GIUSEPPE PANELLA
"IL RUMORE DELLA VITA " - ROBERTO MOSI
Prefazione
Poesia e lavoro
«Ancora vita il tuo dolce rumore
dopo giorni bui e muti riprende.
dopo giorni bui e muti riprende.
Porta il vento
di maggio l’odore
del fieno, il cielo immobile splende.
Gli occhi stanchi colpisce di lontano
il rosso papavero in mezzo al tenero grano»
del fieno, il cielo immobile splende.
Gli occhi stanchi colpisce di lontano
il rosso papavero in mezzo al tenero grano»
(Attilio
Bertolucci, Convalescente)
1. Il rumore del lavoro e la forza del ricordo
«La cultura
viaggia nell’aria
suono di voci, note,
musica, fruscio di idee,
non porta degrado,
confonde facce di pietra
teste devote agli schermi»
Il punto di partenza di quest’ultimo
progetto poetico di Roberto Mosi è legato a un fatto di cronaca che assume nei
suoi versi una notevole importanza: la manifestazione avvenuta nel luglio del
2013 a Firenze in seguito a un’ordinanza che imponeva la chiusura alle ore
ventidue dei locali della popolare Libreria
Café de la Cité dove, invece, eventi
culturali e attività musicali a essi connesse duravano fino a tarda ora, tra la
rabbia e lo sconcerto degli abitanti del quartiere.
Il corteo che richiedeva il
ripristino degli orari precedenti si era snodato, pur nell’afa estiva, pacifico
ma molto colorito e vivacemente scandito dagli slogan gridati con forza e
determinazione dai partecipanti alla lotta:
«Oggi si spalanca la porta:
si va in corteo, si parla
dell’essere alla città
dell’avere.
Rabbia,
lavoro che muore
sepolto il progetto di anni
oltre il senso comune.
Sul sagrato del Carmine
s’inchiodano cartelli
nell’afa di luglio:
“No alla
città vetrina”
“La noia è normalità”
“Adotta un libraio”»
Il rumore prodotto dalla vita è
esibito quale conferma del suo non conformismo e della sua progettualità,
l’idea di un ritorno alla normalità dopo la dimostrazione che qualcosa di nuovo
e di originale poteva essere perseguito scatena la rabbia di chi pensava che
almeno qualche spazio di libertà sarebbe stato lasciato aperto per l’invenzione
e la gioia di vivere da parte di chi vuole ridurre tutto a noia e a normalità,
a consumo e ad esibizione di un’esistenza fasulla e legata esclusivamente
all’avere. Ma non è una pura questione di rumore quella sollevata da Roberto
Mosi: la posta in gioco è più alta ed è legata al problema del lavoro, della
sua potenza, della sua mancanza.
In molti dei componimenti che
seguono, infatti, il tono rievocativo si tinge di un pathos molto intenso. Il ricordo delle lotte del passato tinge di
rimpianto e lo sciopero delle trecciaiole (nella poesia omonima) ne diventa il
simbolo perduto.
«Tosca, cerco
i fiori del bello
in periferia
al calore delle utopie,
fiori rossi
degli anni pari e dispari».
Il calore dell’utopia legata alla
forza trasformatrice del lavoro e delle lotte organizzate per renderlo più
umano e più equamente rimunerato riverbera in queste parole e si trasforma in
un ritratto di donna (Tosca che avanza, il suo bambino in braccio, simbolo di
un Quarto Stato ancora a venire ma sempre indomabile e impossibile da
ricondurre nell’ambito della pura normalità produttiva).
La descrizione dei luoghi del
lavoro si lega a quella delle lotte attuali di chi chiede “pane e lavoro” (lo
slogan caro a Lenin e ai bolscevichi fin dal 1905 e sempre replicato con la
stessa forza e insistenza nelle manifestazioni operaie).
Qui lo scenario è diverso da
quello della San Pietroburgo o della Mosca d’inizio secolo ma l’obiettivo è pur
sempre quello e le forze addette alla sua repressione appaiono le stesse,
ferreamente scagliate a proteggere i privilegi dei troppi pochi in grado di
assicurare livelli decenti di vita ai molti che non possono averne la
possibilità:
«Le tute blu arrivano da Rifredi
la polizia è schierata, sbuca
dai portici la camionetta,
picchiano forte i manganelli,
si grida in coro pane e lavoro.
