lunedì 24 settembre 2018

Massimo Seriacopi e Annalisa Macchia presentano "Esercizi di volo" di Roberto Mosi


Segnalazione particolare 42° Premio Casentino


Video di Virginia Bazzechi - LINK 

Con “Esercizi di volo” si  riprende il percorso intrapreso con Non oltrepassare la linea gialla. Il rapporto del protagonista – impegnato in “Esercizi di volo” – con la sua terapeuta, mette in scena l'espediente dell potere curativo della scrittura. In una fascinosa ambientazione sulle sponde dell'Adige, si sviluppano i preparativi per “La festa della follia”; in questo contesto, non mancano i riferimenti a classici del pensiero (Erasmo da Rotterdam), della letteratura (Ariosto, Cervantes, Rabelais) e della poesia (Dino Campana). Un piccolo libro per dimensioni, ma che fa esplodere un immaginario potente ed evocativo.

Disegni di Enrico Guerrini

Incipit del romanzo

Un giorno, ne sono certo, riuscirò a volare. Mi sono costruito due ali di tela leggera per esercitarmi, le lego alle braccia, salgo in cima a una scala e comincio ad agitarle, forte, sempre più forte, chiudo gli occhi e mi getto in avanti. Le ali mi danno slancio e la spinta attutisce l’impatto con la terra. Ho letto tutto quello che c’era da leggere sul tema del volo, dai primi tentativi nella storia dell’uomo, dal volo di Icaro e di Dedalo, fino alle esperienze dei giorni nostri.  Mi fermo a lungo a guardare il volo degli uccelli, specialmente il volo dei gabbiani; alla fine mi sento un gabbiano anch’io. Mentre seguo i passaggi nel cielo, mi trovo a ripetere le evoluzioni a braccia aperte, il capo in avanti e mi capita di incrociare gli sguardi perplessi delle persone intorno a me. 



sabato 22 settembre 2018

Sergio Givone: "che cos'è la poesia?" - "Poesia e fotografia", R. Mosi - Da "Testimonianze": "Con gli occhi dei poeti", n. 518-519


 Si è svolto il 19 settembre, alla Sala Progetti Arte Contemporanea delle Murate (Firenze), l'incontro di presentazione del volume speciale di "Testimonianze" dal titolo "CON GLI OCCHI DEI POETI".

I relatori: Sauro Albisani, Mariella Bettarini, Rosalba de Filippis, Segio Givone, Davide Rondoni e Severino Saccardi. Roberto Mosi ha introdotto  e coordinato l'incontro. Inteventi musicali di Chiara Ciribello.
Si tratta del volume della Rivista Testimonianze n. 518-519, Volume monografico speciale curato da  Rosalba de Filippis, Luca Lenzini, Miriana Meli, Roberto Mosi, Severino Saccardi, Simone Siliani.
Un volume speciale, totalmente monografico e del tutto «particolare», per «Testimonianze» (che non è certamente una rivista letteraria, ma che ha comunque un’ispirazione di carattere umanistico), con contributi miranti ad inquadrare la realtà del nostro tempo (talora opaca, contraddittoria, complessa e ambivalente) a partire da un’ottica particolare: quella della poesia.
Una realtà vista Con gli occhi dei poeti. I poeti del nostro tempo, ma anche quelli del nostro passato, più o meno prossimo, che ci vengono presentati per «ritratti» o che parlano in prima persona con i loro versi. Accanto ai «medaglioni» dedicati a grandi autori, messi a punto da studiosi e/o scrittori e critici, vengono evidenziati percorsi tematici (tra i quali anche quelli curati dagli studenti di due scuole fiorentine) come la poesia al femminile, quella «visiva» e quella di altre culture e latitudini, per approdare alla memoria di poeti che di recente ci hanno lasciato, ricordati da scrittori e amici che sono stati loro vicini e che possono quindi raccontarne l’esperienza, l’ispirazione e il percorso umano e culturale con particolare vivezza.  



L’indice del volume:
 Sergio Givone in dialogo con Severino Saccardi, Quell’antica domanda di Socrate

