci siamo
fermati al Battistero:
“ … nel mio bel San Giovanni”
Inf.
XIX, 17
Poche parole queste che ci dicono
l’affetto nostalgico dell’esule per l’antico tempio, il Battistero della città,
al cui fonte fu battezzato. Abbiamo continuato poi il percorso per la vicina
via Cerretani fino alla chiesa di Santa Maria Maggiore, per scoprire i versi:
“… in la mente m’è fitta, e or
m’accora,
La cara e buona immagine paterna
Di voi, quando nel mondo ad ora ad
ora
M’insegnavate come l’uom s’eterna”
Inf.
58-63
E’ il ricordo affettuoso dell’illustre
letterato Brunetto Latini, maestro di Dante, notaio e cancelliere del Comune di
Firenze. La tomba di Brunetto Latini fu
ritrovata nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Firenze e abbiamo potuto
constatare che è segnalata da un'antica colonnetta nella cappella a sinistra
dell'altare maggiore.
A questo punto del nostro percorso è
apparso naturale incamminarci verso via Calzaioli dove è presente la lapide
dedicata a Cavalcante Cavalcanti e al ricordo del figlio Guido, amico fraterno
di gioventù di Dante, considerato con lui, Guido Guinicelli, Cino da Pistoia,
Gianni Alfani, uno dei padri della nostra lingua, poeta soave del “dolce stil
novo”.
“ … Se per questo cieco
Carcere vai per altezza d’ingegno
Mio figlio ov’è? E perché non èò teco?”
E io a lui, “Da me stesso non vegno:
Colui che attende là, per qui mi mena,
Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.”
Inf.
X, 58-63
Un amico del gruppo, Renato, fine
lettore di Dante, davanti a questi versi incisi nel marmo, ha voluto ricordare
che il canto X, di straordinaria bellezza poetica , è anche il canto di
Farinata della nobile famiglia degli Uberti, capo di parte Ghibellina in
Firenze, che nel famoso incontro dei vincitori a Empoli, si oppose alla
richiesta senese di radere al suolo “Fiorenza”.
“ … fu’ io sol colà dove sofferto
Fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
Colui che la difesi a viso aperto.”
In.
X, 91-93
Abbiamo potuto vedere come oggi Firenze
conservi questa lapide, in un posto prezioso, nel primo cortile del suo palazzo
comunale, in Palazzo Vecchio. È stato a questo punto del nostro percorso, al
termine della mattina, che Renato ci ha invitato a raggiungere la Loggia dei
Lanzi, in piazza della Signoria, e presso la statua del “Perseo con la testa di
Medusa” di Benvenuto Cellini, abbiamo aperto ognuno la nostra Divina Commedia
e, guidati dalla voce altisonante del nostro amico, abbiamo letto insieme le
sequenze drammatiche, umanissime del decimo canto.
Presto un nuovo appuntamento, nel centro
di Firenze, nel sestiere di Porta San Piero, per scoprire altre pagine
dell’arte e dell’umanità di Dante, con alcuni giorni per preparare a distanza ma
collegati online fra noi – in questo periodo di piena pandemia - il prossimo
percorso di visita.
Il gruppo, nei frequenti collegamenti in
video conferenza tenuti nei giorni precedenti l’incontro, aveva già deciso di
eleggere come guida, pratica, il prezioso libretto di Foresto Niccolai
“Firenze. Le lapidi dei luoghi danteschi” e, in particolare, la parte dedicata
al primo “viaggio”, l’Inferno. Il libretto di Niccolai informa che le lapidi
che ricordano fatti ed episodi della vita fiorentina “nel tempo torbido del
grande poeta”. Fatti ed episodi ai quali sono legati i nomi di gloriose famiglie
e di uomini famosi che Dante giudicò, con il suo sdegno o con la sua lode.
“Ma il tempo molti ricordi ha fatto svanire, e molti giudizi ha reso vaghi e sibillini. Dare una spiegazione chiara è lo scopo che mi propongo”, sostiene Foresto Niccolai. “Fu nel 1900 che il Comune di Firenze prese l’iniziativa di collocare nelle vie e nelle piazze cittadine, una serie di lapidi a ricordo dei luoghi danteschi. Fu formata una commissione composta da Isidoro del Lungo, Pietro Torrigiani, Giuseppe Minuti, con compiti storico-letterari, che ricercò i luoghi ed i canti della Divina Commedia e nel 1907 le lapidi furono collocate.” Le lapidi sono 34: 9 per l’Inferno, 8 per il Purgatorio, 20 per il Paradiso; la maggior parte di queste, 20, sono collocate al centro, nel Sestiere di San Piero, dove nacque e visse Dante.
Il nostro gruppo si è dunque ritrovato la mattina di domenica 8 novembre, proprio in via Dante Alighieri. Ho visto, con piacere, che ognuno è arrivato con libri sotto il braccio o nella borsa, comprati nelle librerie o presi a prestito nelle biblioteche, scelti in vario modo, rispondendo al richiamo tamburellante dei media sull’avvicinarsi dei 700 anni dalla morte del poeta. In tutti la voglia di conoscere, capire, godere della poesia, poter anche avanzare riflessioni critiche, senza farsi travolgere dall’onda anomala della retorica.
