“L’invasione degli storni” di Roberto Mosi,
Gazebo Libri, Firenze 2012, pagg. 45
Commento di Carmelo Mezzasalma
Riguardo a “L’invasione degli storni” dico subito – a parte la suggestiva e acuta prefazione di Giuseppe Panella – che mi sono davvero meravigliato di come, in una trama di pagine non troppo estesa – la sua poesia riesce a raccogliere tanta suggestione di visionarietà e di realismo. Un viaggio interiore e allo stesso tempo visivo, davvero dantesco, per disegnare un messaggio di monito e di rivolta contro le derive della nostra contemporaneità scissa e frantumata perché organa ormai di una perduta e salutare utopia. Nessun moralismo, tuttavia, ma una dolente presa di coscienza di quelle “vite di scarto” di cui parla Bauman che si raccoglie e s’interroga ancora – e non potrebbe essere altrimenti – tra i luoghi di un vivere umano e i non-luoghi dell’alienazione di cui sono metafora le discariche non solo della città, ma della storia. Certo, Panella ha detto questo in maniera esemplare: “dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza”. Ma vorrei aggiungere, quasi per sottolineare la mia ammirazione, che ciò avviene in virtù di un linguaggio poetico fortemente concentrato, lucido e fermo, eppure capace di abbandonarsi ancora alle modulazioni del sogno, del volo, vorrei dire di un lirismo che mostra intatta la sua tensione proprio quando appare più evidente la sua sconfitta nel marasma che ci attanaglia di menzogne collettive in cui troppi si rifugiano per non vedere e sentire soprattutto se stessi. Ecco perché a me “L’invasione degli storni” appare come un poemetto a quadri, ma dilatato e aperto, mai rinunciatario o disperato e proprio perché capace di alzarsi in volo attraverso le immagini-guida, come l’indimenticabile Nuovo Cinema Paradiso, o la figura di Gabriella, che svegliano l’incanto della vita e nonostante le ombre della malattia e la tenebra di quest’ora della storia. Sì, la poesia è questo “racconto” dolce e inesauribile, per toccare quel mistero della speranza che ci abita e ci restituisce la nostra vera umanità fatta di umiliazioni e sconfitte, ma anche di rinascite e sia pure con “la testa sotto le ali”.
don Carmelo
Mezzasalma
* * * * *
***
Prefazione
LA RIVOLTA DEGLI UCCELLI MIGRATORI
«Nell’aria viola del tramonto egli guarda affiorare da una parte del
cielo un pulviscolo minutissimo, una nuvola d’ali che volano. S’accorge che
sono migliaia e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa. Quella che fin qui
gli era sembrata un’immensità tranquilla e vuota si rivela tutta percorsa da
presenze rapidissime e leggere. Rassicurante visione, il passaggio degli
uccelli migratori, associato nella nostra memoria ancestrale all’armonico
succedersi delle stagioni; invece il signor Palomar sente come un senso di
apprensione. Sarà perché questo affollarsi del cielo ci ricorda che
l’equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso d’insicurezza
proietta dovunque minacce di catastrofe?»
E’ da questo spunto narrativo di Italo Calvino contenuto in Palomar del 1983[1]
che Mosi fa partire il suo nuovo libro di poesie. In esso, tuttavia, proprio
per creare un legame di continuità con i testi
precedenti, compaiono alcune poesie presenti in essi, in particolari
spezzoni lirici presenti in Luoghi del
mito (che è del 2010) e in Nonluoghi
(che è, invece, del 2009). Alla ricostruzione di aspetti particolari del mondo
animale si associa il ritorno alla dimensione “modernizzata” del mondo mitico
che contraddistingueva il precedente scritto di Mosi e l’indagine sulla
“de-localizzazione” della poesia che, invece, era presente in quello scritto
ancora prima. In sostanza, con questa ultima produzione, si va precisando una
sorta di deliberata trilogia poetica (cui lo stesso autore allude nella
prefazione al volumetto). In essa, alla descrizione di un mondo contemporaneo ormai
degradato e senza centro, spesso incapace o inadeguato a prendere in
considerazione la necessità di un cambiamento che lo conduca verso una
dimensione più armonica della condizione umana (i Nonluoghi), si giustappone il ricordo del passato mitico dell’archetipo,
l’uomo di sempre, quello che ha ancora in sé la possibilità di ritrovarsi e di
impedire la distruzione del suo equilibrio interno in relazione alla natura.