Ritratti
 Massimo Seriacopi, Il grande dono di Dante
 Carmelo Mezzasalma, Giovanni della Croce, nella notte del desiderio
 Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi e il sentire comune dell’«umana compagnia»
Giuseppe GiachiDino Campana o della forza evocativa della poesia
Daniele BaliccoUn poeta che viene dal passato e legge il futuro nel presente: Pier Paolo Pasolini
Luca LenziniL’«ospite ingrato» Franco Fortini
Francesco Matteo CataluccioCzeslaw Milosz, cercatore di senso e «cittadino del mondo»
Matteo MocaArthur Rimbaud: dare all’Inaudito la forma della parola
Marco MarchiMario Luzi, poeta/testimone dei mutamenti e delle persistenze del mondo
Sauro AlbisaniCarlo Betocchi e la conoscenza dell’alveare dei sogni
Gloria ManghettiDiego Valeri: il sentimento creaturale del mondo
Rosalba de FilippisGiorgio Caproni: una poesia ad occhi aperti
Elena Gurrieri«Poesia dello sguardo» e amore della vita in Sandro Penna
Enrico FinkBob Dylan: uno sguardo lucido sul mondo
Denio Derni e Matteo PeracciniFabrizio De André, amico fragile

Percorsi
Gabriella SicaGli occhi dei poeti
Francesco Stella«Semicerchio»: una specola aperta sul mondo
Mia Lecomte e «Compagnia delle poete»Un unico corpo sonoro
Ricardo Héctor RabittiPoesia del Rio da la Plata: Borges, Onetti, Molina
Cinzia DemiBenedici questa croce di spighe
Davide RondoniUn mondo invaso di parole
Eugenio MicciniLa felicità
Tiziano FratusNatura, poesia e meditazione
Alba DonatiLettera alle donne che spariscono
Luisa PuttiniDedicate alle donne
Roberto MosiL’intrigante relazione fra poesia e fotografia
Lucia MarcucciUn’ottima scelta
Laura MonaldiL’esperienza della «Poesia Visiva», fra mis-letture e ripensamenti
Evaristo Seghetta AndreoliCon versi dal sapore di miele e di vino
Franco Manescalchi1986-2009: al gran Caffè letterario «Le Giubbe Rosse»
Lamberto PignottiUn testimone in incognito
Studenti della classe 3C del Liceo Scientifico «E. Balducci» di Pontassieve (coordinati dalla prof. Simona Giani)Il viaggio dell’anima: Cavalcanti e Caproni a confronto
Studenti della classe 5A del Liceo Scientifico «A. Gramsci» di Firenze (coordinati dal prof. Marco Salucci)Il carpe diem ai tempi del Web

 Ricordarsi
Alessandro Fo«Aria strappata centimetro per centimetro al vuoto»: ricordo di Pierluigi Cappello
Mariella BettariniLa grande voce poetica di Gabriella Maleti
Giuseppe PanellaGiusi Verbaro: il vento impetuoso della poesia
Margherita LoconsoloHasan, un poeta «affamato di umanità»
Margherita LoconsoloPer Hasan Atiya Al Nassar
Laura BozziPer Hasan Atiya Al Nassar

Ricordiamo che il volume può anche essere acquistato on line (nella sezione Shop del sito www.testimonianzeonline.com) o può essere richiesto direttamente scrivendo a: infotestimonianze@gmail.com .







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QUELL’ANTICA DOMANDA DI SOCRATE
di Sergio Givone in dialogo con Severino Saccardi – Pagg 6-20

Che cos’è la poesia? I poeti medesimi (a partire da quelli qui citati: da Ione, interpellato da Socrate, a Rilke, da Neruda alla Szymborska) dicono di non saperlo. Eppure essi riconoscono quel fuoco che arde dentro, che si manifesta in uno sguardo che vede il mondo in modo «altro» e che spaventa chi non lo sa riconoscere. Ci sono un’ispirazione e una musica interiore che vanno tradotte (come dice Dante: ciò «ch’e’ ditta dentro vo significando») in espressione poetica con estro, ma anche con sapienza, con studio e con fatica. Un fuoco che ogni animo umano può avvertire, anche se non tutti lo riescono a tradurre in versi. E la poesia, che con la religione condivide l’afflato mistico e il riconoscimento del mistero (anche quando parte da premesse materialistiche o irreligiose, com’è per grandi autori come Lucrezio e Leopardi) ha radici popolari, come dimostrano i grandi poemi omerici, e dà espressione ad un sentire universale. Un sentire che si traduce, talora, in forme, in linguaggi e in esperienze che sfidano anche la tradizionale, e datata, distinzione (come hanno evidenziato poeti-menestrelli come il Nobel Bob Dylan e il nostro Fabrizio De André) fra cultura «bassa» e cultura «alta».

