domenica 1 dicembre 2019

Dalla poesia al video, alla musica, al disegno ... alla poesia - "Orfeo", "Iris", "Navicello", "Poesie"


“Navicello Etrusco”: Video: https://www.youtube.com/watch?v=-dn2XMqax0E
“Poesie 2009-2016”: Video: https://www.youtube.com/watch?v=FuSecM_Ox8E
“Il profumo dell’iris”: Video: https://www.youtube.com/watch?v=RBxsN5TNLAo

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"Orfeo in Fonte Santa" 

Sonia Salsi 

"Incontro di Mito, Storia, Poesia"

“La Toscana Nuova”
nr. 10, nov. 2019
Orfeo in Fonte Santa: Poemetto, Stanze per la celebrazione del Mito che si fa Storia, della Storia che diventa Mito, della circolarità dell'acqua della fonte in cui tutto scorre e tutto ritorna; per la celebrazione della Poesia (1).
Una “narrazione”, questa di Roberto Mosi, che segue una cronologia distesa nel tempo, ma al di fuori del Tempo: alla fonte sostarono popoli antichi, per mercatura e per transumanza, genti del nostro tempo che fuggivano dal vortice della guerra o che hanno portato la morte:” Incredibile la morte / fra i castagni, in file parallele. Dalla fonte passa gente dell'oggi, gente inconsapevole che non si sofferma, come era- invece- costume dei Pastori Antellesi: sostavano “le allegre brigate” alla Fonte dei Baci, la Fonte dai tanti nomi, testimoni della sua presenza in un luogo, in uno spazio della Toscana, che si fa luogo del Mito: Fonte Santa è a Delfi, è l'omphalos della Poesia, è il luogo di OrfeoDa Orfeo muove la musica della parola, da Orfeo muove, storicamente, il melodramma con l'Euridice di Caccini, con l'Orfeo di Monteverdi e di Gluck; musiche che ci sembra di ascoltare, in sottotraccia, nei versi di Michelangelo Buonarroti il Giovane, nei versi di Roberto Mosi.
Fonte Santa, luogo della sacralità, dell'incontro fra l'umano e il divino, fra il passato e il presente: “Offrirò il suono dei ricordi per il canto dell'esistenza”. Esistenza-assenza che si trasforma in tante realtà storicamente individuabili, ma increspata nel tempo sospeso del mito: “Una bandiera rossa David nascose / fra i muri del rifugio / a Fonte Santa. Rossa sventola / dalla finestra della casa / per la libertà ritrovata.” Nascondimento e rinascita: epica che si fa mito, la Brigata di David che ci riporta alle brigate dei Pastori Antellesi, in una sorta di atemporale sincretismo.
Le immagini fotografiche coronano le parole della Poesia, mostrano i luoghi, le atmosfere che essa celebra. Tra contrasti cromatici e nuances appaiono due figure: Orfeo e la Fonte, novella Flora, si incontrano, nell'incontro fra tecnologia contemporanea e Simboli senza tempo. Il bosco di Fonte Santa li avvolge; in lontananza “le geometrie magiche della Cupola”, pernio perfetto dell’“anello delle colline”.
“La fonte non sa di contemplare / sé stessa e il riflesso di un dio”. Il poeta è il riflesso di un dio, come Ovidio, come Rilke, poeti cantori di Orfeo. Le sue parole non sono altisonanti, scorrono pianamente, in fluido ritmo, in spontanea e coltivata musicalità, aulica e quotidiana insieme. Poesia consapevole di sé; altamente intellettuale, non intellettualistica, non ostentatrice di cultura, ma scaturita da una sapienza che trova nell'Antico le chiavi di interpretazione della Contemporaneità.
Parole dell’oggi irrompono ogni tanto (bombe, aerei, moto...) e subito entrano in un ritmo atemporale: i “gruppi sgranati sul sentiero” riuniti per una gara sportiva a Fonte Santa hanno “in bocca il sapore della rosa canina”, come i mercanti e i pellegrini etruschi. Come noi lettori.
Riuniti insieme all'Autore, in una recente iniziativa, da lui promossa presso il Circolo Culturale Antella, abbiamo “incontrato”, in condivisa armonia, Orfeo e David, “partigiano in Fonte Santa”, dedicatario del poemetto, legato da affetto e parentela a Roberto Mosi.
Fu David a nascondere la bandiera rossa nel rifugio partigiano di Fonte Santa; la sua storia di antifascista, rievocata dalla figlia Giovanna, le sue vicende, trasposte in una dimensione mitica, sono diventate humus di ispirazione poetica per Mosi. L'autore stesso, insieme a Daniele Torrini, ne ha letto un florilegio, mentre il pittore Enrico Guerrini ne traduceva in immagini le parole.
Le belle foto di Mosi stesso, scattate in Fonte Santa, scorrevano, insieme a riferimenti preraffaelliti di acque, ninfe e pastori, e insieme a “frammenti “dei sonetti, nel filmato introduttivo “Con Orfeo sulla via delle Maremme” a cura di Virginia Bazzechi.
Lo studioso Massimo Casprini ha dato spessore storico, ai Pastori Antellesi evocati nel primo sonetto, che hanno veramente vissuto nel territorio, testimoni del passaggio tra Manierismo e Barocco.
Il Mito, la Storia, il tempo si sono uniti nel Tempo della Poesia di Roberto Mosi.