Nella terza parte, infine, è la Natura in scena con tutte le sue voci e con
tutte le sue espressioni spesso mute ma non per questo meno espressive e capaci
di mostrare il loro vero volto. E’ quello che accade nella parte iniziale
dell’Invasione degli storni dove alla Valle
dell’Inferno, luogo poetico e
soprattutto campaniano per eccellenza, si aggiungono la Via del Purgatorio e il Nuovo Cinema Paradiso. Tre momenti in
cui tra uomo e natura si crea un conflitto, si approfondisce e poi, forse
utopisticamente e un po’ idilliacamente,
si risolve in una nuova alleanza. Nell’Inferno della radura del Mugello gli
animali dimostrano tutta la loro perplessità circa il destino dell’uomo così
come Gabriella, musa ispiratrice e novella Beatrice, indica la via:
«La cornacchia sfoglia / le
pagine, scuote la testa / mi spinge fuori dalla valle. / La cascata sbarra il
sentiero / l’acqua scende fragorosa. / Salto tra le onde, sui massi / in cerca
della via d’uscita. / Scopro la grotta oltre il salto / dell’acqua, Gabriella mi porge / la mano: “Dopo la
valle / scoprirai il tempo dell’Attesa”»[2].
Nella Valle dell’Inferno il solo soccorso di Dino Campana non basta: la
Follia è già dentro l’uomo e lo rinserra nella sua morsa. Nel luogo in cui la
Natura dovrebbe trionfare e decomporre la Storia ormai decotta dalle sue stesse
contraddizioni di sempre, emergono i frammenti e gli spezzoni dell’ uomo
contemporaneo a contaminarla. Al posto dell’armonia del passato e della
ricomposizione delle contraddizioni del presente, predominano le scaglie e i
frantumi della civilizzazione presente che distrugge e inquina, invece che purificare
separando ciò che dura da ciò che deve essere distrutto, ciò che è fatto per
servire da quello che è puro prodotto del profitto. L’Inferno è dunque questo,
l’Indistinto, il luogo nel quale tutto è mescolato e il puro è tratto nel gorgo
dell’impuro:
«Congestione di rifiuti urbani / nelle discariche a cielo aperto,
/ i topi si tengono per la coda / fanno festa gabbiani in volo / gatti
impigriti dal grasso. / Ogni rifiuto giunge alla meta / differenziato per
contenitore, / la Coscienza divide i rifiuti. / Umido organico: scarti / di
cucina, erbe del prato. / Carta e cartone: giornali, / libri, fumetti,
quaderni. / Plastica: bottiglie d’acqua, / involucri, piatti, sacchetti /
Vetro: vasetti, brocche, / specchi, lampade, bicchieri. / Mondo virtuale: baci, amore, / passione,
sentimento, emozione»[3].
Il tema della discarica come non luogo della postmodernità ricompare
anche per attrazione nell’ultima parte del libro (nella sezione Periferie che già apparteneva ai Nonluoghi precedenti[4])
ed è un tema ormai topico nella disincantata metamorfosi del contemporaneo che
allinea ironia e pathos nella
scrittura matura di Mosi. Ma qui ha funzione eminentemente simbolica: i rifiuti
sono ciò che appesantisce l’uomo e gli impedisce di essere ciò che vuole essere
davvero, legato, com’è, alla “virtualità” dell’esistenza affettiva ed
emozionale. L’Inferno è dunque il non luogo del consumo e della minaccia, della
disarmonia tra la realtà sognata e il progetto globale che la nega in nome di
una smodata e forsennata corsa al profitto: dunque, la negazione di una vita
armoniosa. autentica.