Lo sguardo di Rilke
Saccardi. Se sei d’accordo, partirei con una riflessione di carattere generale, relativa al lavoro di «Testimonianze» per questo volume particolare. Come sai, noi non siamo una rivista letteraria, né tantomeno (in tale ambito) specialistica; ma, in senso ampio, la nostra è una rivista che ha un’ispirazione umanistica; dunque, questo della poesia è un tema che ci sentiamo, in qualche modo, un po’ abilitati a trattare e di cui è interessante comunque parlare con te. Con gli occhi dei poeti è il titolo di questo lavoro e se credi potremmo iniziare il nostro ragionamento proprio dalla domanda: Cosa può voler dire oggi, di fronte a una realtà spesso così ambivalente, davanti a una materia così opaca, oscura, così contraddittoria e complessa come è quella della contemporaneità, guardare al mondo con occhi diversi, con l’ottica della poesia, con l’animo, con lo sguardo dei poeti?. Questa non è che un’evocazione e vorrei chiedere a te cosa questa evocazione fa venire in mente.
Givone. Mi viene in mente una bella pagina di Rilke, che parla del giovane poeta e ne parla così: egli è a tavola insieme con i genitori, chiacchierano di cose comuni, e improvvisamente questo giovane alza gli occhi, apre gli occhi, alza lo sguardo e i suoi genitori sorprendono in questo sguardo qualche cosa di assolutamente incomprensibile: non lo riconoscono più. Egli getta sul mondo questo suo sguardo e il mondo non è più quello che è, lo vede da una lontananza che risulta misteriosa, incomprensibile ai genitori (eppure sono i suoi genitori ed egli è poco più che un bambino), ma lo sguardo del poeta è questo, è la capacità di guardare il mondo come da un altrove, da un aldilà, in una prospettiva utopica inaudita: da un aldilà, da un altrove, in modo altro. Com’è possibile questo? Ecco, se dovessimo rispondere a questa domanda, è difficile non ricordarsi di quello che diceva Socrate a questo proposito nel dialogo Lo Ione (Ione è un poeta, un giovane poeta, proprio come il giovane poeta di Rilke). Dunque, Socrate pone a Ione la stessa domanda che ha fatto a tutti gli altri cittadini di Atene: «Cosa fai? Cosa ci stai a fare qui? Qual è la ragione per cui fai quello che fai?». Tutti hanno dato una risposta: il politico ha osato dire che è lì alla ricerca, insieme con gli altri, del bene comune, il calzolaio ha spiegato perché fa le scarpe e a cosa servono, e così via. Ione non sa rispondere – «perché scrivi poesie?» «non lo so» – e allora Socrate sbotta: «Allora tu sei il più sciocco degli uomini? Tutti mi sanno dire perché fanno quello che fanno, solo tu non mi sai dire perché scrivi poesie, perché fai quello che fai» e, da quel sublime ironista che sappiamo essere Socrate, lo guarda di sottecchi e gli dice «Tuttavia, tu che sei il più sciocco degli uomini sei anche il più saggio, perché questo tuo non sapere è segno del fatto che il “sapere” poetico è enthusiasmòs, viene da Dio», cioè viene da un’ispirazione profonda che ci spossessa della nostra quotidianità e della nostra realtà e ci costringe a guardare il modo altrimenti, ce lo restituisce come non lo abbiamo mai visto e in modo da scoprire ciò che si nasconde nel cuore del mondo. Questo è il poeta. C’è un arco che va dalla Grecia a Rilke e ai grandi poeti contemporanei, anche se ora non più tanto, che dicono la stessa cosa, sulla quale vale la pena di interrogarsi. Osando semplificare, è giusto dirlo, sia Socrate sia Rilke riconoscono la natura religiosa della poesia. Questo è un punto che credo meriti riflessione: la natura religiosa della poesia.

