La forza del sapere: soltanto il pensiero creativo
può costruire un nuovo futuro
La crisi profonda che ha colpito le democrazie
occidentali è dovuta all’assenza di riferimenti ideali su cui aggregare
consenso da parte della politica
di
LUIGI DEI* in Repubblica.it firenze , 3
gennaio 2017
Il 2016 appena archiviato mi stimola ad alcune
riflessioni che offro quali orizzonti di pensiero in questo inizio d’anno.
Salta agli occhi con evidenza una crisi profonda delle democrazie occidentali,
per come si sono affermate dal 1945 a oggi: l’elemento che contraddistingue
questa congiuntura di decadenza mi pare sia l’assenza di riferimenti ideali e
di pensiero positivo, quali stella polare su cui aggregare consenso da parte
della politica. Non esiste una visione del futuro, anche utopica, su cui convogliare
aspirazioni e inquietudini, un’idea di società più evoluta e giusta che possa
fornire risposte al malessere e a fenomeni d’impoverimento sempre più frequenti
e invasivi. La società liquida di Bauman si presenta in tutta la sua crudezza:
classi sociali sempre più frastagliate e non riconducibili a schemi classici di
pensiero, la classe media, costola forte dello sviluppo economico post-seconda
guerra mondiale, fortemente infragilita, impoverita e in alcuni casi
addirittura spazzata via, la globalizzazione impietosa e incontrollabile, la
disfatta della politica quale elemento di equilibrio e contenimento nella
giungla degli appetiti di sopraffazione economica dei grandi poteri
sovranazionali, hanno creato situazioni di grave instabilità, con scontento diffuso
e non incanalabile verso prospettive di realistica ascesa sociale.
La competitività esasperata, presunta regolatrice
dei mercati e unico bilanciere degli equilibri economici, si è gradualmente
insinuata nella vita civile e nel senso comune dei cittadini con una
regressione, assunta quasi come ideologia, allo homo homini lupus.
L’homo societatis, faticosamente costruito sulle
macerie della tragedia dei primi anni ’40 del secolo scorso, ha iniziato a
disgregarsi nel momento in cui si dissolveva la guerra fredda e le grandi
utopie di ascesa sociale rivelavano i loro clamorosi fallimenti, producendo
acute disillusioni e privando le generazioni che si facevano strada di
prospettive, anche immaginarie, in grado di mobilitare donne e uomini attorno a
valori che trascendessero il quotidiano e gli egoistici interessi di strati di
popolazione più o meno vasti. Così ha iniziato a riemergere il mai domo homo
biologicus, che compete freneticamente e accanitamente per la sua sopravvivenza
e per quella della sua prole. Il liberismo sfrenato, che avrebbe dovuto
produrre ricchezza e benessere per tutti, in accordo a un taumaturgico
meccanismo auto-regolativo, ha sbaragliato parole quali solidarietà,
cooperazione, collaborazione, creando l’icona di un’economia anch’essa
“biologica”, in cui la competizione non può concedersi il lusso di offrire
spazi alle relazioni sociali, perché la regola aurea è il principio del “pesce
grande che fagocita il pesce piccolo”. Questa escalation, che inizia grosso
modo subito dopo la caduta del muro di Berlino, corrode le democrazie, le
aggredisce silenziosamente, erode la politica consumandola fino alla
consunzione, apre scenari per i quali il pensiero è impreparato: così la
contemporaneità brucia i tempi e prende in contropiede concezioni e dottrina
dell’uomo, il quale si trova drammaticamente nudo di strumenti interpretativi
per ciò che gli sta accadendo intorno. Il capitalismo stravince e proprio
mentre esegue la sua marcia trionfale si accartoccia clamorosamente,
avviluppandosi in una crisi senza precedenti, tutta interna, senza alcun
innesco da contrapposizioni con altri modelli.