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“Navicello Etrusco, Per il mare di Piombino”

Mariagrazia Carraroli

"Nell’agile prefazione al libro, Fabio Strinati definisce la “penna“ usata dall’autore “pregna di storia, ma allo stesso tempo capace di “leggerezza che solamente nell’arte del volo è visibilmente riscontrabile”.
E’ infatti propria di Mosi la capacità di filtrare la ricchezza della sua cultura dentro la rete dell’emozione, in modo tale da far transitare agevolmente le parole tra le pagine della silloge, proprio come un navicello tra le onde marine. Sono onde cariche di storia dentro cui si specchia il vissuto del poeta, lanciato come sasso levigato a vincere giochi di poesia.
Lo specchio di Turan compone in mazzo presente e passato, quello remoto e quello più prossimo, uniti dall’eco dei secoli suscitato dall’amore per le piccole nipoti e per la suggestiva bellezza dei luoghi. Una bellezza che a sera si fa magica dentro l’ombra evocata da D’Annunzio, che le luci delle navi accendono di memoria e pensiero. Perché l’autore legge la realtà interrogandola e sfogliando le sue pagine fino a quella più vicina al mistero.
Per questo appaiono visioni e tra le fiamme dei versi brucia e si consuma ancora la Moby Prince…
Verso la fine del viaggio, Mosi sale sulla nave di Dardano, segue gli uccelli migratori fino ad arrivare all’approdo : 35.5 Latitudine Nord-12.6 Longitudine Est…
Lì piangono i versi , intervallati dalle strofe della sequenza di Jacopone a sottolineare il dramma della morte in mare dei trecentosessantasei figli nel cui urlo disperato l’autore s’immerge senza più nulla proferire. E’ infatti questa l’ultima tragica lirica della raccolta che narra d’altri naufragi e d’altre storie fittamente intrecciate con l’attualità esperita dall’autore. Un percorso continuamente rivolto a luoghi fitti di eventi che il presente ripropone alla riflessione di chi lo sa penetrare, come Roberto Mosi, con l’intelligenza del cuore.
Un viaggio emotivo e coinvolgente, godibile e colto, questo del Navicello etrusco, che coniuga la levità di un verso armonioso al denso richiamo della storia e alla reiterata denuncia delle ambiguità e delle ingiustizie dell’oggi.
Campi Bisenzio, 10 luglio 2018 "
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“Il profumo dell’iris”