Rimane il mistero
Saccardi. È la dimensione della sacralità, quindi, anche se oggi sembra che questa sacralità sia venuta meno, non credi?
Givone. Certo, e qui tocchiamo un punto essenziale. La poesia è un discorso molto ambiguo, è un discorso religioso e irreligioso al tempo stesso. Pensiamo a Lucrezio, che è alla radice di un poeta come Leopardi. La sua poesia è tutta intonata alla desacralizzazione, alla filosofia di Epicuro: uomo liberati dal timore degli dei.
Saccardi. È una immanentizzazione del punto di vista sulla vita.
Givone. È una radicale immanentizzazione: guarda il mondo per quello che è, abbi il coraggio di guardare il mondo per quello che è. E questa poesia irreligiosa, desacralizzata, si trasforma in una sorta di canto cosmico, in una forma di sacralizzazione del mondo.
Saccardi. Un grande soffio vitale…
Givone. Sì, il primo canto è dedicato proprio alla vita, a Venere, alla vita nascente (è quel soffio vitale a cui si è ispirato Botticelli per la sua Venere). È il canto della vita, il primo dei sei grandi canti di cui è composto il De Rerum Natura, che si conclude col canto della morte. Questa religiosa irreligione che è la poesia di Lucrezio comprende questo grande arco dalla vita alla morte. L’universo è come sospeso, è sradicato dal quel suo fondamento che era Dio, che erano le strutture religiose di comprensione del mondo, ed è una sorta di liberazione del mondo a se stesso; in questo senso la poesia ha un grande valore cosmico, la poesia è il mondo senza fondamento che è come sospeso al suo nulla. Questo genera stupore, costringe a guardare il mondo in un altro modo, e questo altro modo, essendo stupore, meraviglia di fronte alla vita, meraviglia di fronte al mistero dell’universo, torna a essere religione. In questo senso, dico, la poesia è ambigua, è religiosa e irreligiosa al tempo stesso.
Saccardi. D’altra parte, prima citavi Leopardi e tu da maestro mi insegni che Leopardi, poeta che attinge pienamente dalla lezione del materialismo, dell’immanentismo, è però il poeta dell’Infinito.
Givone. Esattamente, Leopardi come Lucrezio. Perché c’è una derivazione lucreziana non solo indiretta, ma anche diretta. Leopardi è poeta di tradizione settecentesca, la cui filosofia è quel materialismo del quale abbiamo due grandi interpreti, Timpanaro e poco distante Luporini, il quale parlava di un Leopardi «progressivo», Leopardi che libera dalla superstizione religiosa, Leopardi materialista, progressivo perché materialista (Timpanato sosteneva questa tesi). Ma, come gli appare alla fine l’universo? Come «(…) quell’arcano mirabile e spaventoso» che prima che si potrà mai spiegare «perderassi», prima di essere spiegato e inteso si perderà. Ecco, questo è un arcano irreligioso, nel senso che non c’è nessun Dio.
Saccardi. Ma rimane il mistero.
Givone. Certo, rimane il mistero. Su questo hanno scritto non solo i materialisti che abbiamo citato in precedenza, Luporini e Timpanaro, ma anche Bobbio ha delle pagine bellissime in merito. La ragione alla quale Leopardi diceva di attenersi, la ragione, la sola ragione, quel lumicino che fa un po’ di luce nel grande buio, è proprio quella che ti dice che sei circondato da un grande buio e il grande buio è il mistero. Certo, un conto è riempire quel mistero di risposte di tipo religioso, un conto è considerarlo soltanto mistero, ma mistero è, per gli uni e per gli altri, per coloro che lo riempiono di risposte religiose e per quelli invece che lo custodiscono nella sua misteriosità.
Saccardi. Su questo, ovviamente, ci sarebbero tantissime cose da dire, perché c’è il Leopardi che in qualche modo recupera le ragioni della speranza, e di questo, nella Ginestra, troviamo infinite occasioni di riflessione. Però, sull’origine dello sguardo poetico, della poesia che nasce da qualcosa di molto profondo, che si ritrova in tanti autori, io, se permetti, avrei da proporti qualche verso di Neruda che può offrire uno spunto interessante:

La poesia
Accade in quell’età… La poesia
venne a cercarmi. Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme,
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.

Salto e vado alla conclusione:

Ed io, minimo essere,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell’abisso,
ruotai con le stelle,
il mio cuore si sparpagliò nel vento



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L'intrigante relazione fra poesia e fotografia - VIDEO


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Pag. 161

Poesia e fotografia

 

 

E’ senza dubbio affascinante considerare la relazione fra poesia e immagine, per mettere in luce i collegamenti, rendere visibili le comunanze, le correlazioni e i legami. Fin dall’antichità  si  praticava la forma poetica dell’ècfrasi, ossia la descrizione poetica e celebrativa di un’opera d’arte visiva;  un celebre esempio di ècfrasi è la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade, importante anche in veste di documento archeologico e storico artistico, in quanto nello scudo sono descritte le città greche studiate dagli archeologi. [1]

Lo scrittore greco Luciano di Samosata, del II secolo d.C. fu un precursore della critica d’arte con le sue descrizioni e interpretazioni di opere d’arte visive.  A fine Quattrocento gli intellettuali dei cenacoli fiorentini  si occuparono di studiare e tradurre l’opera di questo scrittore e nel Cinquecento dettero impulso alla vera e propria critica storica attraverso la descrizione dei capolavori artistici. A questo proposito è fondamentale l’opera del Vasari, nelle Vite le descrizioni di opere d’arte acquistano nuovo spazio e nuovo ruolo, grazie ad esse possiamo infatti ricostruire e rintracciare opere del passato.

