venerdì 25 dicembre 2020

Carmelo Mezzasalma commenta "L'invasione degli storni", Gazebo Libri- La prefazione di Giuseppe Panella



                       “L’invasione degli storni” di Roberto Mosi, 

                           Gazebo Libri, Firenze 2012, pagg. 45

 Commento di Carmelo Mezzasalma

 Riguardo a “L’invasione degli storni” dico subito – a parte la suggestiva e acuta prefazione di Giuseppe Panella – che mi sono davvero meravigliato di come, in una trama di pagine non troppo estesa – la sua poesia riesce a raccogliere tanta suggestione di visionarietà e di realismo. Un viaggio interiore e allo stesso tempo visivo, davvero dantesco, per disegnare un messaggio di monito e di rivolta contro le derive della nostra contemporaneità scissa e frantumata perché organa ormai di una perduta e salutare utopia.  Nessun moralismo, tuttavia, ma una dolente presa di coscienza di quelle “vite di scarto” di cui parla Bauman che si raccoglie e s’interroga ancora – e non potrebbe essere altrimenti – tra i luoghi di un vivere umano e i non-luoghi dell’alienazione di cui sono metafora le discariche non solo della città, ma della storia. Certo, Panella ha detto questo in maniera esemplare: “dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza”. Ma vorrei aggiungere, quasi per sottolineare la mia ammirazione, che ciò avviene in virtù di un linguaggio poetico fortemente concentrato, lucido e fermo, eppure capace di abbandonarsi ancora alle modulazioni del sogno, del volo, vorrei dire di un lirismo che mostra intatta la sua tensione proprio quando appare più evidente la sua sconfitta nel marasma che ci attanaglia di menzogne collettive in cui troppi si rifugiano per non vedere e sentire soprattutto se stessi. Ecco perché a me “L’invasione degli storni” appare come un poemetto a quadri, ma dilatato e aperto, mai rinunciatario o disperato e proprio perché capace di alzarsi in  volo attraverso le immagini-guida, come l’indimenticabile Nuovo Cinema Paradiso, o la figura di Gabriella, che svegliano l’incanto della vita e nonostante le ombre della malattia e la tenebra di quest’ora della storia. Sì, la poesia è questo “racconto” dolce e inesauribile, per toccare quel mistero della speranza che ci abita e ci restituisce la nostra vera umanità fatta di umiliazioni e sconfitte, ma anche di rinascite e sia pure con “la testa sotto le ali”.

 

don Carmelo Mezzasalma

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Prefazione


                       Giuseppe Panella

LA RIVOLTA DEGLI UCCELLI MIGRATORI

 

 

«Nell’aria viola del tramonto egli guarda affiorare da una parte del cielo un pulviscolo minutissimo, una nuvola d’ali che volano. S’accorge che sono migliaia e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa. Quella che fin qui gli era sembrata un’immensità tranquilla e vuota si rivela tutta percorsa da presenze rapidissime e leggere. Rassicurante visione, il passaggio degli uccelli migratori, associato nella nostra memoria ancestrale all’armonico succedersi delle stagioni; invece il signor Palomar sente come un senso di apprensione. Sarà perché questo affollarsi del cielo ci ricorda che l’equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso d’insicurezza proietta dovunque minacce di catastrofe?»

 