Silvia Ranzi
Blog Cinque colonne Magazine
Terza Pagina
6 marzo 2019
“Con Il profumo dell’iris (Gazebo, 2018), Roberto Mosi è arrivato a pubblicare una dozzina di volumi di poesia: Itinera (Masso delle Fate, 2007); Florentia (Gazebo, 2008); Nonluoghi (Comune Firenze, 2009); Aquiloni (Il Foglio, 2010); Luoghi del mito (Lieto Colle, 2010); L’invasione degli storni (Gazebo, 2012); Concerto(Gazebo 2013); La vita fa rumore (Teseo, 2015). Ha pubblicato anche volumi in prosa: il romanzo fantasy Non oltrepassare la linea gialla (Europa Edizioni, 2014); la guida storica Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone. Storie francesi da Piombino a Parigi (Il Foglio, 2013).
Fiorentino, ex dirigente per la cultura alla Regione Toscana, si interessa di letteratura, saggistica, fotografia; anzi, gioca con le parole della poesia, del racconto, con le immagini della fotografia, come suol dire egli stesso. Con quest’ultima disciplina ha realizzato importanti mostre presso il Circolo degli Artisti “Casa Dante”, caffè letterari, biblioteche, dedicate, in particolare, al rapporto tra testo, immagine fotografica e pittura.
Sfogliando queste 81 pagine di Il profumo dell’iris, fitte di poesia, il lettore si fa subito un’idea su cosa verte il volume, già leggendo l’incipit della nota d’autore («Il libro raccoglie poesie dedicate alla città dove l’autore vive, alcune inedite, altre riprese da precedenti raccolte, a partire da Florentia [op. cit.]). Per chi non l’avesse ancora capito la città in questione è Firenze dove Mosi è nato, che ha per simbolo – appunto – l’iris.
Mosi, che ha suddiviso il volume in tre sezioni (Piazze, Le strade, Le colline) ci conduce in un percorso avvincente tra vedute turistiche, ma anche labirintico per chi non conosce Firenze e dintorni, fatto di immagini storiche e naturalistiche, immergendoci e facendoci partecipe delle bellezze e dei suoi ricordi legati alla città toscana, la grande mamma, come la definisce.
Scritto con un linguaggio semplice e scorrevole, come la semplicità e la scorrevolezza del quotidiano – nonostante si pensi il contrario, cioè che il quotidiano scorre inesorabile e indifferente nei confronti dei nostri problemi, il che è anche vero –, bellezze storia e vita giornaliera s’incontrano, sorrette dalle anafore di Le Murate, Le Cure, La Cupola, D’agosto, Sui marciapiedi, Quartiere popolare, etc., e da una lieve ironia, perfino con tratti giocosi, con il pensiero e l’arte di artisti e poeti che hanno calcato le sue strade, lasciando tracce indelebile, ammirato le sue bellezze e altrettanto ne hanno creato, con la bellezza dei suoi monumenti che l’hanno resa famosa nel mondo, chiudendo con l’anafora Amo le parole, una metapoesia che si eleva da tutte le altre legate a Firenze, posta alla fine del volume finale:
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Amo le parole
che si sollevano dalle strade
con il respiro della poesia.
Amo le parole
che rotolano per terra
vestite di pane e di vino.
Amo le parole
che vagano nella mente
nel silenzio assordante dell’io.
Amo le parole
che navigano sul mare
verso l’isola di ogni perché.
Amo le parole
che volano nel mondo
con i colori della pace.
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Ma questo percorso di Mosi si conduce verso scorci urbani poco noti, verso la nuda realtà della periferia, delle stazioni ferroviarie, delle fabbriche di Novoli, di Rifredi, della Fiat o di quelle di cui restano solo ricordi, della bellezza delle sue colline come Fiesole, alla riscoperta della vera anima di Firenze, dove s’incontrano bellezze e contraddizioni del nostro tempo:
.
Dove nascono le parole dei bambini?
.
Bum ba, bi bi, co co, grash, grush
C’è un castello incantato sulle nubi,
tre vecchiette e un salotto in stile,
si beve Martini con le tartine.
Dalla torre scrutano i bambini
mentre cuociono le parole sul fuoco:
nella pentola grande bollema-mma,
nelle altre nubi di sillabe colorate.
Un passero prende i suoni col becco,
li fa cadere nella bocca dei bambini.
ma-mma, cin cin, ba ba, bumba.
Dove nascono le storie dei nonni?
.
(Sopra il cielo di Firenze, p. 72)
.
In conclusione si tratta di poesie che raccontano senza troppa enfasi e sublimazione, ma in modo partecipativo, una città, i suoi umori e quelli dell’autore, le sue problematiche, la durezza della realtà non dissimile da altre grandi città, come la poesia dedicata al carcere delle Murate («… E venne il tempo del carcere / delle Murate. Storie / di disperazione trovano / componimento dai quartieri / popolari. Il fiume bussò / alle porte del carcere / il mese di novembre / e volle le sue vittime…, Le Murate, p. 15), la vita quotidiana dei suoi abitanti attraverso le poesie Il mercato dei cenci, La stazione, il Casone dei poveri; la vita per strada dei senza tetto, dei dannati come li chiama Mosi, che non hanno un domani (Sui marciapiedi); gli angoli naturali, le vie, le piazze, il fiume Arno, il famoso Ponte Vecchio, il salotto buono de “Le Giubbe Rosse” dove la poesia e l’arte è di casa, la già citata collina di Fiesole. Insomma le bellezze di Firenze ma anche le brutture, di una Firenze antica e contemporanea, quasi una mappa “poetica”, una guida della città soprattutto per chi la ama e la sa apprezzare.”