Le Giubbe Rosse sono sbarrate,
i poeti scomparsi.
La musica è delle sirene,
i versi le urla degli operai»
La dimensione culturale non può
che essere accantonata e tacere in un contesto simile.
Nel fuoco e nel furore della
lotta, la poesia non è in grado di far sentire la propria voce: i versi sono
ingoiati dalle urla di rabbia degli operai in cassa integrazione o licenziati,
la musica è rappresentata dalle sirene delle auto della polizia. Eppure anche
in un contesto di questo tipo c’è spazio per la scrittura e per il suo potere
di ricordo e d’incitamento a prendere la parola, di non cedere, di ritrovare
una verità di là dalle menzogne e dell’oblio. In un testo successivo, una delle
protagoniste di una manifestazione per la Festa delle Donne dell’8 marzo invita
chi scrive a farsi voce e memoria del passato e del presente delle lotte:
«Federiga, le compagne
tornano a difendere
il silenzio della fabbrica.
Fosca mi accompagna
sull’argine del fosso:
“Parla delle nostre idee,
tessi il filo della memoria”».
La dimensione operaia e popolare
predomina in questa prima parte della raccolta: le voci e le testimonianze dei
protagonisti diretti, la nostalgia per un’epoca ormai definitivamente
tramontata, la necessità di mantenerne viva la memoria, la forza
dell’evocazione e il rimpianto per non essere più protagonisti in una stagione
rinnovata di presa di coscienza e di emergenza delle lotte, tutto questo
contraddistingue la scrittura poetica di questa sezione del poemetto
(nonostante la suddivisione in liriche apparentemente singole e collocate
isolatamente, infatti, non vedo una netta separazione narrativa
nell’ispirazione fluida che caratterizza questi testi nella loro continuità e
tenderei a considerarli, piuttosto, come un unico flusso po’ematico, un
poemetto suddiviso in altrettanti stasimi):
«Sento il pianto dei bimbi,
voci, grida d’amore.
Il cortile
centrifuga giorni
stagioni vicine e lontane,
la memoria dei volti.
Un vortice all’alba
disperde sogni e ricordi
nell’aria rossa della città.
I gatti sulle terrazze
si stirano languidi»
Anche i luoghi della condizione
operaia (per dirla con Simone Weil) non sfuggono alla descrittività ricca di pathos di Mosi e i cortili delle case
operaie sono rappresentati come il luogo privilegiato della loro soggettività
dopo il momento dell’alienazione nel lavoro. Il cortile in cui risuonano i
pianti dei bambini, le urla delle coppie che litigano o i gemiti di quelle che
fanno l’amore ne è la rappresentazione più esatta e, nello stesso tempo,
simbolicamente esaltata dal contesto.
In esso tutto ciò che è accaduto
nel tempo, i bisogni e i ricordi, le passioni, i desideri e il dolore di vivere
si confondono in un’atmosfera irreale come di sogno astratto ma la caduta in
una drammaticità estranea al tono stilistico generale dell’opera è impedita,
quasi bloccata, dall’ironica presenza dei gatti ieratici e pigri che “si
stirano languidi” sulle terrazze, una sorta di contrappunto animale e appagato
rispetto all’insoddisfatta rabbia e nostalgia che caratterizza le vicende degli
umani. Il guizzo rappresentato dai felini appollaiati sui tetti impedisce la
caduta in un pathos eccessiva e mostra le due facce della scrittura di Mosi: la
lirica coinvolgente e sostenuta da un’autentica passione e la bonaria capacità
di smontarla e di decostruirla in nome di un appello a sentimenti meno
esasperati e più legati alla quotidianità.
Così i migranti, i lavavetri, i
raccoglitori di pomodori nella Maremma e quelli di arance a Rosarno sono
riscattati nel loro dolore e nella loro rabbia da uno sguardo che li coglie
nella loro umanità e non ne fa solo simboli di una condizione umana tenuta
sotto il giogo ferreo della necessità di sopravvivere ma li coglie nella loro
dimensione di persone che sanno reagire all’abbattimento in cui si trovano e
rivendicano la loro personalità di esseri viventi.
