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Poesia e fotografia
Roberto Mosi
(a. Incontro
17 febbraio al Punto di Lettura dell’Isolotto a cura dell.ass. Semicerchio; b.
Testo per il n. 518/2018 di Testimonianze, in corso di stampa)
E’ senza
dubbio affascinante considerare la relazione fra poesia e immagine, per mettere
in luce i collegamenti, rendere visibili le comunanze, le correlazioni e i
legami. Fin dall’antichità si praticava la forma poetica dell’ècfrasi, ossia la
descrizione poetica e celebrativa di un’opera d’arte visiva; un celebre esempio
di ècfrasi è la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade, importante
anche in veste di documento archeologico e storico artistico, in quanto nello
scudo sono descritte le città greche studiate dagli archeologi.
Lo scrittore
greco Luciano di Samosata del II secolo d.C. fu un precursore della critica
d’arte con le sue descrizioni e interpretazioni di opere d’arte visive. A fine Quattrocento gli intellettuali dei
cenacoli fiorentini si occuparono di studiare e tradurre l’opera di questo
scrittore e nel Cinquecento dettero impulso alla vera e propria critica storica
attraverso la descrizione dei capolavori artistici. A questo proposito è
fondamentale l’opera del Vasari, nelle Vite
le descrizioni di opere d’arte acquistano nuovo spazio e nuovo ruolo, grazie ad
esse possiamo, infatti, ricostruire e rintracciare opere del passato (Gianna
Pinotti, I colori delle emozioni, in
“Testimonianze”, 2017 n. 4 (514), pagg. 107-110).
Nell’ambito
di questo tipo di riflessione, avvicinandosi alla nostra epoca, appare
importante riferirsi al pensiero di Baudelaire (C. Baudelaire, “Mon coeur mis à
nu”, Oeuvres completes, Gallimard,
Paris 1975), poeta della modernità, che “chiarisce quanto l’immagine possa
essere uno dei cardini dell’ispirazione, quasi una preziosa sorgente da cui è
possibile recuperare, distillare parole per scolpire il volere del poeta stesso:
“Glorifier le culte des images (ma grande, mon unique, ma primitive passion)”.[1]
C’è come una
supremazia visiva che agisce sul poeta ed è così anche in Giacomo Leopardi: “Vedere”
è per Leopardi come per Baudelaire, la matrice da cui trarre, oltre che piacere
personale, il raccolto d’immagini fondamentale per l’opera del poeta (G.
Leopardi, Pensiero n. 1118, in Zibaldone,
Roma, Newton Compton, 2001).
“L’occhio del
poeta ha da sempre la capacità di saper leggere dentro la luce, dentro i
colori, la forma, la prospettiva di un’azione o nel movimento, così come nel
tempo, per tradurre poi ogni entità in un mondo di parole”. [2] La guida del poeta sono
quelle “prunelles ardentes” che lo stesso Baudelaire attribuiva ai poeti, a
quei loro occhi sempre aperti e capaci di familiarizzare con ogni forma
sensibile, con il buio e con la luce.
Italo Calvino
nella lezione sulla “Visibilità” (Lezioni
Americane, Garzanti, 1988) afferma che le immagini nascono prima delle
parole e incombono sull’artista e sul poeta come una sorta di pioggia “prima
sotto forma di bassorilievi che sembrano muoversi e parlare, poi come visioni
proiettate davanti ai suoi occhi, come voci che giungano al suo orecchio, e
infine come immagini puramente mentali”.
La voce dei poeti nasce dalla visione, dai loro occhi, aperti o chiusi
che siano, in continuo dialogo con l’io sotteso che tradurrà a un pubblico il
pensato (G. Patrizi, Narrare l’immagine.
La tradizione degli scrittori d’arte, Donzelli 2000).
Certamente
nel Novecento il rapporto fra immagine e poesia è sempre più centrale, con il
netto predominio della dimensione visiva è ormai al suo apice. Nella
letteratura la ricerca si è sempre mossa in molteplici dimensioni, nel solo
linguaggio non si è mai potuta sedare la sete della spiegazione. L’intreccio
fra generi artistici diventa sempre più stretto nel Novecento, è ancor più
saldo e il rapporto tra la poesia e l’immagine.
