Racconto “La poesia del Monte Athos”
Il viaggio al Monte
Athos gli apparve subito il modo giusto per superare il distacco da Diana, che
era partita, d’improvviso, per Lisbona. Preparò i bagagli e, in una mattina
uggiosa di pioggia, prese l’aereo per Atene. All’ufficio di Kiriès, al momento
dell’ingresso nella repubblica monastica, nella fila per ottenere il visto,
c’era davanti ad Omero un prete di Firenze. L’aveva incontrato sul battello che
ogni mattina lascia Ouranopolis, il piccolo porto greco sulla penisola
Calcidica, per portare i passeggeri al minuscolo porto di Dafne, da dove un
vecchio autobus raggiunge la capitale, Kiriès.

Più volte il prete
disse a Omero: “ Mi meraviglio che ti fermi solo per tre giorni, è un’occasione
persa. Io ci starò quindici giorni, visiterò i venti monasteri del Monte. Per
me che sono un prete, sarà facile.”. Da come si mostrava sicuro, sembrava che
tutti i monaci del Monte lo stessero aspettando. Quando fu davanti
all’impiegato, Omero assistette però a un duro scontro fra la Chiesa Cattolica
e la Chiesa Ortodossa. Il prete disse in un inglese improbabile, che voleva un
visto per quindici giorni. L’impiegato ribatté tre, battendo forte con il
timbro sul Diamonitirion, il
passaporto per l’ingresso nella repubblica dei monaci. Fu un urlare intercalato
dal rimbombo del timbro:
“Quindici giorni”,
“Tre”.
“Dieci”, “Tre”.
“Cinque”, “Tre”.
“Tre”, “Tre”.
Il prete prese con
rabbia il Diamonitirion e si
allontanò, in silenzio. A Omero furono accordati i tre giorni richiesti. La prima meta fu il Monastero di Vatopedi all’estremità
nord orientale della penisola, fondato nel lontano 972, nel luogo dove il
figlio dell’imperatore Teodosio, Arcadio, fu ritrovato salvo sulla spiaggia
dopo che era stato strappato dalle onde del mare in tempesta, durante la
navigazione fra Roma e Costantinopoli.
La marcia fu di quattro
ore sul sentiero che si snodava nella parte interna della penisola, con rare
tracce di viandanti, sprofondato nella macchia piena di profumi. In cima alla
prima collina gli venne fatto, come d’abitudine, di voltarsi per guardare la
fila dei compagni dietro di lui ma questa volta era veramente solo, con i suoi
pensieri.
Apparve d’improvviso il
complesso monastico di Vatopedi, adagiato al centro di un’ampia insenatura del
mare. Rimase fermo al margine della radura, a bocca aperta, a guardare le alte,
robuste mura disposte a triangolo, sommerse in alto da terrazze, loggiati,
balconi. Superò il portone di bronzo ed entrò nell’ampio cortile delimitato
all’intorno dagli edifici dipinti di rosso con al centro la grande chiesa a
croce greca, con la cupola sostenuta da quattro colonne di porfido.

Era per Omero
l’incontro con un mondo straordinario, dai tratti raffinati e preziosi e, allo
stesso tempo, con i segni di un’inarrestabile decadenza: le finestre delle
infinite celle erano come occhi neri, sgomenti, abitate una volta da centinaia
di monaci, ridotti oggi solo ad una decina di confratelli. Quegli occhi lo
seguivano nei suoi passi in punta di piedi, nel silenzio del cortile. Si fermò
alla portineria, dovette aspettare e dopo un bel po’ apparve il portàris, il monaco addetto ad
accogliere gli ospiti, dai modi sbrigativi, che registrò il suo nome dal Diamonitirion
e lo accompagnò nella foresteria, ad una delle celle, dove c’era lo spazio per
un rustico letto, una sedia e un tavolinetto, con i bagni in comune.

Erano le prime ore del pomeriggio e visitò in
piena libertà il convento. Scese il sentiero verso il piccolo porto dove due
monaci scaricavano da una barca fascine di legna e le accatastavano vicino alla
scogliera. Superata la tentazione di fare un meraviglioso bagno in quelle acque
trasparenti, salì più tardi alla chiesa
dove era iniziata la funzione religiosa. Fu invitato a cenni, con modi bruschi,
a non muoversi per la chiesa, a stare in disparte. Si fermò vicino ad una delle
pareti, affrescata nel Trecento da maestri macedoni, e dal suo punto
d’osservazione entrò, con emozione, nel mondo della liturgia ortodossa.
Nella chiesa non c’è
l’elettricità, le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri, fissi o
nelle mani dei monaci, il cui accendersi e spegnersi è anch’esso parte del
rito. Dalla cupola centrale pende, tenuto da lunghe catene, un lampadario
immenso a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La
corona è di rame, di bronzo, d’ottone scintillanti, alterna ceri e icone e
scende molto in basso, fin quasi ad essere sfiorato, proprio davanti
all’iconostasi, splendente d’ori e di pietre preziose, che delimita il sancta
sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.

La luce dava forma a
quella sorprendente scenografia, ma era il canto che dava vita alla scena:
canto a più voci, senza strumenti, che fluiva ininterrotto, ora robusto ora
sussurrato come marea che cresce e si ritrae. I cori guida in questa liturgia
sono due: un gruppo di monaci raccolto attorno al leggio di uno dei due
transetti, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie
il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. Quando il maestro cantore si
sposta dal primo al secondo coro, traversa la navata a passi veloci, il
mantello si gonfia come a formare due ali e sembra volare, come le note.