 

 

due forti presenze che peraltro ci riconducono all’attività creativa – compresa la fotografia - e a quel rapporto tra pittura e poesia, tra immagine e parola, che ha esordito presso gli antichi e che si è sviluppato sino ai nostri giorni, con l’intermediazione decisiva, fra l’altro,  [2]. Ecco che può accadere – come nell’ esperienza dell’autore – la poesia non solo celebra la fotografia bensì le parole sono forgiate a realizzare fotografie di paesaggi, situazioni e luoghi dove l’inquadratura ottica segna di volta in volta il cammino interiore del poeta offerto al lettore. Il rapporto tra fotografia e letteratura può assumere un ruolo primario, poiché la parola e l’immagine si potenziano vicendevolmente insieme al pensiero: in questo scambio d’identità vengono senz’altro a crearsi molteplici piani estetici e interlocutori, attraverso l’alchimia delle parole e delle immagini, attraverso lo scambio verbale e mentale tra poeta e lettore, vanno dall’emozione all’interpretazione, dalla memoria a una novella visione.

 

Nell’ambito di questo tipo di riflessione, avvicinandosi alla nostra epoca, appare importante riferirsi al pensiero di Baudelaire [3], poeta della modernità per eccellenza che chiarisce quanto l’immagine possa essere uno dei luoghi privilegiati dell’ispirazione – sia un’immagine diretta che una rappresentazione iconografica – quasi una preziosa sorgente da cui è possibile recuperare, distillare possibili parole per potere scolpire il suo volere:

“Glorifier le culte des images (ma grande, mon unique, ma primitive passion)”.

C’è come una supremazia visiva che agisce sul poeta ed è così anche in Giacomo Leopardi: “Vedere” è per Leopardi come per Baudelaire, la matrice da cui trarre oltre che un piacere personale, il raccolto d’immagini fondamentale per l’opera del poeta [4]

 

“L’occhio del poeta ha da sempre la capacità di saper leggere dentro la luce, dentro i colori, la forma, la prospettiva di un’azione o nel movimento, così come nel tempo, per tradurre poi ogni entità in un mondo di parole” [5]. La sua guida sono quelle “prunelles ardentes” che lo stesso Baudelaire attribuiva ai poeti, a quei loro occhi sempre aperti e capaci di familiarizzare con ogni forma sensibile, con il buio e con la luce [6] .

Italo Calvino nella lezione sulla “Visibilità”, Lezioni Americane, descrive come le immagini nascano prima delle parole e incombano sull’artista e sul poeta come una sorta di pioggia “prima sotto forma di bassorilievi che sembrano muoversi e parlare, poi come visioni proiettate davanti ai suoi occhi, come voci che giungano al suo orecchio, e infine come immagini puramente mentali”.

Il presupposto generalmente dato per incontrovertibile è che i poeti lavorano su materiale verbale, ma in realtà la voce nasce dalla visione, dai loro occhi, aperti o chiusi che siano, in continuo dialogo con l’io sotteso che tradurrà a un pubblico il pensato ( G. Patrizi, Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Donzelli 2000).

Certamente nel Novecento il nodo immagine-poesia è sempre più nevralgico e il predominio della dimensione visiva è ormai al suo apice ai nostri tempi. La ricerca del significato sia ontologico che artistico si è sempre mossa in molteplici dimensioni, nel solo linguaggio non si è mai potuta sedare la sete della spiegazione, nemmeno quando tale linguaggio assurge a un livello metafisico, come può fare spesso la poesia.  La trasversalità artistica diventa uno degli aspetti inderogabili del Novecento, quindi è ancor più saldo e inscindibile il rapporto tra la poesia e l’immagine iconografica[7].

 

Nell’attenzione che il poeta ha per il mondo reale, irrompe alla fine del XIX secolo a tormentare il suo occhio una nuova presenza: l’elettricità che muta la percezione e la potenzialità dello sguardo ed esercita nella vita dell’uomo e nella sua dimensione quotidiana la sua più grande influenza.

Dal momento in cui l’illuminazione si diffonde nelle strade della città, sia all’esterno che all’interno delle case, il poeta si trova costretto ad affrontare un nuovo visibile. Non è quindi la notte leopardiana ma quella campaniana, dove la città è teatro, dove la vita è teatro, dove la notte è illuminata continuamente.

Vediamo in Dino Campana ( Pei vichi fondi tra il palpito rosso, in Inediti ) quest’attenzione per l’elettricità:

 

(…) Nel silenzio caldissimo ambiguo

Della notte voluttuosa

Scuotevasi il mare profondo:

Era caldo il silenzio sullo sfondo

Le navi inermi, drizzate in balzi

Terrifici al cielo

Allucinate in aurora

Elettrica inumana risplendente

Alla poppa per l’occhio incandescente. (…)

 

Vediamo in Attilio Bertolucci (“Notte”, in Viaggio d’Inverno, in Opere).

