giovedì 26 aprile 2018

La sensibilità delle piante alla Mostra di Palazzo Strozzi


E’ stata emozionante domenica 22 aprile, nella Giornata Mondiale della Terra,
la conoscenza e la partecipazione a Palazzo Strozzi, nel centro di Firenze, al The Florence Experiment, nuovo progetto dell’artista tedesco Carsten Höller e dello scienziato Stefano Mancuso


Si tratta di un esperimento che unisce arte e scienza e studia la sensibilità delle piante, l’interazione tra piante ed esseri umani.
L’impatto del visitatore con l’intervento è sorprendente, a iniziare dalla monumentalità della struttura innalzata nel cortile del Palazzo, uno dei più bei palazzi rinascimentali italiani, costruito su progetto di Benedetto da Maiano. E’ poi incredibile la possibilità da parte del visitatore di provare l’ebbrezza dell’esperimento lanciandosi nel ventre di un lunghissimo scivolo, di venti metri.
     
L’intento del progetto appare stupefacente, d’altra parte, per l’attenzione rivolta al mondo vegetale, una componente essenziale per la vita della Terra, oggi così acciaccata, così offesa. 



Su questo versante, è immediato il collegamento al recente “Manifesto del Terzo Paesaggio” di Gilles Clément, scienziato e scrittore, dedicato alla vegetazione che cresce liberamente negli spazi abbandonati dall’uomo.
             Nel Palazzo Strozzi s’innalzano, dunque, due monumentali scivoli che permettono ai visitatori una lunghissima discesa dal loggiato del secondo piano al cortile; negli spazi interni della Strozzina, si apre poi un laboratorio, collegato alla facciata del Palazzo. 


     I pannelli presenti alla Mostra – aperta dal 19 aprile al 26 agosto 2018 - ci informano che Carsten Höller è celebre per la sua riflessione tra arte, scienza e tecnologia con installazioni che creano un forte coinvolgimento del pubblico.  
     
Per The Florence Experiment collabora con Stefano Mancuso, fondatore della neurobiologia vegetale, che si occupa di studiare l’anima, o meglio, l’intelligenza delle piante, “analizzate come esseri complessi dotati di straordinaria sensibilità e in grado di comunicare con l’ambiente esterno attraverso i composti chimici che riescono a percepire ed emettere”.
    E’ utile richiamare due aspetti particolari del progetto, diviso in due parti. La prima parte, com’è stato detto, comprende i grandi scivoli presenti nel cortile: ogni settimana una parte dei visitatori, scelti in maniera casuale, intraprende la discesa portando con sé una pianta di fagiolo. Dopo la discesa, la pianta è consegnata a un team di scienziati che ne analizza i parametri foto sintetici e le molecole emesse come reazione alla discesa. 

     La seconda parte dell’esperimento, utilizza negli spazi della Strozzina, due sale cinematografiche: in una sala sono proiettate scene di film horror (come il “tremendo” Shining), nell’altra brani di film comici (Paolo Villaggio, Alberto Sordi …) . “La paura o il divertimento producono composti chimici volatili differenti” che, attraverso due condotti di aspirazione, sono trasportati alle piante presenti sulla facciata del Palazzo. “Qui potranno influenzare la crescita di piante di glicine rampicanti disposte su strutture a forma di Y: su un braccio dell’Y viene rilasciata “l’aria della paura”, sull’altro “l’aria  del divertimento”. 

       Partecipando all’esperimento domenica 22 aprile, il nostro pensiero è andato, com’è stato detto, al “Manifesto del Terzo Paesaggio” e alla nostra poesia che ne interpreta lo spirito, “ Cigli erbosi” (da: R. Mosi, “Navicello Etrusco. Per il mare di Piombino”, Edizioni Il Foglio, pag. 49):



Cigli erbosi




Al margine della città
i cigli erbosi della strada
i bordi dei campi dove nasce
un’erba strana, senza nome
l’aiuola dismessa, indecisa
sulla sua natura,
indefinita sul suo destino.
Zone libere
zone che sfuggono al nostro controllo,
meritano rispetto per la loro verginità
per la loro disposizione naturale all’indecisione.
La diversità
trova rifugio su il ciglio della strada
l’orlo dei campi, un acquitrinio
o un piccolo orto non più coltivato
un piazzale invaso da erbacce
o il margine di un’area industriale
laddove non ci sia l’intervento dell’uomo.
Residui dove nascono cose nuove,
idee nuove, forze nuove. No.
Potrebbero nascere
                                   ma non è detto che nascano.