Non mancava il libro, dai toni eccessivi di Cazzullo “A riveder le stelle”, l’ammaliante volume “Firenze segreta di Dante” di Dario Pisano, il “Dante” di Barbero con la provocazione sul profilo di usuraio del poeta, “Come donna innamorata” di Marco Santagata.
Mia nipote Anna si è portata dietro “Dante
per gioco. L’Inferno” (Federighi Edizioni) e il suo amico Claudio “Dante. La
Divina Commedia a fumetti” di Marcello Toninelli.
L’incontro è stato sotto la lapide posta
sulla cosiddetta Casa di Dante - edificio ricostruito da Giuseppe Castellucci
(1910) su antiche mura – che recita:
… “Io fui nato e
cresciuto
Sovra
‘l bel fiume d’Arno alla gran villa.
Inf. XXIII , 94-95
Sono queste le parole che pronuncia
Dante in risposta alla domanda che gli rivolgono, nel girone degli ipocriti, i due
frati che si sono avvicinati a lui:
“O Tosco, ch’al collegio/ de l’ipocriti tristi
se’ venuto, / dir chi tu se’ non aver in dispregio”.
Abbiamo osservato che nelle espressioni
del poeta si avverte il sospiro dell’esule per la sua patria. Gli aggettivi
“bello” attribuito all’Arno, e “grande” attribuito a Firenze, insieme alla
precisazione “nato e cresciuto” per indicare che non è fiorentino del contado,
tradiscono, con la loro insistenza, questa sottintesa malinconia dell’esule e
del politico. Ci siamo soffermarti, in particolare sull’espressione “la gran
villa”, ricordando che nello scorcio del Duecento, il movimento di rinnovamento
edilizio, all’interno e all’esterno di Firenze, ebbe la sua naturale conclusione
nella costruzione dei grandi edifici pubblici e religiosi, che hanno dato poi
nei secoli la fisionomia definitiva alla città, modificandola completamente. Si
pensi all’inizio dei lavori – alla loro ripresa – per quanto riguarda Santa
Maria Novella, Santa Croce, la nuova cattedrale, Palazzo Vecchio, il palazzo
del Comune. Si può dire che a quell’epoca Firenze era tutto un cantiere!
Abbiamo voluto proseguire seguendo
ancora il registro della malinconia e dei teneri ricordi dell’esule. Ci siamo
fermati al Battistero:
“ … nel mio bel San Giovanni”
Inf. XIX, 17
Poche parole queste che ci dicono
l’affetto nostalgico dell’esule per l’antico tempio, il Battistero della città,
al cui fonte fu battezzato. Abbiamo continuato poi il percorso per la vicina
via Cerretani fino alla chiesa di Santa Maria Maggiore, per scoprire i versi:
La cara e buona immagine paterna
Di voi, quando nel mondo ad ora ad
ora
M’insegnavate come l’uom s’eterna”
Inf.
58-63
A questo punto del nostro percorso è
apparso naturale incamminarci verso via Calzaioli dove è presente la lapide
dedicata a Cavalcante Cavalcanti e al ricordo del figlio Guido, amico fraterno
di gioventù di Dante, considerato con lui, Guido Guinicelli, Cino da Pistoia,
Gianni Alfani, uno dei padri della nostra lingua, poeta soave del “dolce stil
novo”.
Carcere vai per altezza d’ingegno
Mio figlio ov’è? E perché non èò teco?”
E io a lui, “Da me stesso non vegno:
Colui che attende là, per qui mi mena,
Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.”
Inf.
X, 58-63
Un amico del gruppo, Renato, fine
lettore di Dante, davanti a questi versi incisi nel marmo, ha voluto ricordare
che il canto X, di straordinaria bellezza poetica , è anche il canto di
Farinata della nobile famiglia degli Uberti, capo di parte Ghibellina in
Firenze, che nel famoso incontro dei vincitori a Empoli, si oppose alla
richiesta senese di radere al suolo “Fiorenza”.
“ … fu’ io sol colà dove sofferto
Fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
Colui che la difesi a viso aperto.”
In.
X, 91-93
Abbiamo potuto vedere come oggi Firenze
conservi questa lapide, in un posto prezioso, nel primo cortile del suo palazzo
comunale, in Palazzo Vecchio. È stato a questo punto del nostro percorso, al
termine della mattina, che Renato ci ha invitato a raggiungere la Loggia dei
Lanzi, in piazza della Signoria, e presso la statua del “Perseo con la testa di
Medusa” di Benvenuto Cellini, abbiamo aperto ognuno la nostra Divina Commedia
e, guidati dalla voce altisonante del nostro amico, abbiamo letto insieme le
sequenze drammatiche, umanissime del decimo canto.
Presto un nuovo appuntamento, nel centro
di Firenze, nel sestiere di Porta San Piero, per scoprire altre pagine
dell’arte e dell’umanità di Dante, con alcuni giorni per preparare a distanza ma
collegati online fra noi – in questo periodo di piena pandemia - il prossimo
percorso di visita.