Il Purgatorio è una Sala d’Attesa dove si scontano i peccati sotto forma
di malattia. Il luogo della sofferenza, della ricerca di una guarigione che si
fa aspettare infliggendo sofferenza e disagio a chi ne è la vittima spesso
incolpevole, spesso inconsapevole, sempre timorosa e schiacciata dal male:
«Nella Sala d’Attesa l’odore / dell’alcol, il battito del tamburo
/ la pelle secca della lingua. / Folla nella Sala d’Attesa / la porta aperta
sul Reparto, / il gioco degli scacchi, / per pedine la vita e la morte. / Passi
sulla sabbia tra miraggi / evanescenti, il Tumore / tesse il tempo dell’Attesa.
/ Il maglio colpisce la facciata / abbatte la parete di rosso / un boato invade
l’ospedale. / Tra le gru e le escavatrici / sopravvive solo il Reparto»[5].
Ed è nel Reparto che si consuma l’Attesa fatta di squallore, sofferenza,
assenza; tra le sue mura fatte di gesso e di lacrime si cerca se stessi e ci si
accinge a rinnovare la propria dimensione più profonda per essere di nuovo
capaci di vivere e di giungere a quel Paradiso fatto di illusioni e di felicità
che è la Fabbrica dei Sogni. Nel Reparto incombe il Ragno che tesse la tela del
destino, che scandisce il passare del tempo, che annota e trattiene i passi di
chi vorrebbe fuggirne ma non può. Chi ci riesce, infine, si slancia alla
ricerca di qualcosa che prima, nel Reparto, gli era stato negato e che solo ora
prende consistenza – ed è “la materia di cui sono fatti i sogni”:
« ”Suona la mia canzone, / Sam.
Come a quel tempo”. / Implora dallo schermo, / lo sguardo di Ingrid, vago il suo sorriso. / “Canta:
As Time Goes By”. / Ripeto le sue parole, / seguo Gabriella nel film. / Sono alle spalle di Bogart / sulla pista dell’aeroporto, / sento le parole dell’addio. //
La mia mano non stringe / Gabriella,
la poltrona è vuota»[6].
La vita è fatta di illusioni e di sogni proiettati su un telone che si
illumina della gioia immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della
Luna. Il Paradiso è perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova
a raccontarci come è andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare
dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta
qui, resa immobile e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di
volare. Quando ci riesce, allora, si “illumina d’immenso”.
[1]
I. CALVINO, Palomar, con una
presentazione dell’autore, Milano, Mondadori, 19942, p. 64.
[2]
R. MOSI, L’invasione degli storni, p.
11.
[3]
R. MOSI, L’invasione degli storni, p.
9.
[4] “Discariche di squallore / sotto i ponti dell’autostrada / vicini alla
città, fulgore d’immagini, / di colori spruzzati sui piloni. // Attraversoo
correndo la sera, / verso la campagna. / Graffiti mi accolgono in galleria, /
parlano ogni volta / del fantastico
creatore. // Ieri da una collina in rosa / mi ha salutato la pecora Dolly, / di
fronte il gregge assorto / delle pecore normali,
/ al centro l’albero della vita / per frutti televisori / missili e computer“
(R. MOSI, L’invasione degli storni,
pp. 55-56).
[5]
R. MOSI, L’invasione degli storni, p.
13.
Lettura 26 marzo 2012 - Ex Palazzo Municipio Sesto Fiorentino - L’invasione degli storni - Versione breve
1. Valle dell’Inferno
La cornacchia conta gli arrivi (ROBERTO)
li
moltiplica per i numeri primi.
Ad
ogni arrivo batte le ali
scrive
il nome sulla lavagna.
Gracida
contenta, mostra
le
gore d’acqua putrida
abitate
dal gracidio delle rane.
L’occhio
del campanile
di
Casetta di Tiara si affaccia
sopra
i miasmi della valle.
La
macchina cattura immagini
a
misura dell’occhio digitale.
Il
treno attraversa la galleria
nel
pulsare delle vene d’acqua,
tremano
le radici del bosco.