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“Poesie 2009-2016”

Gianna Pinotti
                            “L'èkfrasis poetica tra psiche e corpo fotografico”

Il libro di Roberto Mosi Poesie 2009-2016 vuole essere un viaggio del poeta raccontato per immagini, un’antologia di ‘epoche’ della vita ricomposte attraverso le icone della memoria e i colori delle emozioni, tra luci ed ombre, cadute e risalite dell’essere. Si tratta di immagini di luoghi, paesaggi, situazioni e opere d’arte arricchite da una miriade di suggestioni attinte spesso dal mondo della poesia, in particolare toscana, della mitologia classica e anche contemporanea, quest’ultima scaturita da episodi della storia dei nostri tempi.
Desidererei dunque porre l’accento almeno su due elementi importanti che emergono dalla lettura di questo libro, entrambi collegati alla tradizione classica: il tema dell’Ulisse omerico, il viaggiatore per mare in rapporto costante con la perdita e il recupero dell’io; e la forma poetica dell’èkfrasis, ossia la descrizione o celebrazione di un’opera d’arte visiva;[1] due forti presenze che peraltro ci riconducono all’attività creativa di Mosi, la fotografia, e a quel rapporto tra pittura e poesia, tra immagine e parola, che ha esordito presso gli antichi [2] e che si è sviluppato sino ai nostri giorni, con l’intermediazione decisiva dei cenacoli intellettuali fiorentini che se a fine quattrocento si occuparono, tra l’altro, di studiare e tradurre l’opera dello scrittore Luciano di Samosata, nel cinquecento diedero impulso alla vera e propria critica storica attraverso la descrizione dei capolavori artistici.[3]
Ecco che nel libro di Mosi, che senz’altro risente della temperie culturale in cui è nato e cresciuto, la poesia non solo celebra la pittura bensì le parole vengono forgiate a realizzare fotografie di paesaggi, situazioni e luoghi dove l’inquadratura ottica segna di volta in volta il cammino interiore del poeta offerto al lettore.
Mosi viaggiatore rievoca il mito dell’eroe greco Ulisse, che dall’antichità a Dante, da Tennyson a Joyce, da D’Annunzio a Bigongiari,[4] da Boecklin a De Chirico, ha attraversato l’arte e la letteratura di ogni tempo, esercitando una profonda fascinazione, sempre caricandosi di nuove significazioni. [5]
La prima delle tre parti in cui il libro si suddivide esordisce con Nonluoghi, poesie che sono il risultato di assemblages di materie, oggetti, frammenti e alienazioni tecnologiche e mercificatorie (emblematica la lirica Mercati dove i saldi coinvolgono tutti i settori della vita ormai in preda al deterioramento che infine coinvolge anche l’io depresso) dove gli uomini hanno “facce bianche di neon”, ed emergono i grandi miti contemporanei, dal www alla lavatrice ai pixel, mentre l’amore diviene singhiozzo anomalo e rapido della quotidianità risolto in un sms e in un ironico gioco di parole (“messaggio d’amore, d’amore messaggio/you tube you tube/tube you” in cui tube ricorda il tubare degli innamorati), un riflesso di quel ‘non nome’ che Ulisse omerico si attribuisce, ossia ‘Nessuno’, colui che non ha nome, l’uomo che viaggia eternamente per mare, disperdendosi attraverso i luoghi, lasciando una parte di sé dappertutto, dissolvendo davvero il proprio nome, il proprio io fratturato e moltiplicato, per poi riprenderselo attraverso le mentite spoglie del mendico, umile e vituperato, in vista di un riscatto che se da un lato recupera i valori originari, dall’altro prepara ad altre prove di viaggio, di perdita, di dolore: in Mosi accade dunque che il luogo/i luoghi si depersonalizzino mentre l’io poetico cerca di riappropriarsi di sé ricomponendosi, cercando di differenziarsi dal destino tragico del tu sebbene vi si immerga con ironia canzonatoria “Avvertenza dal monitor: “Si prega evitare suicidio/ore di punta, consultare:/www.oreopportune,org”. A questa immersione seguirà dunque un viaggio di emersione dell’autore, attraverso quelli che potremmo definire i ‘luoghi dell’io’: così ai Nonluoghi seguono i Luoghi del mito ad essi contrapposti, che sono visioni di paesaggi riletti attraverso richiami mitologici; nella lirica Ulisse il poeta si racconta come colui che ogni sera torna ad Itaca (Firenze) con il computer per scudo, in compagnia di una serie di divinità ‘classiche’, dalla sostanza contemporanea. Con la sezione Viaggi il poeta dichiara che ogni suo viaggio