Alle mani bianche degli operai
del primo (come pure del secondo) Novecento sono sostituite quelle nere del
nuovo Millennio: mani atte a lavorare anch’esse e anch’esse sfruttate senza
pietà, spremute ai limiti del possibile da un feroce meccanismo che da esse
ricava ciò che può e che vuole e che poi le emargina e le accantona ai bordi
dell’esistenza comune degli altri componenti della compagine sociale che
subiscono certamente lo stesso sfruttamento ma spesso in maniera meno diretta e
devastante, lasciando così loro l’illusione che il trattamento ad essi
riservato sarà del tutto diverso e che con le “mani nere” essi non avranno mai
niente a che fare.
2. Il lavoro e le sue facce molteplici
Il lavoro, dunque, si è visto, è al centro di quest’accorata
raccolta di versi di Mosi.
Il poeta fiorentino non si
concentra solo sullo sfruttamento e sull’angoscia che esso produce nelle sue
vittime predestinate. Il lavoro è guardato talvolta con la lente deformata del grottesco
e della satira sociale. E’ il caso di Federigo, impiegato presso una ditta di
pompe funebri, che accorre in mano il catalogo delle bare ogni volta che
apprende dell’esistenza di un moribondo che sia un potenziale cliente. Il
lavoro dell’infermiera dell’ospedale psichiatrico (quello ormai chiuso da
qualche tempo di San Salvi) e quello dell’addetta alle pulizie in un vagone
delle Ferrovie dello Stato (la donna telefona al suo fidanzato di aspettarla
all’arrivo del treno, direttamente al binario dieci della stazione, in modo da
avere più tempo per l’amore) sono visti con rispetto e, nel secondo caso, con
un tocco di tenerezza e di sentimentale affezione.
Il lavoro è – anche secondo Mosi
– la difficile conquista del Novecento che rischia di andare perduta nel nuovo
Millennio e tornare a essere difficilmente raggiungibile (ed equamente
remunerato) com’è accaduto nell’Ottocento dell’egemonia capitalistica e del
trionfo della grande industria. Non avere lavoro o perderlo è ormai la grande
paura di tutti i salariati e dei lavoratori dipendenti ed è giusto, quindi, che
la poesia si faccia carico della natura profonda di questo problema così
bruciante, così attuale.
Ma è lavoro anche l’attività
artistica e, di conseguenza, il teatro. Mosi rinnova il suo interesse per
l’opera lirica, ad esempio, e aggiunge alla raccolta un suo personale omaggio a
Giuseppe Verdi:
«Emerge l’immagine:
comparsa in costume
vestito da frate, da principe
da soldato e da servo
sulle assi del palcoscenico.
Don Giovanni, Carmen
Lucia di Lammermour.
Maschere si affacciano,
personaggi vestiti di musica
danzano sulle cornici
bianche di calce,
scivolano in platea,
Carmen e Radames,
salgono nelle luci del palco
corrono tenendosi per mano
nel vortice delle note»
che suona anche come un omaggio dovuto alla fatica diuturna
degli artisti e alla loro capacità di rendere la vita altrui talvolta più
leggera e meno schiacciata dal dolore quotidiano di vivere.
Anche il mito classico partecipa di quest’atmosfera di cauta
leggerezza, di deliberata sospensione del giudizio, di assonnata partecipazione
a metà. Anche gli ieri di ieri sono fatti della stessa materia di cui sono
costituiti quelli di oggi. Anche Ulisse e il suo nostos a Itaca:
«L’eroe
raggiunge
la reggia nel sonno.
Penelope dorme stizzita
Arturo saluta, la coda ritta.
L’eroe guarda la posta,
dispone in ordine le armi
si distende sul letto,
il risveglio è vicino.
Ogni sera
Ulisse
torna ad Itaca»
La poesia di Mosi, dunque, si
distende tra i due poli (a lui consueti) del pathos duro e veemente della partecipazione e dell’ironica verifica
degli stilemi di un passato divenuto eterno nell’immaginario collettivo. Tra
mito e modernità, allora, si apre per lui lo spazio della poesia: uno spazio da
riempire con la forza delle idee e delle soluzioni verbali.
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