Il
cervo scappa spaventato
sul
fianco la ferita di uno sparo.
Il Gigante si scuote dal sonno (RENATO)
si
alza vacillando in piedi
le
mani alla fronte.
Un
lampo illumina la Cupola,
il
boato squarcia la notte.
Il
Palazzo è avvolto dal fumo,
giungono
nubi di voci:
“La
bomba!”, “Gli Uffizi!”
Il
Gigante maledice,
gli
occhi caverne di fuoco.
La
bocca schiuma di bava.
Trema
la terra del prato,
si
apre il labirinto, cado
come corpo morto cade.
L’acqua canta tra il
muschio (GIULIA)
dei
massi, si disperde in correnti,
si
compone in pozze
sommerse
dai cespugli.
Gabriella, coronata di luce
nella
radura mostra la strada
che
dalla valle sale
per
i fianchi della montagna.
Sopra
la cima dei castagni
la
vertigine delle rocce,
colonne
aeree di una cattedrale
aperta
sul candeggiare del cielo.
“Mi
perdo in questi boschi
-
le parole di Dino - ritrovo
il
centro di me stesso tra i fumi
della
Follia. Casetta di Tiara
oltre
i fianchi della valle,
approdo
per l’incendio d’amore.”
Le rocce parlano
dell’essere (Roberto)
le
acque giocano con l’apparire.
Le
piene dell’inverno trascinano
pupazzi
bianchi caduti dal cielo.
Sulle
camicie ricamate, Libertà
Uguaglianza
Fraternità
si
disfano, approdano sui massi.
Immagini
di pietra alle pareti,
ideologie
sedimentate:
ora
il volo libero del gabbiano
ora
colonne fino alle guglie
della
cattedrale attraversate
da
oriente a occidente
da
armenti ricamati di nuvole,
guidati
dal fantasma della Ragione.
La Ragione sposò il
Progresso (Renato)
si
unì alla Giustizia Sociale,
bambini
rossi sono nati
sono
cresciuti bambini rossi
dispersi
dalle piene del fiume.
E’
strana la sera di Mosca
suona
il carillon della Piazza,
“Mezzanotte
a Mosca”, brilla
la
stella rossa sul Cremlino,
vibrano
bandiere rosse, rosse
al
vento sulle mura, sventolano
all’aeroporto di Mosca.
S’illumina
la stella rossa sopra
la
Casa del Popolo all’Impruneta,
resiste
al maglio della Storia.
Congestione di rifiuti
urbani (Roberto)
nelle
discariche a cielo aperto,
i
topi si tengono per la coda
fanno
festa gabbiani in volo
gatti
impigriti dal grasso.
Ogni
rifiuto giunge alla meta
differenziato
per contenitore,
la
Coscienza divide i rifiuti.
Umido
organico: scarti
di
cucina, erbe del prato.
Carta
e cartone: giornali,
libri,
fumetti, quaderni.
Plastica:
bottiglie d’acqua,
involucri,
piatti, sacchetti.
Vetro:
vasetti, brocche,
specchi,
lampade, bicchieri .
Mondo
virtuale: baci, amore,
passione,
sentimento, emozione.
La lucciola abbandona (Giulia)
lo sciame per baciare il led
pulsante di luce rossa,
ronza intorno al blackberry.
Nella gora putrida d’acqua
frammenti dell’uomo
digitale
bit byte zero uno zero uno
individui scissi in
frammenti,
tele comando nella testa:
consenso ordine sicurezza.
Nella prima pagina il
vincitore, (RENATO)
la
foto dello spaventapasseri.
In
ordine, cristalli di zolfo
fotografie
di guerra
ampolle
putride d’acqua.
Per
ogni foglio l’eco di un canto:
“Alla mattina, appena alzata”,
“Debout, les damnès de la terre!
Debout, les forçats de la faim!”
Il
canto svanisce
nel
silenzio di pagine bianche.
La cornacchia sfoglia (Giulia)
le
pagine, scuote la testa
mi
spinge fuori dalla valle.