      Per concludere , The Florence Experiment vale un viaggio a Firenze, per il suo intento, pienamente riuscito, a nostro avviso, “di proporre una riflessione sul rapporto tra esseri umani e piante, di creare una nuova consapevolezza sul modo in cui l’uomo vede, conosce e interagisce con un organismo vegetale, trasformando Palazzo Strozzi in uno spazio di sperimentazione scientifica e artistica sulle capacità comunicative ed emozionali di tutti gli esseri viventi “ (dal Documento illustrativo della Mostra).




domenica 22 aprile 2018

La Strega di Baratti scende dal "Navicello"

Chiesa di San Cerbone, Golfo di Baratti
Leggenda di San Cerbone condannato alla fossa degli orsi
che rende mansueti gli animali
La strega di Baratti

Dormiva nel suo sepolcro
catalogato S64 nel corso
degli scavi in riva ala mare,
alla Chiesa di San Cerbone.

Dormiva dal milletrecento
la testa adagiata sulla pietra,
alta di statura, di media età
di mestiere, filatrice.

Cinque chiodi, tre ricurvi
le avevano messo in bocca,
un rito magico, quando
era ancora fra i vivi.

Nove chiodi inchiodavano
il corpo al terreno, al cuore
alle gambe, ai piedi.
Avevano paura di lei.

Né il corpo né lo spirito
dovevano tornare tra i vivi.
Quella bocca doveva
tacere per sempre.

Dalla Raccolta "Navicello Etrusco", Edizioni Il Foglio

Dalla Postfazione dell'autore alla Raccolta, pag. 64:

"Seguiranno i tempi delle invasioni dei Goti e dei Longobardi e l’emergere della figura di San Cerbone, vescovo di questa terra (La fonte di San Cerbone)     Recenti ricerche archeologiche per individuare i resti della tomba del santo e della cattedrale sulle rive del golfo di Baratti, hanno fatto emergere,  presso l’attuale chiesetta di San Cerbone, un cimitero medievale con oltre trecento sepolcri: fra questi, due con i resti di due donne: l’una “segnata” da un sacchetto di diciassette dadi, gioco del diavolo, da osteria, infamante per una donna, forse messo nella tomba per indicare il mestiere di meretrice; l’altra, forse una strega, segnata da una serie di chiodi ricurvi nella bocca e da altri chiodi che la trafiggevano, per fissare corpo e spirito al terreno (La strega, Diciassette dadi). Una scoperta dunque che ci riporta a un’epoca denotata da riti magici e da una marginalizzazione della donna."





Scavo archeologico. I chiodi ricurvi


Scavo archeologico. Lo scheletro della "strega"











sabato 21 aprile 2018

Il "Navicello Etrusco" al Chiostro Grande all'Annunziata di Firenze


 
Si è tenuta dal 6 al 12 aprile la Mostra “Il Sogno nella Bibbia” curata dal critico Silvia Ranzi, presso il Chiostro Grande del Convento della S.S. Annunziata di Firenze. 

Il critico ha illustrato in maniera approfondita il tema del Sogno, cardine dell’iniziativa:
“Con l’avvento della Psicanalisi il sogno è stato definito la “via regia”
verso l’inconscio. Per la sua configurazione simbolica ed allegorica il Sogno conosce un filo diretto con le Arti visive del primo ‘900. 

Il sogno ha interpellato nella storia dell’uomo, fin dall’antichità, la ricerca del senso premonitore dell’esistere, indirizzando la sua visionarietà anche nel segno del Soprannaturale, quale veicolo di presagi e illuminazioni connessi all’equilibrio psicofisico dell‘individuo e al suo conseguente agire morale. Con C.G. Jung la materia onirica assurge a eredità degli archetipi di natura universale: dal destino individuale ai valori e ai rituali etico sociali che sostanziano i modelli di comportamento collettivi."  