E’ da questo spunto narrativo di Italo Calvino contenuto in Palomar del 1983[1] che Mosi fa partire il suo nuovo libro di poesie. In esso, tuttavia, proprio per creare un legame di continuità con i testi  precedenti, compaiono alcune poesie presenti in essi, in particolari spezzoni lirici presenti in Luoghi del mito (che è del 2010) e in Nonluoghi (che è, invece, del 2009). Alla ricostruzione di aspetti particolari del mondo animale si associa il ritorno alla dimensione “modernizzata” del mondo mitico che contraddistingueva il precedente scritto di Mosi e l’indagine sulla “de-localizzazione” della poesia che, invece, era presente in quello scritto ancora prima. In sostanza, con questa ultima produzione, si va precisando una sorta di deliberata trilogia poetica (cui lo stesso autore allude nella prefazione al volumetto). In essa, alla descrizione di un mondo contemporaneo ormai degradato e senza centro, spesso incapace o inadeguato a prendere in considerazione la necessità di un cambiamento che lo conduca verso una dimensione più armonica della condizione umana (i Nonluoghi), si giustappone il ricordo del passato mitico dell’archetipo, l’uomo di sempre, quello che ha ancora in sé la possibilità di ritrovarsi e di impedire la distruzione del suo equilibrio interno in relazione alla natura. Nella terza parte, infine, è la Natura in scena con tutte le sue voci e con tutte le sue espressioni spesso mute ma non per questo meno espressive e capaci di mostrare il loro vero volto. E’ quello che accade nella parte iniziale dell’Invasione degli storni dove alla Valle dell’Inferno, luogo poetico e soprattutto campaniano per eccellenza, si aggiungono la Via del Purgatorio e il Nuovo Cinema Paradiso. Tre momenti in cui tra uomo e natura si crea un conflitto, si approfondisce e poi, forse utopisticamente  e un po’ idilliacamente, si risolve in una nuova alleanza. Nell’Inferno della radura del Mugello gli animali dimostrano tutta la loro perplessità circa il destino dell’uomo così come Gabriella, musa ispiratrice e novella Beatrice, indica la via:

 

«La cornacchia sfoglia  / le pagine, scuote la testa / mi spinge fuori dalla valle. / La cascata sbarra il sentiero / l’acqua scende fragorosa. / Salto tra le onde, sui massi / in cerca della via d’uscita. / Scopro la grotta oltre il salto / dell’acqua, Gabriella mi porge / la mano: “Dopo la valle / scoprirai il tempo dell’Attesa”»[2].

 

Nella Valle dell’Inferno il solo soccorso di Dino Campana non basta: la Follia è già dentro l’uomo e lo rinserra nella sua morsa. Nel luogo in cui la Natura dovrebbe trionfare e decomporre la Storia ormai decotta dalle sue stesse contraddizioni di sempre, emergono i frammenti e gli spezzoni dell’ uomo contemporaneo a contaminarla. Al posto dell’armonia del passato e della ricomposizione delle contraddizioni del presente, predominano le scaglie e i frantumi della civilizzazione presente che distrugge e inquina, invece che purificare separando ciò che dura da ciò che deve essere distrutto, ciò che è fatto per servire da quello che è puro prodotto del profitto. L’Inferno è dunque questo, l’Indistinto, il luogo nel quale tutto è mescolato e il puro è tratto nel gorgo dell’impuro:

 

«Congestione di rifiuti urbani / nelle discariche a cielo aperto, / i topi si tengono per la coda / fanno festa gabbiani in volo / gatti impigriti dal grasso. / Ogni rifiuto giunge alla meta / differenziato per contenitore, / la Coscienza divide i rifiuti. / Umido organico: scarti / di cucina, erbe del prato. / Carta e cartone: giornali, / libri, fumetti, quaderni. / Plastica: bottiglie d’acqua, / involucri, piatti, sacchetti / Vetro: vasetti, brocche, / specchi, lampade, bicchieri.  / Mondo virtuale: baci, amore, / passione, sentimento, emozione»[3].

 

Il tema della discarica come non luogo della postmodernità ricompare anche per attrazione nell’ultima parte del libro (nella sezione Periferie che già apparteneva ai Nonluoghi precedenti[4]) ed è un tema ormai topico nella disincantata metamorfosi del contemporaneo che allinea ironia e pathos nella scrittura matura di Mosi. Ma qui ha funzione eminentemente simbolica: i rifiuti sono ciò che appesantisce l’uomo e gli impedisce di essere ciò che vuole essere davvero, legato, com’è, alla “virtualità” dell’esistenza affettiva ed emozionale. L’Inferno è dunque il non luogo del consumo e della minaccia, della disarmonia tra la realtà sognata e il progetto globale che la nega in nome di una smodata e forsennata corsa al profitto: dunque, la negazione di una vita armoniosa. autentica.