 

O bell’insonnia o palpebra

di rovere stinta stirata nello strazio

della luce che mai smette di battere

in questa notte metropolitana,

o mia palpebra a filo di quell’altra

o mia notte a sfida di quell’altra

o luce della mia notte

che mai cessi di esistere (…)

 

Vediamo in Amelia Rosselli (Le poesie, Milano, 2007, p. 266).

 

E l’aria era calda e umida e scottante e i miei occhi pieni

di grata febbre.

I miei occhi pieni di grattacieli! Ed il tuo occhio

sornione che guida la macchina della velocità per

i ritrovi fangosi della tua tarda età. E la mia

gioventù che forse è più scaltra della tua abile

macchina fotografica.

 

La tecnica subentra nella vita dell’uomo del Novecento e la Rosselli evoca uno strumento che rivoluziona il rappresentabile, la macchina fotografica. Se la luce ha cambiato il visibile del mondo, sarà la fotografia a cambiare definitivamente la rappresentazione di esso. Il poeta si trova, per altro verso, a misurarsi con la rappresentazione fotografica che ha la capacità di condurre all’immediatezza la rappresentazione stessa, a differenza di quella pittorica. Il lampo di tempo dello scatto fotografico si può identificare con l’istante in cui tutto il rappresentabile è stato catturato con un colpo di luce: il segreto della fotografia è che il momento dell’ispirazione e quello del rappresentato coincidono. Ne consegue un’accelerazione del percorso percettivo e rappresentativo. Poeta e fotografo si osservano, si sentono vicini, si scambiano impressioni, arrivano a scoprire che abitano il moderno con mezzi espressivi non dissimili.

 

Merita ora risalire alle esperienze degli anni sessanta dell’Ottocento, quando 0 Nadar (pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon), uno dei  primi fotografi di Parigi, scese nelle viscere dalla terra, nelle catacombe, per fotografare le ossa, i resti degli antichi abitanti della città. Nadar portò, con le fotografie scattate, il volto della morte alla luce del sole, come un reperto. Il compito della rappresentazione della morte scivola anche in quella del fotografo, poeta e fotografo sono due pupille entrambe protese verso la lettura del mondo – la vita e la morte – negli alfabeti della luce, forme, parole, fino alla comunione dell’  “immagine poetica” Il corpo della macchina fotografica contiene uno specchio che riflette il mondo e lo restituisce. Il poeta è come uno specchio che si fa sensibile, reagisce nel silenzio della mente e si esprime attraverso la scrittura. fa l’esperienza della luce come la pupilla che s’impressiona e legge dentro l’enigma dell’immagine come una scrittura. Una scrittura di luce ove trova i caratteri per parlare di ciò che ha visto  [8].   

 

Il poeta coglie questo cambiamento, l’accelerazione dei tempi  e con l’incremento della velocità, impara, in sintonia con le caratteristiche della macchina fotografica, a cogliere il lampo dell’attimo, il respiro del momento, all’aprirsi e al chiudersi del diaframma: meccanismo che consente, in definitiva, di scrivere con la luce, incidendo una volta sulla pellicola e ora sui supporti digitali.

 

Emerge netta la consapevolezza che queste nuove dinamiche, incidono sulla stessa lingua poetica, portano a considerare la lingua come un materiale di sillabe e ritmo, il singolo verso, la singola parola hanno la luce, il colore di un lampo.

Si vedano Dino Campana e la lingua della celebre composizione “Batte Botte” (Canti Orfici).

“Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quais*)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città
Solo il passo
Che a la notte
Solitario
Si percuote
Per la notte
Dalle navi
Solitario
Ripercuote:
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
L’acqua (il mare
Che n’esala?)
A le rotte
Ne la notte
Batte: cieco
Per le rotte
Dentro l’occhio
Disumano
De la notte
Di un destino
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte.”

 

La singola sillaba diventa centrale nella rappresentazione poetica . Si può dire che in questa poesia di Campana sono intrecciati e amalgati in un corpo unico , tutti gli aspetti e tutte le potenzialità delle parole ed emerge la contemporaneità di “visto” e “rappresentato” propria della rappresentazione fotografica.

Il poeta interviene sulla narrazione, questa diviene movimento, icona e parola.

Appare naturale il passaggio a Giuseppe Ungaretti e ad uno dei versi più celebri di tutta la letteratura del Novecento. Si veda il suo “m’illumino d’immenso”, in cui la poesia e la modernità si confrontano: l’io, la luce e l’universo.

Questa concentrazione poetica caratterizza anche molte poesie di Caproni, in cui domina il valore del singolo verso, fra le quali “Il nome”, in “Il Conte di

Kevenhuller”:

 

Il nome non è la persona

Il nome è una larva.