comincia dalla corte dell’infanzia (in cui si trasfigura il Palazzo di Ulisse) dove si mescolano i ricordi dei Padri e dove il cancello di ferro è il confine tra il magico quadrato dell’innocenza e il mondo, tra il paradiso dell’infanzia sognante e un mondo dove in ogni angolo è la guerra. Mosi / Ulisse diviene così reduce, migrante e naufrago, viaggiatore angosciato dalle visioni della guerra o di mari sconosciuti e ancestrali, ma anche pellegrino in paesaggi rassicuranti che sono le Terre di Toscana. L’approdo a Firenze (Itaca), che si snoda nella sezione intitolata Florentia, e alla vita familiare è segnato da fermi e salvifici punti di riferimento, geometrie, gesti e prospettive, rumori e musiche dei quartieri trasfigurate nei ritmi della vita personale, nelle età, nelle stagioni che passano (emblematiche le liriche Le Murate e La Villa di Fiesole). Seguono altri mondi terrestri e celesti dove il poeta sogna di Migrare verso le visioni della Pace come semplice via da percorrere senza preamboli, con la sola forza di volontà, e l’invito alla pace si presenta come uno dei grandi messaggi di questo libro: “Non esiste una via/alla pace, la pace/è la via da percorrere/a passo deciso, lo sguardo/che vede lontano”.
La seconda parte si lega più strettamente all’ambito artistico e letterario fiorentino, in particolare a Dante, al quale l’autore si richiama nelle sezione L’invasione degli stormi con un percorso dall’Inferno al Paradiso, e a Botticelli con la sezione Flora in cui la lirica Venere rievoca il dipinto La Nascita di Venere in forma di parole, e il poeta si nutre della visione di un magico Rinascimento per immaginare e ritrarre un nuovo quadro di Rinascita contemporanea, ricucendo il passato al presente, operando un assemblage di epoche nella rievocazione nostalgica di un’età aurea del pensiero.
La celebrazione dell’arte pittorica trova il suo clou nella terza parte del volume che omaggia Proust con sei testi sulla sua vita che si chiudono con La veduta di Delft, descrizione del quadro di Vermeer, un omaggio alla passione dello scrittore francese per l’opera del pittore olandese, dunque un omaggio che potremmo definire ecfrastico, dove Mosi sembra addirittura identificarsi in Proust parlando proprio di immagini per poesia o di poesia per immagini. Il poeta Mosi è in questo caso soprattutto fotografo, e, come dicevamo, il talento per la fotografia ha sviluppato nel poeta proprio questa predisposizione espressiva, poiché l’ècfrasi, come la fotografia, può mettere in evidenza il significato o una particolarità di un’altra opera visuale.
Il poeta simula un processo visivo e il lettore può prendere spunto dal verso poetico per ricordare l’opera d’arte che si materializza come una visione, oppure, nell’ipotesi non conosca l’opera in questione, è spronato a cercarla e a riconoscerla e ad addentrarvisi non senza meraviglia.
Questo accade per la poesia Flora in cui il poeta racconta il quadro di Botticelli; in questo racconto l’autore trasforma la propria stessa emozione in una esperienza estetica che condivide con il lettore in un imprevedibile dialogo. Avviene che tra le righe, mentre prende forma il dipinto, prenda forma anche il pensiero del poeta/fotografo e una sua interpretazione dell’opera e un conseguente collegamento alla contemporaneità e a quel messaggio di fondo che egli, in questo caso, intende lasciare attraverso la raccolta, Trafigge l’ultima nube/residuo della discordia,/mostra il tempo della pace. Dunque Il quadro scelto da Mosi e raccontato dai versi si amplifica in diversi modi: dai versi è analizzato, trasfigurato e raccontato ad altri che attraverso il dipinto possono cogliere anche le intenzioni spirituali dell’autore.
Ecco che il tema del confronto e del rapporto tra arte e letteratura assume in questo libro un ruolo primario, poiché la parola e l’immagine si potenziano vicendevolmente insieme al pensiero: in questo scambio di identità tra poesia e pittura e tra pittura e poesia vengono senz’altro a crearsi molteplici piani estetici e interlocutori, composti da diverse sostanze che, attraverso l’alchimia delle parole e delle immagini, attraverso lo scambio verbale e mentale tra poeta e lettore, vanno dall’emozione all’interpretazione, dalla memoria a una novella visione, dal passato al futuro, dall’io al tu, di cui Ulisse diviene a questo punto testimone attonito.