Il Purgatorio è una Sala d’Attesa dove si scontano i peccati sotto forma di malattia. Il luogo della sofferenza, della ricerca di una guarigione che si fa aspettare infliggendo sofferenza e disagio a chi ne è la vittima spesso incolpevole, spesso inconsapevole, sempre timorosa e schiacciata dal male:

 

«Nella Sala d’Attesa l’odore / dell’alcol, il battito del tamburo / la pelle secca della lingua. / Folla nella Sala d’Attesa / la porta aperta sul Reparto, / il gioco degli scacchi, / per pedine la vita e la morte. / Passi sulla sabbia tra miraggi / evanescenti, il Tumore / tesse il tempo dell’Attesa. / Il maglio colpisce la facciata / abbatte la parete di rosso / un boato invade l’ospedale. / Tra le gru e le escavatrici / sopravvive solo il Reparto»[5].

 

Ed è nel Reparto che si consuma l’Attesa fatta di squallore, sofferenza, assenza; tra le sue mura fatte di gesso e di lacrime si cerca se stessi e ci si accinge a rinnovare la propria dimensione più profonda per essere di nuovo capaci di vivere e di giungere a quel Paradiso fatto di illusioni e di felicità che è la Fabbrica dei Sogni. Nel Reparto incombe il Ragno che tesse la tela del destino, che scandisce il passare del tempo, che annota e trattiene i passi di chi vorrebbe fuggirne ma non può. Chi ci riesce, infine, si slancia alla ricerca di qualcosa che prima, nel Reparto, gli era stato negato e che solo ora prende consistenza – ed è “la materia di cui sono fatti i sogni”:

 

« ”Suona la mia canzone, / Sam. Come a quel tempo”. / Implora dallo schermo, / lo sguardo di Ingrid, vago il suo sorriso. /  “Canta: As Time Goes By”. / Ripeto le sue parole, / seguo Gabriella nel film. / Sono alle spalle di Bogart / sulla pista dell’aeroporto, / sento le parole dell’addio. // La mia mano non stringe / Gabriella, la poltrona è vuota»[6].

 

La vita è fatta di illusioni e di sogni proiettati su un telone che si illumina della gioia immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della Luna. Il Paradiso è perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova a raccontarci come è andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta qui, resa immobile e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di volare. Quando ci riesce, allora, si “illumina d’immenso”.

 



[1] I. CALVINO, Palomar, con una presentazione dell’autore, Milano, Mondadori, 19942, p. 64.

[2] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 11.

[3] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 9.

[4]Discariche di squallore /  sotto i ponti dell’autostrada / vicini alla città, fulgore d’immagini, / di colori spruzzati sui piloni. // Attraversoo correndo la sera, / verso la campagna. / Graffiti mi accolgono in galleria, / parlano ogni volta /  del fantastico creatore. // Ieri da una collina in rosa / mi ha salutato la pecora Dolly, / di fronte il gregge assorto / delle pecore normali, / al centro l’albero della vita / per frutti televisori / missili e computer“ (R. MOSI, L’invasione degli storni, pp. 55-56).

[5] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 13.

[6] R. MOSI, L’invasione degli storni, p. 20.


* * * * * *



* * *

Lettura 26 marzo  2012 - Ex Palazzo Municipio Sesto Fiorentino - L’invasione degli storni  - Versione breve 


                               1. Valle dell’Inferno

La cornacchia conta gli arrivi (ROBERTO)

li moltiplica per i numeri primi.

Ad ogni arrivo batte le ali

scrive il nome sulla lavagna.

Gracida contenta, mostra

le gore d’acqua putrida

abitate dal gracidio delle rane.