Nell’attenzione che il poeta ha per il mondo reale, compare
alla fine del XIX secolo una nuova presenza: l’elettricità che cambia la
potenzialità dello sguardo ed esercita una grande influenza nella vita quotidiana
dell’uomo. Dal momento in cui l’illuminazione si diffonde nelle strade della
città, sia all’esterno che all’interno delle case, il poeta si trova ad
affrontare un nuovo mondo visibile; non è quindi la notte leopardiana ma quella
campaniana, dove la città è illuminata continuamente come un teatro.
Vediamo in Dino Campana (Pei
vichi fondi tra il palpito rosso, in “Inediti”, Vallecchi, 1942) quest’attenzione
per l’elettricità:
… Nel
silenzio caldissimo ambiguo
Della notte
voluttuosa
Scuotevasi
il mare profondo:
Era caldo il
silenzio sullo sfondo
Le navi
inermi, drizzate in balzi
Terrifici al
cielo
Allucinate
in aurora
Elettrica
inumana risplendente
Alla poppa
per l’occhio incandescente …
Vediamo in Amelia
Rosselli (Le poesie, Garzanti, 2007,
p. 266).
E l’aria era
calda e umida e scottante e i miei occhi pieni
di grata
febbre.
I miei occhi
pieni di grattacieli! Ed il tuo occhioo
sornione che
guida la macchina della velocità per
i ritrovi
fangosi della tua tarda età. E la mia
gioventù che
forse è più scaltra della tua abile
macchina
fotografica.
La tecnica
irrompe in modo prepotente nella vita dell’uomo del Novecento e la Rosselli
richiama uno strumento che rivoluziona il rappresentabile, la macchina
fotografica. “Se la luce ha cambiato il visibile del mondo, sarà la fotografia
a cambiare definitivamente la sua rappresentazione. Il poeta si trova, per
altro verso, a misurarsi con l’immagine fotografica che ha la capacità di
condurre all’immediatezza la rappresentazione stessa della realtà, a differenza
della pittura.” [3]
Il lampo di tempo dello scatto fotografico si può identificare con l’istante in
cui tutto il rappresentabile è stato catturato con un colpo di luce: il segreto
della fotografia è che il momento dell’ispirazione e quello del rappresentato
coincidono. Poeta e fotografo si osservano, arrivano a scoprire che i loro
mezzi espressivi, in una certa misura, sono simili.
Il poeta
coglie questo cambiamento, l’accelerazione dei tempi, impara, in sintonia con
il fotografo, a cogliere il lampo dell’attimo, il respiro del momento,
all’aprirsi e al chiudersi del diaframma: meccanismo che consente, in
definitiva, di scrivere con la luce, incidendo ora sulla pellicola ora sui
supporti digitali (Yves Bonnefoy, Poesia
e fotografia, O Barra O Edizioni,
2015).
Emerge netta
la consapevolezza che queste nuove dinamiche incidono sulla stessa lingua
poetica, portano a considerare la lingua come un materiale di sillabe e ritmo,
il singolo verso, la singola parola hanno la luce di un lampo.
Si veda di
Dino Campana, la celebre composizione “Batte Botte” (Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, Einaudi
2003, p. 60).
“Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quai)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città …
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte.”
“La singola parola,
la singola sillaba, diventa così centrale in quello che è il tentativo di rappresentazione
poetica”[4] . Si può dire che in
questa poesia di Campana sono intrecciati e amalgati in un corpo unico, tutti
gli aspetti e tutte le potenzialità delle parole ed emerge la contemporaneità
di “visto” e “rappresentato” propria della rappresentazione fotografica. Il
poeta interviene sulla narrazione, questa diviene movimento, icona e parola.
Appare
naturale il passaggio a Giuseppe Ungaretti e a uno dei versi più celebri di
tutta la letteratura del Novecento. Si veda il suo “M’illumino / d’immenso”, in
cui la poesia e la modernità si confrontano: l’io, la luce e l’universo (Mattina da Allegria di Naufragi, 1919).