Nei giorni della Mostra, l’11 aprile, si è tenuto un incontro molto partecipato sulla poesia, con raffigurazioni coreografiche, legato al tema “La parola poetica: profezia di senso”. 

 Fra i partecipanti all’incontro, Roberto Mosi ha presentato la poesia “La Sterpaia” tratta dalla recente raccolta “Navicello Etrusco”, Il Foglio Edizioni: un gruppo di operai senza lavoro, costruiscono un povero presepe sulla spiaggia, 
 con i resti di naufragi portati dal mare, davanti al fantasma dell’acciaieria di Piombino che si vede in lontananza, con gli altiforni spenti:

La spiaggia della Sterpaia (Dal "Navicello Etrusco")

La capanna, tronchi e rami
d’albero portati dal mare
tegole, embrici di un naufragio
sulla spiaggia della Sterpaia,
bagno del Nano Verde.
Il falò illumina il bambino
la mamma, Maria, giunti dalla Palestina
su un barcone di migranti.
Intorno il villaggio di sabbia
il disegno di strade e capanne
di animali in cammino
nel profumo di alghe e conchiglie
di pini e macchie sempre verdi.
Lontano le luci affacciate
sul golfo, stelle comete il volo
degli aerei in arrivo da oriente.

Spente le fiamme dell’alto forno.
Davanti a noi un ammasso
nero, scheletri e antenne
rugginose. Siamo il popolo
del non lavoro, portiamo
in dono al bambino
la rabbia per le sconfitte
per la vita ai margini del villaggio.

Dal largo del mare le orate
guardano stranite, costrette
nelle vasche d’allevamento
sospese sul gelo delle acque. 
Bagno "Il Nano Verde", spiaggia della "Sterpaia"

Il Nano Verde,la giacca
sonante di sonagli
batte le mani e sorride
dalla cima dei pini.


L’incontro di poesia “La parola poetica: profezia di senso”, che ha raccolto vivi applausi, è stato registrato da “Sesto Tv” con il video Youtube riportato all’indirizzo: https://youtu.be/03PYSJuLSZQhttps://youtu.be/03PYSJuLSZQ . L’intervento di Roberto Mosi, “La Sterpaia”, è quasi al termine del video (da 1:13.50 a 1:17.00). 





lunedì 16 aprile 2018

"Pagine della nostra vita": incontro di Sguardo e Sogno 18-4-2018 con Paola Lucarini e Michele Brancale - Da Eratoterapia una poesia per la Cupola del Brunelleschi



L'associazione culturale 'Sguardo e Sogno', in collaborazione con il consigliere delegato alla Cultura della Città Metropolitana, ha proposto giovedì 12 aprile 2018, nella Sala Oriana Fallaci di Palazzo Medici Riccardi – nel centro di Firenze, non lontano dalla splendida Cupola del Brunelleschi - l'incontro Pagine della nostra vita, promosso dalla presidente dell’associazione Paola Lucarini e introdotto da Michele Brancale
L’incontro ha visto la partecipazione – secondo una formula nuova, di notevole efficacia – di cinque autori che “si sono raccontati”, hanno parlato del loro rapporto vita-scrittura, hanno letto propri testi; di particolare interesse il dialogo finale con i presenti in sala, che ha dato luogo ad un approfondimento importante sulla parola poetica e sulla posizione della poesia nella cultura di oggi. 
Fra gli autori, Roberto Mosi ha parlato della sua attività di lavoro svolta nel Palazzo Medici Riccardi e nel vicino Palazzo Budini Gattai, della Regione, sovrastato dalla mole della Cupola del Brunelleschi, e ha letto una delle sue ultime poesie - dalla raccolta “Eratoterapia”, Ladolfi Editore - che esprime un sentimento 
 riconoscente per la bellezza che dà anima alla città di Firenze.
La Cupola
Conta le persone in fila
in piazza Duomo,
corre avanti e indietro.
La musica del violino
la insegue.
Conta gli scalini,
quattrocentosessanta,
per salire
al ballatoio, alla volta
affrescata dal Vasari.
Conta i diavoli
del Giudizio Universale.
Le bocche spalancate
divorano schiere
ignude di dannati.
Conta affannata
i gradini dell’ultima
rampa
avvolta fra le ali
della Cupola.
Conta dalla balaustra
ai piedi della Lanterna,
i luoghi della sua vita
nel paesaggio di strade
e colline.
Chiama al telefono,
allegra, la mamma.
  