Note


[1] L’ècfrasi è una descrizione verbale di un’opera d’arte visiva.
[2] Ricordo lo scudo di Achille descritto nell’Iliade. La tradizione dell’ècfrasi è importantissima anche in veste di documento archeologico e storico artistico; ad esempio sullo scudo di Achille sono descritte le città greche studiate dagli archeologi. Anche in Virgilio troveremo alcune importanti descrizioni: lo scudo di Enea nel libro VIII dell’Eneide (ai versi 625-731), lo scudo di Turno nel libro VII (ai versi 789-792), le coppe intagliate da Alcimedonte nell’Ecloga III (44-46). Lo scrittore greco Luciano di Samosata (121- II sec. d. C.) formatosi sulle opere dei classici greci, è colui che si pone come vero precursore della critica d’arte con le sue descrizioni e interpretazioni di opere d’arte visive.
[3] Lo scrittore greco Luciano di Samosata (121- II sec. d. C.) formatosi sulle opere dei classici greci, è colui che si pone come vero precursore della critica d’arte con le sue descrizioni e interpretazioni di opere d’arte visive: importanti brani come Non bisogna prestar fede facilmente alla calunnia e La Sala che si richiamano all’opera di Apelle, ispireranno nel Quattrocento moltissimi artisti e in particolare Botticelli per la sua Calunnia: nel 1496 l’opera di Luciano viene pubblicata a Firenze. Per restare in Toscana, ricordiamo le ècfrasi di Vasari nelle cui Vite le descrizioni di opere d’arte acquistano nuovo spazio e nuovo ruolo, grazie ad esse possiamo infatti ricostruire e rintracciare opere del passato. A proposito di un inquadramento storico e dell’opera di luciano si veda Luciano di Samosata, Descrizioni di opere d’arte, a cura di Sonia Maffei, Einaudi, Torino, 1994. A proposito della continua fortuna iconografica di Luciano, e in particolare della Calunnia di Apelle, si veda Luca Viviani, La Calunnia di Apelle, un reperto di antica arte contemporanea, Alinea Editrice, Città di Castello, 2011.
[4] A questo proposito si veda in particolare Gianna Pinotti, Il dono di Ulisse, Appunti sulla silloge Abbandonato dall’Angelo di Piero Bigongiari, in Otto/Novecento, anno XXX, n. 2, Milano, 2006, pp. 131-160.
[5] Si veda a questo proposito il bel libro di Piero Bottani, Il grande racconto di Ulisse, Il Mulino, 2016, Bologna.