L’occhio del campanile

di Casetta di Tiara si affaccia

sopra i miasmi della valle.

La macchina cattura immagini

a misura dell’occhio digitale.

Il treno attraversa la galleria

nel pulsare delle vene d’acqua,

tremano le radici del bosco.

Il cervo scappa spaventato

sul fianco la ferita di uno sparo.

 

Il Gigante si scuote dal sonno (RENATO)

si alza vacillando in piedi

le mani alla fronte.

Un lampo illumina la Cupola,

il boato squarcia la notte.

Il Palazzo è avvolto dal fumo,

giungono nubi di voci:

“La bomba!”, “Gli Uffizi!”

Il Gigante maledice,

gli occhi caverne di fuoco.

La bocca schiuma di bava.

Trema la terra del prato,

si apre il labirinto, cado

come corpo morto cade.

 


L’acqua canta tra il muschio (GIULIA)

dei massi, si disperde in correnti,

si compone in pozze

sommerse dai cespugli.

Gabriella, coronata di luce

nella radura mostra la strada

che dalla valle sale

per i fianchi della montagna.

Sopra la cima dei castagni

la vertigine delle rocce,

colonne aeree di una cattedrale

aperta sul candeggiare del cielo.

“Mi perdo in questi boschi

- le parole di Dino - ritrovo

il centro di me stesso tra i fumi

della Follia. Casetta di Tiara

oltre i fianchi della valle,

approdo per l’incendio d’amore.”  

 

Le rocce parlano dell’essere (Roberto)

le acque giocano con l’apparire.

Le piene dell’inverno trascinano

pupazzi bianchi caduti dal cielo.

Sulle camicie ricamate, Libertà

Uguaglianza Fraternità

si disfano, approdano sui massi.

Immagini di pietra alle pareti,

ideologie sedimentate:

ora il volo libero del gabbiano

ora colonne fino alle guglie

della cattedrale attraversate

da oriente a occidente

da armenti ricamati di nuvole,

guidati dal fantasma della Ragione.

 


La Ragione sposò il Progresso (Renato)

si unì alla Giustizia Sociale,

bambini rossi sono nati

sono cresciuti bambini rossi

dispersi dalle piene del fiume.

E’ strana la sera di Mosca

suona il carillon della Piazza,

“Mezzanotte a Mosca”, brilla

la stella rossa sul Cremlino,

vibrano bandiere rosse, rosse

al vento sulle mura, sventolano

all’aeroporto  di Mosca.

S’illumina la stella rossa sopra

la Casa del Popolo all’Impruneta,

resiste al maglio della Storia.

 

Congestione di rifiuti urbani (Roberto)

nelle discariche a cielo aperto,

i topi si tengono per la coda

fanno festa gabbiani in volo

gatti impigriti dal grasso.

Ogni rifiuto giunge alla meta

differenziato per contenitore,

la Coscienza divide i rifiuti.

Umido organico: scarti

di cucina, erbe del prato.

Carta e cartone: giornali,

libri, fumetti, quaderni.

Plastica: bottiglie d’acqua,

involucri, piatti, sacchetti.

Vetro: vasetti, brocche,

specchi, lampade, bicchieri .

Mondo virtuale: baci, amore,

passione, sentimento, emozione.

 

La lucciola abbandona  (Giulia)

lo sciame per baciare il led

pulsante di luce rossa,

ronza intorno al blackberry.

Nella gora putrida d’acqua

frammenti dell’uomo digitale

bit byte zero uno zero uno

individui scissi in frammenti,

tele comando nella testa:

consenso ordine sicurezza.




 

Nella prima pagina il vincitore, (RENATO)

la foto dello spaventapasseri.

In ordine, cristalli di zolfo     

fotografie di guerra

ampolle putride d’acqua.

Per ogni foglio l’eco di un canto:

Alla mattina, appena alzata”,

Debout, les damnès de la terre!