domenica 15 aprile 2018

Proust alla partita Juventus - Real Madrid

Disegno di Enrico Guerrini

 L’ELIMINAZIONE DALLA CHAMPIONS/1 : "Sole 24 del 13 aprile 2018"
.
“Real-Juventus, lo strano caso del signor Buffon (spiegato con Proust)”

Gira che ti rigira, il tema è sempre il solito: andarsene con stile. Gianluigi Buffon, il più grande portiere della storia del calcio italiano, al termine di Real Madrid-Juventus, quella che probabilmente sarà la sua ultima partita di livello internazionale, avrebbe potuto ispirarsi ad Alex Del Piero, altro grande campione bianconero che, tra gli applausi, lasciò con una sconfitta. E invece ha preferito un’uscita di scena degna di un altro (ex) fuoriclasse juventino, Zinedine Zidane, che per paradosso sedeva sulla panchina della squadra che aveva di fronte. «Colpo di testa» (plastico quello di Zizou, metaforico quello di Gigi), espulsione, tante polemiche.
Non ci appassiona la dialettica da bar dello sport, l’«era rigore/non era rigore», processi, appelli e ricorsi che pure fecero grande la televisione pallonara degli anni Ottanta e Novanta. Qui ci preme un altro principio, quello espresso nel dopo partita da Buffon con una nitidezza espositiva che neanche Socrate nel Critone. Frasi pronunciate a caldo nella mixed zone del Santiago Bernabeu contro l’arbitro inglese Michael Oliver, colpevole di aver concesso in pieno recupero ai merengues il calcio di rigore che vanificherà l’epica rimonta juventina, fissando il risultato sull’1-3. E successivamente di aver mostrato il cartellino rosso al Gigi Nazionale che non se ne faceva capace.
“Non so se lo ha fatto per un suo vezzo e per mancanza di personalità, ma un essere umano non può decretare l’uscita di una squadra. Uno così al posto del cuore ha un bidone d’immondizia ”

Eccovi le parole del più volte candidato al Pallone d’oro: «Non so se lo ha fatto per un suo vezzo e per mancanza di personalità, ma un essere umano non può decretare l’uscita di una squadra. Uno così al posto del cuore ha un bidone d’immondizia. Se non puoi stare in campo in una partita simile, te ne stai in tribuna con moglie e figlia. Non sapeva dove si trovava, non sapeva quali squadre si affrontassero, non conosceva i calciatori in campo, non sapeva un c... Il Real ha meritato, ma l’arbitro doveva avere la sensibilità per capire il disastro che stava facendo. Non può permettersi di rovinare un’impresa epica».

                          La filosofia del diritto (sportivo)
Passi per la terminologia colorita, quella sì da bar dello sport, ciò che conta è che il direttore di gara, per il capitano della Juventus fuori dalla Champions e della Nazionale italiana di calcio fuori da Russia 2018, si è comportato da «animale», perché avrebbe dovuto avere «la sensibilità di capire che in quel momento doveva passarmi qualsiasi cosa. Perché tu stai commettendo un crimine contro l’umanità sportiva (sic!) e quindi ti prendi pure le due paroline che ti devi prendere». Tra innumerevoli iperboli, Buffon lancia parole come pietre che potrebbero valere un saggio breve di filosofia del diritto (sempre sportivo, eh). Che ha da fondarsi su tre principi. Questi.
Teoria e tecnica della sudditanza arbitrale
Uno: è vero che esiste un regolamento del giuoco del calcio, ma deve essere interpretato a seconda delle situazioni. Perché la sudditanza psicologica dell’arbitro, stando alla lucida analisi di Gigi, non è un pettegolezzo ma addirittura una scienza. Un calcio in petto in area può essere rigore oppure no, dipende dalle squadre che si affrontano. L’arbitro, sottolinea Buffon, «non sapeva quali squadre si affrontassero, non conosceva i calciatori in campo». Alla Cremonese, in una partita di serie B, un rigore contro così lo fischi. Alla Juve ai quarti di finali di Champions giammai.
Non s’interrompe un’emozione
Due: un’impresa sportiva va tutelata a tutti i costi, anche a discapito del regolamento. O se preferite, per citare lo slogan di una campagna referendaria che non si concluse proprio benissimo per la parte politica che la sosteneva, «non si interrompe un’emozione». La Juve, con lo 0-3 e i tempi supplementari alle porte