La
cascata sbarra il sentiero
l’acqua
scende fragorosa.
Salto
tra le onde, sui massi
in
cerca della via d’uscita.
Scopro
la grotta oltre il salto
dell’acqua,
Gabriella mi porge
la
mano: “Dopo la valle
scoprirai
il tempo dell’Attesa.”
--------------------
2.
Via del Purgatorio
Nella
Sala d’Attesa l’odore (Roberto)
dell’alcol,
il battito del tamburo,
la
pelle secca della lingua.
Folla
nella Sala d’Attesa
la
porta aperta del Reparto,
il
gioco degli scacchi,
per
pedine la vita e la morte.
Passi
sulla sabbia tra miraggi
evanescenti,
il Tumore
tesse
il tempo dell’Attesa.
Il
maglio colpisce la facciata
abbatte
la parete di rosso
un
boato invade l’ospedale.
Tra
le gru e le escavatrici
sopravvive
solo il Reparto.
Lo
squallore del Reparto (Roberto)
annunciato
dai pini sfiancati
dalla
grigia siepe assetata.
Il
mio nome suona nella Sala
tra
vassoi dei pasti consumati,
facce
spente di cartapesta.
Sulle
pareti carte disegnate
dal
gemito d’acqua dei tubi
dal
gorgoglio delle docce.
Ho
ricostruito la foce di fiumi,
un
tedoforo in corsa
le
forme di donne discinte.
Il Reparto oncologico (Renato)
è abitato al pomeriggio
da stanche infermiere,
da macchine per le
pulizie,
Il medico alla fine del
turno
mostra ad occhi ansiosi
le carte della partita.
Gli ultimi lasciano il
Reparto,
l’edificio galleggia sugli
aghi
dei pini che sfiorano il
cielo
scuro, in attesa della
notte.
Il ragno si affaccia dal
soffitto, (Renato)
di notte tesse la tela.
Scende veloce per il filo,
osserva i pazienti
distesi,
gli aghi infilati nelle
vene.
Mi guarda con simpatia.
Risale svelto, scompare
oltre il tubo del
riscaldamento.
L’aspetto, l’Attesa è
lunga.
Penso ai tesori del
ripostiglio
resti di mosche, di
moscerini.
“Cosa si ricorderà di me,
del mio passaggio nella
stanza?”
Stabat mater dolorosa (Giulia)
juxta crucem lacrymosa,
dum pendebat Filius.
Parole disegnate nell’albo
si intrecciano
tra le nubi dei pensieri,
senso di colpa, di
sconfitta.
Domande sui fogli:
“Perché?” Improvvisa
Gabriella, coronata di luce,
sfoglia le pagine, il
sapore
di un bacio, di una
carezza.
L’ultima flebo, svanisce (Giulia)
il sapore della
chemioterapia.
La sala d’aspetto è invasa
dai nuovi arrivati.
Lascio l’ospedale, corro
nella strada in discesa,
l’aria
accarezza la pelle
arrossata.
Gabriella mi guida,
pedalo leggero nella
città,
la nuova Sala d’Attesa.
III. Nuovo Cinema Paradiso
Nel silenzio svaniscono le
luci, (Giulia)
mormorano le foglie dei
platani,
si accende l’occhio della
cabina.
Gabriella, coronata di luce,
mi tiene stretta la mano.
Il fascio di luce taglia
la sala
imprigionato da nubi di
fumo.
Vivono in bianco e nero
i racconti del mondo,
ombre proiettate dalla
cabina,
immersa nella nube
notturna
del Cinema
Paradiso.
Alle mie spalle il respiro
di Alfredo e Salvatore.
Ombre di scarpe appese
(Giulia)
un violino adagiato sopra
la mensola, bottiglie
fiori secchi, legni, assi
farfalle attirate dalla
luce.
Ogni cosa è stata rimossa.
Giuseppe Tornatore
mi guida per le stanze
annerite di polvere e fumo
della Fattoria di Celle.