Di tutti i ircostanti

a malapena è salva

- famelica – l’icona.

 

Il poeta raccoglie ed esprime tramite l’attimo e l’essere nella luce, il valore di un singolo momento a scapito di tutti gli altri, trasfondendo anche nel linguaggio, questo procedere per lampi, in una nuova ritmicità, al di fuori di una narratività descrittiva. E’ una parola che vive di se stessa e per se stessa, si fa cioè oggetto, soggetto ed esperienza come estratta da un lungo frasario quotidiano ed eletta , restituita al valore di se stessa, mostrando al contempo una pluralità di prospettive. Se prima il poeta era uno specchio in cui raggruppare la visione, ora vediamo la parola rompersi, lo specchio del poeta cadere e farsi frammento di luce e immagine spoglia, distante, destabilizzante, contrastante, lontana da una narratività, e volutamente straniante per raccogliere diverse prospettive in una sorta di superappresentazione, in una visione contemporanea di tutte le prospettive.[9]

 

Credo di poter verificare dal vero nella mia esperienza di fotografo e di poeta e nell’impegno che dedico nella collaborazione con alcuni pittori[10], le considerazioni fin qui illustrate. L’occhio, lo sguardo vigile e tutti gli altri sensi rivolti al recupero delle sensazioni, alla maniera di Proust, rappresentano il passaggio centrale per fissare in parole, in immagini, la vita che ci circonda.

Merita soffermarsi in primo luogo su due elementi, che ho ricercato nel contesto per me naturale della città.

Il primo, il tema della luce, del variare del tono della luce nelle ventiquattro ore, che veste di vesti sempre nuove gli oggetti, il paesaggio che ci circonda, ci stimola, suscita emozioni diverse, da cogliere sui due versanti, del comporre e del fotografare. A questo riguardo è da dire che il poeta “educa” il fotografo e il fotografo “educa” il poeta.

Il secondo, riguarda il tema del movimento del mondo e dei mondi che ci

circondano e la capacità di cogliere la scansione delle frazioni del tempo che vengono a comporre il racconto della vita quotidiana: nella successione dei fotogrammi della pellicola, la successione delle immagini pensate e scritte.

In merito al primo tema, l’e-book “Firenze, foto grafie” [11] illustra una serie di esperienze condotte nella duplice veste di fotografo e di poeta, oggetto di mostre in vari spazi pubblici e di pubblicazioni.

Possono essere utili alcune estrapolazioni da questa pubblicazione per dare conto del convergere degli interessi e linguaggi di cui sopra si è parlato. Il libro “Nonluoghi”[12], termine coniato dall’antropologo Marc Augè per indicare le parti della città destinate al passaggio della folla, riporta la poesia:

 

La poesia è illustrata dalla fotografia di una persona anziana che risale con piede stanco le scale di un sottopassaggio, realizzata pensando al racconto richiamato dalla poesia.

Un'altra poesia della stessa raccolta parla di un povero essere in piedi presso una delle porte della stazione della città:

 

La fotografia che accompagna la poesia, mostra la folla che esce compatta dalle scale mobili della stessa stazione, la folla che sfiora indifferente quel povero essere.

Vari capitoli dell’e-book “Firenze, foto grafie” ( Nonlioghi, Firenze riflessa, Moda ed oltre,Myth in Florence) mostrano la ricerca del fotografo condotta nelle varie ore del giorno e della notte in luoghi particolari del centro e delle periferie: i vestiti in mostra, i manichini, gli stessi monumenti riflessi nelle vetrine dei negozi, acquistano una “vita” diversa, ora sembrano immobili, ora in movimento. I versi che più volte accompagnano queste immagini, seguono con ogni evidenza la vivacità, o la “pigrizia” dello sguardo che fissa le immagini con la macchina fotografica e colgono anche  momenti di alienazione e di solitudine.

 Nella immaginazione del poeta un personaggio particolare, un giullare, si aggira per le strade di Firenze.

 

Gioca con grafie di luce

il Giullare apparso dal nulla

la testa coronata di fiori.

Gira per la città la camera

Lumix a tracolla sonagli

sulla giubba cattura fotografie

in successione ripartite

per le ore del giorno.  

Innamorato dei personaggi

delle vetrine, sceglie la notte

per incontrarli. Il Giullare

li fotografa da lontano cercando

di sorprenderli al naturale.

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Prepara percorsi fra le vetrine

nella irrealtà riflessa in frammenti.

Strani incontri, manichini

abbracciano solenni monumenti

le gambe affusolate di una modella

entrano dentro Palazzo Vecchio

fra gli smoking pronti per una serata

elegante l’ombra del Battistero.