E la
politica assiste inerme alla propria fine che era annunciata, allorché essa
aveva colpevolmente abdicato. Nel frattempo la mensa si affolla di sette miliardi
di commensali i quali, tutti, chiedono, con la forza di un mondo a portata di
“clic”, di partecipare al desco, quel banchetto per lunghi anni appannaggio di
pochi.
L’homo biologicus sa come reagire a questa folla
che preme alla tavola imbandita, è fin troppo facile: mors tua vita mea. Mentre
la complessità cresce esponenzialmente, non altrettanto il pensiero innovativo
si sviluppa nelle biblioteche e nelle università e così si creano le condizioni
per l’affermarsi di una drammatica evidenza nelle menti disorientate di milioni
d’individui: soluzioni semplici per governare la complessità del pianeta.
Riemerge il sempiterno “uomo con i baffetti”, magico e tragico risolutore di
un’altra crisi.
Ecco dunque chiusure, razzismi, brexit,
arroccamenti nazionalistici e quanto abbiamo potuto accogliere dalla mano di
Silvestro, quel Santo bizzarro che tre giorni fa ci ha portato inizio e fine
nella stessa mano. Ma se è vero che ci ha offerto questo passato, è altrettanto
importante aver consapevolezza che in quella mano intravedo spiragli da
illuminare con forza e convinzione. Il sapere, la conoscenza, la grande forza
del pensiero creativo e dello spirito critico, insomma la cultura in senso
lato, possono e debbono trovare grimaldelli concettuali per costruire nuovi
modelli, utopie da terzo millennio, a partire da temi quali la sostenibilità,
la vivificazione di quella parte di homo societatis che ancora deve esserci,
magari nascosta, nel nostro DNA di homo sapiens, la capacità fantastica che
l’uomo ha di adattarsi ed elaborare concetti, idee, paradigmi di pensiero che
lo portano a buttare il cuore oltre l’ostacolo e a varcare linee d’orizzonte
apparentemente piatte, ma che poi dischiudono nuovi mondi. Abbiamo il dovere,
noi navigatori del pensiero che esplora l’ignoto, di provarci, sì di tentare
l’avventura della costruzione di un nuovo modello di sviluppo e crescita della
civiltà umana che accetti la sfida che l’attuale tipo non è l’unico possibile e
che, sebbene ci possa apparire irrealizzabile e improponibile, un sistema
diverso di governare le società ad alto contenuto tecnologico deve invece
esserci, non può non esserci. Lo dobbiamo scovare. Io due o tre idee da cui
ripartire ce le avrei: redistribuzione lenta e graduale della ricchezza su
scala planetaria, rigenerazione ricostruttiva di un’Europa delle genti in cui
banche e denaro siano strumenti e non deus ex machina di ogni azione,
realizzazione di un’alleanza fra gli Stati, sovranazionale, che ristabilisca il
primato della politica sull’economia.
Dice: non si può. Sono uno scienziato: anche andare
sulla luna non si poteva, oppure comunicare a distanza, o infine curare tante
malattie. Eppure è stato possibile. Allora, mi chiedo, anche redistribuire
ricchezza, adottare nuovi sistemi di evoluzione della civiltà basati su
principi di maggior giustizia sociale e ripristinare un governo politico
dell’economia globalizzata si può.
Bisogna metterci la stessa lena, volontà e
curiosità di scoprire, che abbiamo impiegato per progredire nel campo della
scienza e della tecnologia. Allora sbarcheremo sulla luna della liberté,
comunicheremo con apparecchi intelligenti il nostro ideale di egalité, cureremo
coloro i quali si ammaleranno per la mancanza di fraternité. E magari, chissà,
dopo oltre duecento anni vedremo germogliare la straordinaria pianta del 1789
sulle ali di un secolo di led, che poi dovrebbero essere i lumi della ragione
dei giorni nostri! Firenze può e deve essere piattaforma di lancio per un nuovo
rinascimento politico, culturale, sociale: la sua università è pronta a
ossigenare convintamente chiunque si riconosca in questa insopprimibile
esigenza di una grande e rinnovata apertura ideale.
*L’autore
è il rettore dell’Università di Firenze
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