La suggestione che
provò Omero non fu minore quando visitò la vicina biblioteca, guidato dal
monaco bibliotecario, il viviofylax, che
conserva seicento manoscritti, gran parte su pergamena, antichi, libri
decorati, reliquie conservate in scrigni d’oro e d’argento tempestati di
zaffiri e rubini. Davanti a quelle meraviglie perse come il senso del tempo e
raggiunse il refettorio degli ospiti che la cena era stata già iniziata.
Intorno alla tavola vi
erano tre greci e due italiani davanti a fumanti scodelle di una profumata
zuppa di lenticchie. Fece appena in tempo a servirsi dalla pentola al centro
del tavolo, assaporare quattro cucchiate, che suonò la campana in fondo al
refettorio: la cena era terminata e gli ospiti, secondo la regola, si alzarono
e si avviarono verso la sala comune della foresteria.
Fra gli ospiti greci vi
era un giovane restauratore, Diomedos, che aveva studiato all’Opificio delle
Pietre Dure di Firenze e conservava quindi un fresco ricordo della vita della
città. Rompendo come l’incanto del luogo prese a parlare dei locali che di
solito frequentava, del carattere dei fiorentini e della bellezza delle ragazze
che aveva incontrato, dell’ammirazione che aveva per la squadra di calcio della
città. Omero rimase come disorientato da questi discorsi, cercò di tagliare
corto e conquistò presto la quiete assoluta della sua cella, per avere un
momento tutto suo, per rivivere le sensazioni straordinarie di quella giornata.

Si era appena
addormentato che fu svegliato da un assordante rumore di motori che arrivava
dal mare e dalla finestra, che si apriva sulla scogliera prospiciente il molo, un
faro proiettava una luce accecante sul soffitto della cella. Si affacciò alla
finestra e vide in basso due grossi motoscafi che si erano avvicinati al molo e
un gruppo d’uomini che, fra grandi urla, stavano passando delle casse da un
mezzo all’altro. Omero rimase sorpreso, sgomento. Che cosa pensare? Certamente
il Monte Athos non era una fortezza inviolabile e poteva essere violato da
trafficanti, contrabbandieri d’ogni genere, come nel passato da parte di truppe
mercenarie, di navi di pirati. Nessuna parte del nostro mondo si salva dalle
offese del nostro tempo.

Si svegliò presto al
mattino nel momento in cui erano
terminati i riti della notte e i monaci stavano rientrando nelle loro celle.
Decise di partire subito, si lavò, rifece lo zaino ma non ebbe il coraggio di
entrare nel bagno comune. Attraversò il cortile deserto, passò il portone di
bronzo e dietro il primo cespuglio che incontrò fuori dal prato che circondava
il convento, fece i suoi bisogni corporali, nella fresca brezza del mattino.
La meta era il
monastero di Stavronikita a statuto cenobitico, sulla costa orientale, fondato
nel XIII secolo. Il sentiero era a mezza costa, in continuo saliscendi, aperto
sul mare. Arrivò che erano appena le dieci al monastero, in alto su una roccia
sopra un’insenatura. Prima di arrivare aveva incontrato campi coltivati,
frutteti, recinti per gli animali, edifici per gli attrezzi della campagna,
senza alcuna presenza umana. Il complesso non aveva la forma nobile,
aristocratica di Vatopedi, ma un tono semplice, dimesso come di un luogo
dedicato al lavoro e alla preghiera.

Il monaco portinaio
portò direttamente Omero nel refettorio dove da qualche tempo era iniziato il
pranzo. I monaci, almeno una ventina, erano seduti intorno ad una grande
tavola, nella parte alta del refettorio, con vesti che erano chiaramente abiti
consunti, da lavoro; in basso vi erano gli ospiti, greci, tedeschi, italiani.
Gli fu fatto posto e, finalmente, saziò la sua fame, con una porzione d’ottimo
polpo al sugo innaffiata da un vino rosso niente male, e con abbondanti fette
di cocomero. L’atmosfera appariva cordiale, gli ospiti parlavano del loro
viaggio, di quello che avevano visto, delle prossime mete: la lingua naturale
per la conversazione era il latino.
Terminato il pranzo, al
momento dell’assegnazione delle camere agli ospiti scoppiò improvvisa, una
furibonda, interminabile discussione fra il monaco portinaio, il portàris, e l’addetto alla foresteria,
l’archondarikon, senza che si
riuscisse a capire il motivo di quello scontro.
Omero rimase sorpreso,
interdetto, fu questa scena o qualcosa che già coltivava dentro di sé, che lo
spinse ad uscire dal monastero e a saltare su un carro trainato da un trattore
diretto, su una strada squassata da profonde buche, al porto di Dafne. Doveva
aspettare un’ora per la partenza del battello per Ouranopolis. Entrò nella
caffetteria per prendere un caffè greco: ad un delle pareti troneggiava un
antidiluviano apparecchio telefonico. Gli balenò improvvisa l’idea di chiamare
Diana, a Lisbona.
Detto, fatto.
Racconto: R. M. - ---- -
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