Si alzano dalla polvere
forme sopravvissute,
le forme fisiche
dell’ombra.
Gli sguardi sprofondano
nell’anima di luce delle
cose.
Applausi volano in festa,
(Roberto)
il Cinema sprofonda nel
silenzio.
La musica nasce da lontane
sorgenti, danza
nelle trame delle luci,
si apre in onde tra il
suono
di archi ed ottoni.
Sono attore e comparsa,
principe e servo, leggero
nel girotondo incessante
della musica di Otto e mezzo.
Gli altri sono parte di
me,
nel cerchio della vita.
Fotografo suono e
silenzio, (Renato)
cerco forme nella
discarica
della memoria, nei
pensieri
tra la melma del giorno.
Formo un impasto d’argilla
da penetrare a piene mani,
un rullo di fotogrammi
da proiettare in sequenza.
Appare il senso, la forma,
il fuoco abbraccia la
creta,
l’opera è pronta per
brillare
alla polvere del giorno:
Michelangelo, Blow-Up.
Le vie della città nel
sole. (Renato)
Evapora ogni angolo
d’ombra
i ventilatori ronzano
intorno ad opachi
pensieri.
Ragazzi disegnano spirali
sulle pareti del
sottopasso,
lo sguardo di Marylin
il corpo di Jane Russel.
Un sassofono incanta
il cappello di monete.
E’ la tregua della sera,
chitarre
si accordano con brezze
leggere.
Apre Nuovo
Cinema Paradiso,
ombre innamorate
vagano per l’acquario
della città.
“Suona la mia canzone, (Giulia)
Sam. Come a quel tempo.”
Implora dallo schermo
lo sguardo innamorato
di Ingrid, vago il suo sorriso.
“Canta:
As time goes by.”
Ripeto le sue parole,
seguo Gabriella nel film.
Sono alle spalle di Bogart
sulla pista
dell’aeroporto,
sento le parole
dell’addio.
La mia mano non stringe
Gabriella, la poltrona è vuota.
Nell’ora viola del tramonto (Roberto)
il vuoto, poi un
pulviscolo d'ali
invade la cupola del
cielo,
la nube s'addensa, sfiora
la casa,
Hitchcock è parte del moto,
si alza nella nuvola
percorsa da inquiete
presenze.
Ora la nuvola evapora
ogni storno si allontana
raggiunge un punto
lontano.
Ora dai quattro angoli del
cielo
emerge un vortice gremito
di battere d'ali, una
sfera roteante
sopra il ronzio della
cinepresa.
L'ultimo chiarore
scompare,
l'ombra sale dalle stradeuikku
sommerge le cupole,
le tegole dei tetti,
inghiotte il volo delle
piume.
Nei nidi appesi alle
gronde
riposano i racconti del mondo,
la testa sotto le ali.
Ecco perché a me “L’invasione degli storni” appare come un poemetto a quadri, ma dilatato e aperto, mai rinunciatario o disperato e proprio perché capace di alzarsi in volo attraverso le immagini-guida, come l’indimenticabile Nuovo Cinema Paradiso, o la figura di Gabriella, che svegliano l’incanto della vita e nonostante le ombre della malattia e la tenebra di quest’ora della storia. Sì, la poesia è questo “racconto” dolce e inesauribile, per toccare quel mistero della speranza che ci abita e ci restituisce la nostra vera umanità fatta di umiliazioni e sconfitte, ma anche di rinascite e sia pure con “la testa sotto le ali”.
RispondiEliminaGiuseppe Panella:
RispondiEliminaLa vita è fatta di illusioni e di sogni proiettati su un telone che si illumina della gioia immensa dell’immedesimazione con l’altra faccia della Luna. Il Paradiso è perdersi in essa e ritrovarsi dall’altra parte. Mosi prova a raccontarci come è andato il suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, dal mare dell’immondizia allo schermo translucido della coscienza: la sua poesia è tutta qui, resa immobile e, pur tuttavia, agitata dalla forza del desiderio di volare. Quando ci riesce, allora, si “illumina d’immenso”.