Non s’interrompe un’emozione
Due: un’impresa sportiva va tutelata a tutti i costi, anche a discapito del regolamento. O se preferite, per citare lo slogan di una campagna referendaria che non si concluse proprio benissimo per la parte politica che la sosteneva, «non si interrompe un’emozi
politica che la sosteneva, «non si interrompe un’emozione». La Juve, con lo 0-3 e i tempi supplementari alle porte, stava facendo un’impresa sportiva, roba degna dell’omerico storytelling di Federico Buffa. E dunque chi sarà mai questo Oliver per «rovinare un’impresa epica»? Vallo a spiegare a Rummenigge che, contro i Rangers, si vide annullare un gol in rovesciata bello almeno quanto quello fatto da Cristiano Ronaldo all’andata. Per gioco pericoloso. Succede, quando l’arbitro ha il vezzo di giudicare in punta di regolamento.
In guerra e in amore tutto è lecito
Tre: l’arbitro, «se è uomo», deve fare esercizio di tolleranza giacché in guerra e in amore, come diceva mia nonna, tutto è lecito. Figurarsi ai quarti di finale di Champions. In pieno recupero concedi il rigore che cambierà le sorti della partita? Poco importa se il fallo c’è, tu «ti prendi pure le due paroline che ti devi prendere». Io protesto e tu mi mostri il cartellino rosso? Non è sportivo, caro Oliver, anzi: «al posto del cuore» hai «un bidone d’immondizia».

La lezione di Marcel Proust
Alla luce dei principi della nuova filosofia del diritto sportivo compilata dal signor Buffon, potremmo inserire tra i libri di testo del corso per l’ottenimento del patentino d’arbitro i sette volumi di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. I futuri fischietti d’ora in poi dovranno orientarsi con lo stesso metro di giudizio del personaggio del dottor Cottard, medico la cui bravura era direttamente proporzionale alla rilevanza sociale del paziente che aveva in cura. Per lui il raffreddore di un aristocratico valeva molto di più dell’infarto di un cameriere. Statene certi: uno così un rigore al 97esimo contro la Juventus non lo avrebbe mai fischiato. Mica è una Cremonese qualsiasi.


domenica 8 aprile 2018

La poesia del Monte Athos



Racconto “La poesia del Monte Athos”
 Il viaggio al Monte Athos gli apparve subito il modo giusto per superare il distacco da Diana, che era partita, d’improvviso, per Lisbona. Preparò i bagagli e, in una mattina uggiosa di pioggia, prese l’aereo per Atene. All’ufficio di Kiriès, al momento dell’ingresso nella repubblica monastica, nella fila per ottenere il visto, c’era davanti ad Omero un prete di Firenze. L’aveva incontrato sul battello che ogni mattina lascia Ouranopolis, il piccolo porto greco sulla penisola Calcidica, per portare i passeggeri al minuscolo porto di Dafne, da dove un vecchio autobus raggiunge la capitale, Kiriès. 

Più volte il prete disse a Omero: “ Mi meraviglio che ti fermi solo per tre giorni, è un’occasione persa. Io ci starò quindici giorni, visiterò i venti monasteri del Monte. Per me che sono un prete, sarà facile.”. Da come si mostrava sicuro, sembrava che tutti i monaci del Monte lo stessero aspettando. Quando fu davanti all’impiegato, Omero assistette però a un duro scontro fra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa. Il prete disse in un inglese improbabile, che voleva un visto per quindici giorni. L’impiegato ribatté tre, battendo forte con il timbro sul Diamonitirion, il passaporto per l’ingresso nella repubblica dei monaci. Fu un urlare intercalato dal rimbombo del timbro:
“Quindici giorni”, “Tre”.
“Dieci”, “Tre”.
“Cinque”, “Tre”.
“Tre”, “Tre”. 