Debout, les forçats de la faim!”

Il canto svanisce

nel silenzio di pagine bianche.

 

La cornacchia sfoglia (Giulia)

le pagine, scuote la testa

mi spinge fuori dalla valle.

La cascata sbarra il sentiero

l’acqua scende fragorosa.

Salto tra le onde, sui massi

in cerca della via d’uscita.

Scopro la grotta oltre il salto

dell’acqua, Gabriella mi porge

la mano: “Dopo la valle

scoprirai il tempo dell’Attesa.”

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   2.  Via del Purgatorio

 

Nella Sala d’Attesa l’odore (Roberto)

dell’alcol, il battito del tamburo,

la pelle secca della lingua.

Folla nella Sala d’Attesa

la porta aperta del Reparto,

il gioco degli scacchi,

per pedine la vita e la morte.  

Passi sulla sabbia tra miraggi

evanescenti, il Tumore

tesse il tempo dell’Attesa.

Il maglio colpisce la facciata

abbatte la parete di rosso

un boato invade l’ospedale.

Tra le gru e le escavatrici

sopravvive solo il Reparto.

 

 

 

Lo squallore del Reparto (Roberto)

annunciato dai pini sfiancati

dalla grigia siepe assetata.

Il mio nome suona nella Sala

tra vassoi dei pasti consumati,

facce spente di cartapesta.

Sulle pareti carte disegnate

dal gemito d’acqua dei tubi

dal gorgoglio delle docce.

Ho ricostruito la foce di fiumi,

un tedoforo in corsa

le forme di donne discinte.

 


Il Reparto oncologico  (Renato)

è abitato al pomeriggio

da stanche infermiere,

da macchine per le pulizie,

Il medico alla fine del turno

mostra ad occhi ansiosi

le carte della partita.

Gli ultimi lasciano il Reparto,

l’edificio galleggia sugli aghi

dei pini che sfiorano il cielo

scuro, in attesa della notte.

 

Il ragno si affaccia dal soffitto, (Renato)

di notte tesse la tela.

Scende veloce per il filo,

osserva i pazienti distesi,

gli aghi infilati nelle vene.

Mi guarda con simpatia.

Risale svelto, scompare

oltre il tubo del riscaldamento.

L’aspetto, l’Attesa è lunga.

Penso ai tesori del ripostiglio

resti di mosche, di moscerini.

“Cosa si ricorderà di me,

del mio passaggio nella stanza?”

 

Stabat mater dolorosa (Giulia)

juxta crucem lacrymosa,

dum pendebat Filius.

Parole disegnate nell’albo

si intrecciano

tra le nubi dei pensieri,

senso di colpa, di sconfitta.

Domande sui fogli:

“Perché?” Improvvisa

Gabriella, coronata di luce,

sfoglia le pagine, il sapore

di un bacio, di una carezza.

 

L’ultima flebo, svanisce  (Giulia)

il sapore della chemioterapia.

La sala d’aspetto è invasa

dai nuovi arrivati.

Lascio l’ospedale, corro

nella strada in discesa, l’aria

accarezza la pelle arrossata.

Gabriella mi guida,

pedalo leggero nella città,

la nuova Sala d’Attesa.

 

 

III. Nuovo Cinema Paradiso

 


Nel silenzio svaniscono le luci, (Giulia)

mormorano le foglie dei platani,

si accende l’occhio della cabina.

Gabriella, coronata di luce,

mi tiene stretta la mano.

Il fascio di luce taglia la sala

imprigionato da nubi di fumo.

Vivono in bianco e nero

i racconti del mondo,

ombre proiettate dalla cabina,

immersa nella nube notturna

 del Cinema Paradiso.

Alle mie spalle il respiro

di Alfredo e Salvatore.

 

 

Ombre di scarpe appese (Giulia)

un violino adagiato sopra

la  mensola, bottiglie

fiori secchi, legni, assi

farfalle attirate dalla luce.