“Il poeta
raccoglie ed esprime tramite l’attimo e l’essere nella luce, il valore di un
singolo momento a scapito di tutti gli altri, trasfondendo anche nel
linguaggio, questo procedere per lampi, in una nuova ritmicità, al di fuori di
una narratività descrittiva. E’ una parola che vive di se stessa e per se
stessa, si fa cioè oggetto, soggetto ed esperienza come estratta da un lungo
frasario quotidiano ed eletto, restituita al valore di se stessa, mostrando al
contempo una pluralità di prospettive.”. Se prima il poeta era uno specchio in
cui raggruppare la visione, “ora vediamo la parola rompersi, lo specchio del
poeta cadere e farsi frammento di luce e immagine spoglia, distante,
destabilizzante, contrastante, lontana da una narratività, e volutamente
straniante per raccogliere diverse prospettive in una sorta di
superappresentazione, in una visione contemporanea di tutte le prospettive.”[5]
Credo di
poter verificare nella mia esperienza di fotografo e di poeta e nell’impegno
che dedico nella collaborazione con alcuni pittori, le considerazioni fin qui
illustrate. L’occhio, lo sguardo vigile e tutti gli altri sensi rivolti al recupero
delle sensazioni, alla maniera di Proust, rappresentano il passaggio centrale
per fissare in parole, in immagini, la vita che ci circonda. Una premessa
naturale a questa esperienza, è la conoscenza che ho potuto approfondire delle
opere di Gabriella Maleti[6], poetessa e fotografa,
autrice di video-film, documentari e video d’arte. Un recente numero della
rivista L’area di Broca (n. 102-103
del 2016) introduce alla figura di Gabriella Maleti e alle sue opere. Fra
queste la raccolta poetica “Vecchi corpi”
illustrata da tenere immagini dei volti delle ospiti, e della vita quotidiana,
di un Istituto per anziani, a Milano. E’ stato scritto sulla raccolta “E’ lo
sguardo dell’autrice a essere poetico, a fare sgorgare da quei volti, dai
gesti, dalla malattia, … dalle lacrime, una purezza, un’innocenza animale,
infantile.” Dai versi, dalle fotografie emerge “una tenerezza che nasce
dall’autentica empatia con la quale aderisce alle cose e alle creature, e fa sì
che anche nella disperazione e nella prossimità accecante della morte compaia
un sorso di luce.” [7]
E’ proprio il
motivo della luce uno dei due elementi che ho cercato di approfondire – e
fissare nella poesia e nelle immagini fotografiche – nel mio pellegrinare con
la macchina fotografica e il blocco degli appunti in mano, per le vie della
città di Firenze. Il tema della luce, del variare del tono della luce nelle ore
della giornata, che veste di vesti sempre nuove gli oggetti, il paesaggio che
ci circonda, ci stimola, suscita emozioni diverse, da cogliere sui due
versanti, del comporre e del fotografare. A questo riguardo è da dire che il
poeta “educa” il fotografo e il fotografo “educa” il poeta.
Il secondo
motivo della mia ricerca riguarda il tema del movimento, delle dinamiche del
mondo e dei mondi che ci circondano e la capacità di cogliere la scansione
delle frazioni del tempo che vengono a comporre il racconto della vita
quotidiana: nella successione dei fotogrammi della pellicola, la successione
delle immagini pensate e scritte.
Vari capitoli
dell’e-book “Firenze, foto grafie” (Nonluoghi, Firenze riflessa, Moda e oltre, Myth
in Florence)[8]
mostrano la ricerca del fotografo condotta nelle varie ore del giorno e della
notte in luoghi particolari del centro e delle periferie: i vestiti in mostra,
i manichini, gli stessi monumenti riflessi nelle vetrine dei negozi, acquistano
una “vita” diversa, ora sembrano immobili, ora in movimento. I versi che più
volte accompagnano queste immagini, seguono con ogni evidenza la vivacità o la
“pigrizia” dello sguardo che fissa le immagini con la macchina fotografica e
colgono anche momenti di alienazione e di solitudine.