Il prete prese con rabbia il Diamonitirion e si allontanò, in silenzio. A Omero furono accordati i tre giorni richiesti.  La prima meta fu il Monastero di Vatopedi all’estremità nord orientale della penisola, fondato nel lontano 972, nel luogo dove il figlio dell’imperatore Teodosio, Arcadio, fu ritrovato salvo sulla spiaggia dopo che era stato strappato dalle onde del mare in tempesta, durante la navigazione fra Roma e Costantinopoli.
 La marcia fu di quattro ore sul sentiero che si snodava nella parte interna della penisola, con rare tracce di viandanti, sprofondato nella macchia piena di profumi. In cima alla prima collina gli venne fatto, come d’abitudine, di voltarsi per guardare la fila dei compagni dietro di lui ma questa volta era veramente solo, con i suoi pensieri.
Apparve d’improvviso il complesso monastico di Vatopedi, adagiato al centro di un’ampia insenatura del mare. Rimase fermo al margine della radura, a bocca aperta, a guardare le alte, robuste mura disposte a triangolo, sommerse in alto da terrazze, loggiati, balconi. Superò il portone di bronzo ed entrò nell’ampio cortile delimitato all’intorno dagli edifici dipinti di rosso con al centro la grande chiesa a croce greca, con la cupola sostenuta da quattro colonne di porfido. 


Era per Omero l’incontro con un mondo straordinario, dai tratti raffinati e preziosi e, allo stesso tempo, con i segni di un’inarrestabile decadenza: le finestre delle infinite celle erano come occhi neri, sgomenti, abitate una volta da centinaia di monaci, ridotti oggi solo ad una decina di confratelli. Quegli occhi lo seguivano nei suoi passi in punta di piedi, nel silenzio del cortile. Si fermò alla portineria, dovette aspettare e dopo un bel po’ apparve il portàris, il monaco addetto ad accogliere gli ospiti, dai modi sbrigativi, che registrò il suo nome dal Diamonitirion e lo accompagnò nella foresteria, ad una delle celle, dove c’era lo spazio per un rustico letto, una sedia e un tavolinetto, con i bagni in comune.
 Erano le prime ore del pomeriggio e visitò in piena libertà il convento. Scese il sentiero verso il piccolo porto dove due monaci scaricavano da una barca fascine di legna e le accatastavano vicino alla scogliera. Superata la tentazione di fare un meraviglioso bagno in quelle acque trasparenti, salì  più tardi alla chiesa dove era iniziata la funzione religiosa. Fu invitato a cenni, con modi bruschi, a non muoversi per la chiesa, a stare in disparte. Si fermò vicino ad una delle pareti, affrescata nel Trecento da maestri macedoni, e dal suo punto d’osservazione entrò, con emozione, nel mondo della liturgia ortodossa.
Nella chiesa non c’è l’elettricità, le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri, fissi o nelle mani dei monaci, il cui accendersi e spegnersi è anch’esso parte del rito. Dalla cupola centrale pende, tenuto da lunghe catene, un lampadario immenso a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, d’ottone scintillanti, alterna ceri e icone e scende molto in basso, fin quasi ad essere sfiorato, proprio davanti all’iconostasi, splendente d’ori e di pietre preziose, che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti. 

La luce dava forma a quella sorprendente scenografia, ma era il canto che dava vita alla scena: canto a più voci, senza strumenti, che fluiva ininterrotto, ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae. I cori guida in questa liturgia sono due: un gruppo di monaci raccolto attorno al leggio di uno dei due transetti, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. Quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro, traversa la navata a passi veloci, il mantello si gonfia come a formare due ali e sembra volare, come le note.
La suggestione che provò Omero non fu minore quando visitò la vicina biblioteca, guidato dal monaco bibliotecario, il viviofylax, che conserva seicento manoscritti, gran parte su pergamena, antichi, libri decorati, reliquie conservate in scrigni d’oro e d’argento tempestati di zaffiri e rubini. Davanti a quelle meraviglie perse come il senso del tempo e raggiunse il refettorio degli ospiti che la cena era stata già iniziata.
Intorno alla tavola vi erano tre greci e due italiani davanti a fumanti scodelle di una profumata zuppa di lenticchie. Fece appena in tempo a servirsi dalla pentola al centro del tavolo, assaporare quattro cucchiate, che suonò la campana in fondo al refettorio: la cena era terminata e gli ospiti, secondo la regola, si alzarono e si avviarono verso la sala comune della foresteria.
Fra gli ospiti greci vi era un giovane restauratore, Diomedos, che aveva studiato all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e conservava quindi un fresco ricordo della vita della città. Rompendo come l’incanto del luogo prese a parlare dei locali che di solito frequentava, del carattere dei fiorentini e della bellezza delle ragazze che aveva incontrato, dell’ammirazione che aveva per la squadra di calcio della città. Omero rimase come disorientato da questi discorsi, cercò di tagliare corto e conquistò presto la quiete assoluta della sua cella, per avere un momento tutto suo, per rivivere le sensazioni straordinarie di quella giornata. 