1 commento:

  1. Orfeo in Fonte Santa"
    Sonia Salsi
    "Incontro di Mito, Storia, Poesia"
    “La Toscana Nuova”
    nr. 10, nov. 2019
    Orfeo in Fonte Santa: Poemetto, Stanze per la celebrazione del Mito che si fa Storia, della Storia che diventa Mito, della circolarità dell'acqua della fonte in cui tutto scorre e tutto ritorna; per la celebrazione della Poesia (1).
    Una “narrazione”, questa di Roberto Mosi, che segue una cronologia distesa nel tempo, ma al di fuori del Tempo: alla fonte sostarono popoli antichi, per mercatura e per transumanza, genti del nostro tempo che fuggivano dal vortice della guerra o che hanno portato la morte:” Incredibile la morte / fra i castagni, in file parallele. Dalla fonte passa gente dell'oggi, gente inconsapevole che non si sofferma, come era- invece- costume dei Pastori Antellesi: sostavano “le allegre brigate” alla Fonte dei Baci, la Fonte dai tanti nomi, testimoni della sua presenza in un luogo, in uno spazio della Toscana, che si fa luogo del Mito: Fonte Santa è a Delfi, è l'omphalos della Poesia, è il luogo di Orfeo. Da Orfeo muove la musica della parola, da Orfeo muove, storicamente, il melodramma con l'Euridice di Caccini, con l'Orfeo di Monteverdi e di Gluck; musiche che ci sembra di ascoltare, in sottotraccia, nei versi di Michelangelo Buonarroti il Giovane, nei versi di Roberto Mosi.
    Fonte Santa, luogo della sacralità, dell'incontro fra l'umano e il divino, fra il passato e il presente: “Offrirò il suono dei ricordi per il canto dell'esistenza”. Esistenza-assenza che si trasforma in tante realtà storicamente individuabili, ma increspata nel tempo sospeso del mito: “Una bandiera rossa David nascose / fra i muri del rifugio / a Fonte Santa. Rossa sventola / dalla finestra della casa / per la libertà ritrovata.” Nascondimento e rinascita: epica che si fa mito, la Brigata di David che ci riporta alle brigate dei Pastori Antellesi, in una sorta di atemporale sincretismo.
    Le immagini fotografiche coronano le parole della Poesia, mostrano i luoghi, le atmosfere che essa celebra. Tra contrasti cromatici e nuances appaiono due figure: Orfeo e la Fonte, novella Flora, si incontrano, nell'incontro fra tecnologia contemporanea e Simboli senza tempo. Il bosco di Fonte Santa li avvolge; in lontananza “le geometrie magiche della Cupola”, pernio perfetto dell’“anello delle colline”.
    “La fonte non sa di contemplare / sé stessa e il riflesso di un dio”. Il poeta è il riflesso di un dio, come Ovidio, come Rilke, poeti cantori di Orfeo. Le sue parole non sono altisonanti, scorrono pianamente, in fluido ritmo, in spontanea e coltivata musicalità, aulica e quotidiana insieme. Poesia consapevole di sé; altamente intellettuale, non intellettualistica, non ostentatrice di cultura, ma scaturita da una sapienza che trova nell'Antico le chiavi di interpretazione della Contemporaneità.
    Parole dell’oggi irrompono ogni tanto (bombe, aerei, moto...) e subito entrano in un ritmo atemporale: i “gruppi sgranati sul sentiero” riuniti per una gara sportiva a Fonte Santa hanno “in bocca il sapore della rosa canina”, come i mercanti e i pellegrini etruschi. Come noi lettori.
    Riuniti insieme all'Autore, in una recente iniziativa, da lui promossa presso il Circolo Culturale Antella, abbiamo “incontrato”, in condivisa armonia, Orfeo e David, “partigiano in Fonte Santa”, dedicatario del poemetto, legato da affetto e parentela a Roberto Mosi.

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