Ogni cosa è stata rimossa.

Giuseppe Tornatore

 mi guida per le stanze

annerite di polvere e fumo

della Fattoria di Celle.

Si alzano dalla polvere

forme sopravvissute,

le forme fisiche dell’ombra.

Gli sguardi sprofondano

nell’anima di luce delle cose.

 


Applausi volano in festa, (Roberto)

il Cinema sprofonda nel silenzio.

La musica nasce da lontane

sorgenti, danza

nelle trame delle luci,

si apre in onde tra il suono

di archi ed ottoni.

Sono attore e comparsa,

principe e servo, leggero

nel girotondo incessante

della musica di Otto e mezzo.

Gli altri sono parte di me,

 nel cerchio della vita.

 

 

Fotografo suono e silenzio, (Renato)

cerco forme nella discarica

della memoria, nei pensieri

tra la melma del giorno.

Formo un impasto d’argilla

da penetrare a piene mani,

un rullo di fotogrammi

da proiettare in sequenza.

Appare il senso, la forma,

il fuoco abbraccia la creta,

l’opera è pronta per brillare

alla polvere del giorno:

Michelangelo, Blow-Up.

 


Le vie della città nel sole. (Renato)

Evapora ogni angolo d’ombra

i ventilatori ronzano

intorno ad opachi pensieri.

Ragazzi disegnano spirali

sulle pareti del sottopasso,

lo sguardo di Marylin

il corpo di Jane Russel.

Un sassofono incanta

il cappello di monete.

E’ la tregua della sera, chitarre 

si accordano con brezze leggere.

Apre  Nuovo Cinema Paradiso,

ombre innamorate

vagano per l’acquario della città.

 


“Suona la mia canzone, (Giulia)

Sam. Come a quel tempo.”

Implora dallo schermo

lo sguardo innamorato

di Ingrid, vago il suo sorriso.

“Canta: As time goes by.”

Ripeto le sue parole,

seguo Gabriella nel film.

Sono alle spalle di Bogart

sulla pista dell’aeroporto,

sento le parole dell’addio.

 

La mia mano non stringe

Gabriella, la poltrona è vuota.

 

Nell’ora viola del tramonto (Roberto)

il vuoto, poi un pulviscolo d'ali

invade la cupola del cielo,

la nube s'addensa, sfiora la casa,

Hitchcock è parte del moto,

si alza nella nuvola

percorsa da inquiete presenze.

Ora la nuvola evapora

ogni storno si allontana

raggiunge un punto lontano.

Ora dai quattro angoli del cielo

emerge un vortice gremito

di battere d'ali, una sfera roteante

sopra il ronzio della cinepresa.

L'ultimo chiarore scompare,

l'ombra sale dalle stradeuikku

sommerge le cupole,

le tegole dei tetti,

inghiotte il volo delle piume.

Nei nidi appesi alle gronde

riposano i racconti del mondo,

la testa sotto le ali. 






 

2 commenti:

  1. Ecco perché a me “L’invasione degli storni” appare come un poemetto a quadri, ma dilatato e aperto, mai rinunciatario o disperato e proprio perché capace di alzarsi in volo attraverso le immagini-guida, come l’indimenticabile Nuovo Cinema Paradiso, o la figura di Gabriella, che svegliano l’incanto della vita e nonostante le ombre della malattia e la tenebra di quest’ora della storia. Sì, la poesia è questo “racconto” dolce e inesauribile, per toccare quel mistero della speranza che ci abita e ci restituisce la nostra vera umanità fatta di umiliazioni e sconfitte, ma anche di rinascite e sia pure con “la testa sotto le ali”.

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  2. Giuseppe Panella:

    La vita è fatta di illusioni e di sogni proiettati su un telone che si illumina della gioia immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della Luna. Il Paradiso è perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova a raccontarci come è andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta qui, resa immobile e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di volare. Quando ci riesce, allora, si “illumina d’immenso”.

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