Si era appena addormentato che fu svegliato da un assordante rumore di motori che arrivava dal mare e dalla finestra, che si apriva sulla scogliera prospiciente il molo, un faro proiettava una luce accecante sul soffitto della cella. Si affacciò alla finestra e vide in basso due grossi motoscafi che si erano avvicinati al molo e un gruppo d’uomini che, fra grandi urla, stavano passando delle casse da un mezzo all’altro. Omero rimase sorpreso, sgomento. Che cosa pensare? Certamente il Monte Athos non era una fortezza inviolabile e poteva essere violato da trafficanti, contrabbandieri d’ogni genere, come nel passato da parte di truppe mercenarie, di navi di pirati. Nessuna parte del nostro mondo si salva dalle offese del nostro tempo.

Si svegliò presto al mattino  nel momento in cui erano terminati i riti della notte e i monaci stavano rientrando nelle loro celle. Decise di partire subito, si lavò, rifece lo zaino ma non ebbe il coraggio di entrare nel bagno comune. Attraversò il cortile deserto, passò il portone di bronzo e dietro il primo cespuglio che incontrò fuori dal prato che circondava il convento, fece i suoi bisogni corporali, nella fresca brezza del mattino.
La meta era il monastero di Stavronikita a statuto cenobitico, sulla costa orientale, fondato nel XIII secolo. Il sentiero era a mezza costa, in continuo saliscendi, aperto sul mare. Arrivò che erano appena le dieci al monastero, in alto su una roccia sopra un’insenatura. Prima di arrivare aveva incontrato campi coltivati, frutteti, recinti per gli animali, edifici per gli attrezzi della campagna, senza alcuna presenza umana. Il complesso non aveva la forma nobile, aristocratica di Vatopedi, ma un tono semplice, dimesso come di un luogo dedicato al lavoro e alla preghiera. 

Il monaco portinaio portò direttamente Omero nel refettorio dove da qualche tempo era iniziato il pranzo. I monaci, almeno una ventina, erano seduti intorno ad una grande tavola, nella parte alta del refettorio, con vesti che erano chiaramente abiti consunti, da lavoro; in basso vi erano gli ospiti, greci, tedeschi, italiani. Gli fu fatto posto e, finalmente, saziò la sua fame, con una porzione d’ottimo polpo al sugo innaffiata da un vino rosso niente male, e con abbondanti fette di cocomero. L’atmosfera appariva cordiale, gli ospiti parlavano del loro viaggio, di quello che avevano visto, delle prossime mete: la lingua naturale per la conversazione era il latino.
 Terminato il pranzo, al momento dell’assegnazione delle camere agli ospiti scoppiò improvvisa, una furibonda, interminabile discussione fra il monaco portinaio, il portàris, e l’addetto alla foresteria, l’archondarikon, senza che si riuscisse a capire il motivo di quello scontro.
Omero rimase sorpreso, interdetto, fu questa scena o qualcosa che già coltivava dentro di sé, che lo spinse ad uscire dal monastero e a saltare su un carro trainato da un trattore diretto, su una strada squassata da profonde buche, al porto di Dafne. Doveva aspettare un’ora per la partenza del battello per Ouranopolis. Entrò nella caffetteria per prendere un caffè greco: ad un delle pareti troneggiava un antidiluviano apparecchio telefonico. Gli balenò improvvisa l’idea di chiamare Diana, a Lisbona.
Detto, fatto. 



Racconto: R. M. - ---- -     LINK: www.robertomosi.it