Nell’immaginazione del poeta un
personaggio particolare, un giullare, si aggira per le strade di Firenze.
Gioca con
grafie di luce
il Giullare
apparso dal nulla
la testa
coronata di fiori.
Gira per la
città la camera
Lumix a
tracolla sonagli
sulla giubba
cattura fotografie
in
successione ripartite
per le ore
del giorno.
…
Innamorato
dei personaggi
delle
vetrine, sceglie la notte
per
incontrarli. Il Giullare
li fotografa
da lontano cercando
di
sorprenderli al naturale.
-----
Prepara
percorsi fra le vetrine
nella
irrealtà riflessa in frammenti.
Strani
incontri, manichini
abbracciano
solenni monumenti
le gambe
affusolate di una modella
entrano
dentro Palazzo Vecchio
fra gli
smoking pronti per una serata
elegante
l’ombra del Battistero.
Il poeta–fotografo
è immerso in un paesaggio particolare, pieno di stimoli, di segni impressi
dalla storia, affollato da turisti provenienti da tutto il mondo, sempre in
movimento, ora in gruppo ora dispersi. Sente di aver bisogno di ricorrere a
molteplici mezzi espressivi, di registrazione, per imprimere nella memoria,
sulla carta, nella macchina fotografica, le scene che via via si dipanano
davanti al suo sguardo. Avverte l’esigenza di essere rapido nel suo lavoro, di
sapere cogliere il valore dell’istante in sintonia con il mutare delle
situazioni. Fra gli esempi possibili, riferiti al capitolo “Firenze calpestata” della raccolta “Firenze, foto grafie”, vi è il turista,
pantaloni di seta a pois, scarpe di una forma improbabile, che calpesta la
lapide in ricordo del rogo del Savonarola in piazza della Signoria; intorno a
lui vari personaggi che la poesia – e le fotografie – colgono in posizioni
sorprendenti.
Dalla lapide
emerge il Frate
pantaloni
neri a pois, incontra
personaggi
felici la ragazza
muove un
passo, scarpe rosa
incrociate
un piccione
la raggiunge
la coppia
di vigili
urbani allegra
trascende in
un giro di valzer …
Questa
ricerca si avvale del patrimonio di preziose esperienze realizzato dal gruppo
di “Poesia visiva”che ebbe validi rappresentanti, negli anni sessanta, specie
nell’area fiorentina, a partire da Eugenio Miccini. Nell’e-book “Pittopoesia”, pubblicato con “Segreti di
Pulcinella”[9] sono raccolte alcune delle
opere realizzate, frutto dell’incontro fra poesie e fotografia (e, in alcuni casi, del disegno e della
pittura[10]). In queste opere
l’attenzione del fotografo, più che all’immagine “unica” nella forma, è rivolta
al racconto di storie della nostra epoca o a richiami a un illustre passato.
Accade che a volte l’immagine si divida in frammenti o lasci spazio al disegno
del pittore: si veda l’opera “Ogni sera
Dante ritorna a casa”, con le figure del sommo poeta e di Virgilio che si
aggirano per le strade del centro di Firenze, a volte sorprese dall’improvviso
apparire di torme di diavoli. In un’opera-racconto di un incontro di poeti, le
immagini raccolte rinviano alla celebrazione del dio Narciso più che della
divina Erato.
Erato guarda
dall'alto,
le mani nei
capelli,
il pubblico
adorante
sull'aia
della casa.
Maria
sospira d'amore
Anna alza il
braccio al cielo
Miriam si
tormenta le mani
Fosca è
piena d'allegria
Gianna
gesticola parole
Lucio
stravolge gli occhi
Lelio canta
lugubre la morte.
Erato
volge la testa,
le mani nei
capelli,
verso le
ombre
della notte.