 

Il poeta – fotografo è immerso in un paesaggio particolare, pieno di stimoli, di segni impressi dalla storia, affollato da turisti provenienti da tutto il mondo, sempre in movimento, ora in gruppo ora dispersi. Sente di aver bisogno di ricorrere a molteplici mezzi espressivi, di registrazione, per imprimere nella memoria, sulla carta, nella macchina fotografica, le scene che via via si dipanano davanti al suo sguardo. Avverte l’esigenza di essere rapido nel suo lavoro, di sapere cogliere il valore dell’istante in sintonia con il mutare delle situazioni. Fra gli esempi possibili, riferiti al capitolo “Firenze calpestata” della raccolta “Firenze, foto grafie”, il turista, pantaloni di seta a pois, scarpe di una forma improbabile, che calpesta la lapide in ricordo del rogo del Savonarola in piazza della Signoria; intorno a lui vari personaggi che la poesia – e le fotografie – colgono in posizioni sorprendenti.

 

Dalla lapide emerge il Frate

pantaloni neri a pois, incontra

personaggi felici la ragazza

muove un passo, scarpe rosa

incrociate un piccione

la raggiunge la coppia

di vigili urbani allegra

trascende in un giro di valzer …

 

Questa ricerca si avvale del patrimonio di preziose esperienze realizzato dal gruppo di “Poesia visiva”che ebbe validi rappresentanti, negli anni sessanta ,specie nell’area fiorentina, a partire da Eugenio Miccini.

Nell’e-book “Pittopoesia”, pubblicato con “Segreti di Pulcinella”[13] sono raccolte alcune delle opere realizzate, frutto dell’incontro fra poesie e fotografia  (e, in alcuni casi, del disegno e della pittura[14]). In queste opere l’attenzione del fotografo, più che all’immagine “unica” nella forma, è rivolta al racconto di storie della nostra epoca o a richiami ad un illustre passato. Accade che a volte l’immagine si divida in frammenti o lasci spazio al disegno del pittore: si veda l’opera “Ogni sera Dante ritorna a casa”, con le figure del sommo poeta e di Virgilio che si aggirano per le strade del centro di Firenze, a volte sorprese dall’improvviso apparire di torme di diavoli. In un’opera-racconto di un incontro di poeti, le immagini raccolte rinviano alla celebrazione del dio Narciso più che della divina Erato.


Erato guarda dall'alto,

le mani nei capelli,

il pubblico adorante

sull'aia della casa.

 

Maria sospira d'amore

Anna alza il braccio al cielo

Miriam si tormenta le mani

Fosca è piena d'allegria

Gianna gesticola parole

Lucio stravolge gli occhi

Lelio canta lugubre la morte.

 

Erato volge la testa,

le mani nei capelli,

verso le ombre

della notte.

  

In un’altra opera infine, il poeta-fotografo sempre con le vesti del giullare con la macchina fotografica a tracolla, si immerge, nella realtà sconvolgente dei cantieri che hanno stravolto la città e con uno sguardo vigile, vibrante, dalla doppia valenza espressiva, ci arricchisce di immagini e di emozioni.

 

Cavaliere errante nella città

in sella al ronzino, sopra

i gas di scarico la testa eretta,

si scontra con le greggi

dei penduli cellulari,

con le mandrie dei turisti,

 

Corre sul cavallo lungo

mostruosi cantieri, 

ruotano mulini a vento

svettano aeree trivelle

occhieggiano cavità

di polveri fumanti.

 

Cantieri officine

della città, dei futuri

nonluoghi, crogiolo

di solitudini urbane.

Il paesaggio che avvolge

il cavaliere solitario.

 

L’alleanza tra lo sguardo del poeta e lo sguardo del fotografo, può  sostenere l’avvento di tempi nuovi? Un tempo nuovo è possibile nell’epoca delle immagini affollate, disseminate, consumate? Perché questo sia possibile, è forse necessario uno sguardo che sappia vivere con empatia la città, catturare la bellezza del mondo nell’istante ma sappia silenziosamente preservarla e custodirla.

 

 

 



[1] Gianna Pinotti, Ibidem, note 3 e 4.

[2] Si veda Gianna Pinotti I colori delle emozioni in Testimonianze n.514/2017, pp. 107-110.

[3] C. Baudelaire, “Mon coeur mis à nu”, Oeuvres completes, Paris, Gallimard, p. 701.

[4] G. Leopardi, Pensiero n. 1118, in Zibaldone, Roma Newton Compton, 2001.

[5]  Nicolò Cecchella, Emanuela Nanni, Pesia contemporanea e fotografia, capoverso 5

[6] C. Baudelaires “Bohémiens en voyages”, Oevres complètes, p. 17.