Un’opera-racconto
“Narrare la non paura” dedica nove
immagini a ricordare all'indomani dell'eccidio presso Rouen di don Jacques
Hamel, ucciso mentre era all'altare per celebrare la Messa, l’incontro fra
sacerdoti e una delegazione di musulmani intorno all’altare del Duomo, mentre,
all’esterno, un automezzo militare presidiava la porta della Cattedrale e una
pattuglia di soldati vigilava sulla folla dei turisti. In un’altra opera
infine, il poeta-fotografo sempre con le vesti del giullare con la macchina
fotografica a tracolla, s’immerge, nella realtà sconvolgente dei cantieri che
hanno stravolto la città e con uno sguardo vigile, vibrante, dalla doppia
valenza espressiva, ci arricchisce d’immagini e di emozioni.
Cavaliere
errante nella città
in sella al
ronzino, sopra
i gas di
scarico la testa eretta,
si scontra
con le greggi
dei penduli
cellulari,
con le
mandrie dei turisti,
Corre sul
cavallo lungo
mostruosi
cantieri,
ruotano
mulini a vento
svettano
aeree trivelle
occhieggiano
cavità
di polveri
fumanti.
Cantieri
officine
della città,
dei futuri
nonluoghi, crogiolo
di
solitudini urbane.
Il paesaggio
che avvolge
il cavaliere
solitario.
L’alleanza
tra lo sguardo del poeta e lo sguardo del fotografo può sostenere l’avvento di
tempi nuovi? Un tempo nuovo è possibile nell’epoca delle immagini affollate,
disseminate, consumate? Perché questo sia possibile, è forse necessario uno
sguardo che sappia vivere con empatia la città, catturare la bellezza del mondo
nell’istante ma sappia silenziosamente preservarla e custodirla.
[1]
Si veda: Nicolò Cecchella e Emanuela Nanni, Poesia
contemporanea e fotografia, capoverso 2, in “Cahier d’études italiennes”,
pagg. 147-177. In linea, consultazione gennaio 2018.
[2] Ibidem,
capoverso 5.
[3]
Ibidem, capoverso 25.
[4]
Ibidem, capoverso 47.
[5]
Ibidem, capoverso 52.
[6]
Gabriella Maleti ( Marano sul Panaro (Mo) – Firenze 2016) scrittrice, ha
pubblicato libri di versi, Rcconti e prose letterarie. E’ stata inoltre
fotografa e autrice di video-film, documentari e video d’arte. Redattrice della
rivista “L’area di Broca”, nel 1984 ha fondato on Mariella Bettarini, le
Edizioni Gazebo.
[7]
Franca Alaimo, Vecchi corpi, in
“L’area di Broca”, n.102-103 del 2016, pag. 29.
[8]
Si veda l’eBook Roberto Mosi, Firenze,
foto grafie, www.Larecherche.it, 2015.
[9] Si veda l’eBook Pittopoesia, Enrico Guerrini / Roberto Mosi, Pittura / Poesia
Catalogo delle mostre e degli incontri, Firenze 2017.
[10]
Riferimento alla collaborazione con il pittore fiorentino Enrico Guerrini.
E’ senza dubbio affascinante considerare la relazione fra poesia e immagine, per mettere in luce i collegamenti, rendere visibili le comunanze, le correlazioni e i legami. Fin dall’antichità si praticava la forma poetica dell’ècfrasi, ossia la descrizione poetica e celebrativa di un’opera d’arte visiva; un celebre esempio di ècfrasi è la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade, importante anche in veste di documento archeologico e storico artistico, in quanto nello scudo sono descritte le città greche studiate dagli archeologi.
RispondiEliminaLo scrittore greco Luciano di Samosata del II secolo d.C. fu un precursore della critica d’arte con le sue descrizioni e interpretazioni di opere d’arte visive. A fine Quattrocento gli intellettuali dei cenacoli fiorentini si occuparono di studiare e tradurre l’opera di questo scrittore e nel Cinquecento dettero impulso alla vera e propria critica storica attraverso la descrizione dei capolavori artistici. A questo proposito è fondamentale l’opera del Vasari, nelle Vite le descrizioni di opere d’arte acquistano nuovo spazio e nuovo ruolo, grazie ad esse possiamo, infatti, ricostruire e rintracciare opere del passato (Gianna Pinotti, I colori delle emozioni, in “Testimonianze”, 2017 n. 4 (514), pagg. 107-110).