martedì 3 gennaio 2017

La forza  del  sapere:  soltanto  il pensiero  creativo
può  costruire  un nuovo  futuro
La crisi profonda che ha colpito le democrazie occidentali è dovuta all’assenza di riferimenti ideali su cui aggregare consenso da parte della politica
di LUIGI DEI* in Repubblica.it  firenze , 3 gennaio 2017

Il 2016 appena archiviato mi stimola ad alcune riflessioni che offro quali orizzonti di pensiero in questo inizio d’anno. Salta agli occhi con evidenza una crisi profonda delle democrazie occidentali, per come si sono affermate dal 1945 a oggi: l’elemento che contraddistingue questa congiuntura di decadenza mi pare sia l’assenza di riferimenti ideali e di pensiero positivo, quali stella polare su cui aggregare consenso da parte della politica. Non esiste una visione del futuro, anche utopica, su cui convogliare aspirazioni e inquietudini, un’idea di società più evoluta e giusta che possa fornire risposte al malessere e a fenomeni d’impoverimento sempre più frequenti e invasivi. La società liquida di Bauman si presenta in tutta la sua crudezza: classi sociali sempre più frastagliate e non riconducibili a schemi classici di pensiero, la classe media, costola forte dello sviluppo economico post-seconda guerra mondiale, fortemente infragilita, impoverita e in alcuni casi addirittura spazzata via, la globalizzazione impietosa e incontrollabile, la disfatta della politica quale elemento di equilibrio e contenimento nella giungla degli appetiti di sopraffazione economica dei grandi poteri sovranazionali, hanno creato situazioni di grave instabilità, con scontento diffuso e non incanalabile verso prospettive di realistica ascesa sociale. 

La competitività esasperata, presunta regolatrice dei mercati e unico bilanciere degli equilibri economici, si è gradualmente insinuata nella vita civile e nel senso comune dei cittadini con una regressione, assunta quasi come ideologia, allo homo homini lupus.
L’homo societatis, faticosamente costruito sulle macerie della tragedia dei primi anni ’40 del secolo scorso, ha iniziato a disgregarsi nel momento in cui si dissolveva la guerra fredda e le grandi utopie di ascesa sociale rivelavano i loro clamorosi fallimenti, producendo acute disillusioni e privando le generazioni che si facevano strada di prospettive, anche immaginarie, in grado di mobilitare donne e uomini attorno a valori che trascendessero il quotidiano e gli egoistici interessi di strati di popolazione più o meno vasti. Così ha iniziato a riemergere il mai domo homo biologicus, che compete freneticamente e accanitamente per la sua sopravvivenza e per quella della sua prole. Il liberismo sfrenato, che avrebbe dovuto produrre ricchezza e benessere per tutti, in accordo a un taumaturgico meccanismo auto-regolativo, ha sbaragliato parole quali solidarietà, cooperazione, collaborazione, creando l’icona di un’economia anch’essa “biologica”, in cui la competizione non può concedersi il lusso di offrire spazi alle relazioni sociali, perché la regola aurea è il principio del “pesce grande che fagocita il pesce piccolo”. Questa escalation, che inizia grosso modo subito dopo la caduta del muro di Berlino, corrode le democrazie, le aggredisce silenziosamente, erode la politica consumandola fino alla consunzione, apre scenari per i quali il pensiero è impreparato: così la contemporaneità brucia i tempi e prende in contropiede concezioni e dottrina dell’uomo, il quale si trova drammaticamente nudo di strumenti interpretativi per ciò che gli sta accadendo intorno. Il capitalismo stravince e proprio mentre esegue la sua marcia trionfale si accartoccia clamorosamente, avviluppandosi in una crisi senza precedenti, tutta interna, senza alcun innesco da contrapposizioni con altri modelli.
 E la politica assiste inerme alla propria fine che era annunciata, allorché essa aveva colpevolmente abdicato. Nel frattempo la mensa si affolla di sette miliardi di commensali i quali, tutti, chiedono, con la forza di un mondo a portata di “clic”, di partecipare al desco, quel banchetto per lunghi anni appannaggio di pochi.
L’homo biologicus sa come reagire a questa folla che preme alla tavola imbandita, è fin troppo facile: mors tua vita mea. Mentre la complessità cresce esponenzialmente, non altrettanto il pensiero innovativo si sviluppa nelle biblioteche e nelle università e così si creano le condizioni per l’affermarsi di una drammatica evidenza nelle menti disorientate di milioni d’individui: soluzioni semplici per governare la complessità del pianeta. Riemerge il sempiterno “uomo con i baffetti”, magico e tragico risolutore di un’altra crisi.
Ecco dunque chiusure, razzismi, brexit, arroccamenti nazionalistici e quanto abbiamo potuto accogliere dalla mano di Silvestro, quel Santo bizzarro che tre giorni fa ci ha portato inizio e fine nella stessa mano. Ma se è vero che ci ha offerto questo passato, è altrettanto importante aver consapevolezza che in quella mano intravedo spiragli da illuminare con forza e convinzione. Il sapere, la conoscenza, la grande forza del pensiero creativo e dello spirito critico, insomma la cultura in senso lato, possono e debbono trovare grimaldelli concettuali per costruire nuovi modelli, utopie da terzo millennio, a partire da temi quali la sostenibilità, la vivificazione di quella parte di homo societatis che ancora deve esserci, magari nascosta, nel nostro DNA di homo sapiens, la capacità fantastica che l’uomo ha di adattarsi ed elaborare concetti, idee, paradigmi di pensiero che lo portano a buttare il cuore oltre l’ostacolo e a varcare linee d’orizzonte apparentemente piatte, ma che poi dischiudono nuovi mondi. Abbiamo il dovere, noi navigatori del pensiero che esplora l’ignoto, di provarci, sì di tentare l’avventura della costruzione di un nuovo modello di sviluppo e crescita della civiltà umana che accetti la sfida che l’attuale tipo non è l’unico possibile e che, sebbene ci possa apparire irrealizzabile e improponibile, un sistema diverso di governare le società ad alto contenuto tecnologico deve invece esserci, non può non esserci. Lo dobbiamo scovare. Io due o tre idee da cui ripartire ce le avrei: redistribuzione lenta e graduale della ricchezza su scala planetaria, rigenerazione ricostruttiva di un’Europa delle genti in cui banche e denaro siano strumenti e non deus ex machina di ogni azione, realizzazione di un’alleanza fra gli Stati, sovranazionale, che ristabilisca il primato della politica sull’economia. 

Dice: non si può. Sono uno scienziato: anche andare sulla luna non si poteva, oppure comunicare a distanza, o infine curare tante malattie. Eppure è stato possibile. Allora, mi chiedo, anche redistribuire ricchezza, adottare nuovi sistemi di evoluzione della civiltà basati su principi di maggior giustizia sociale e ripristinare un governo politico dell’economia globalizzata si può.
Bisogna metterci la stessa lena, volontà e curiosità di scoprire, che abbiamo impiegato per progredire nel campo della scienza e della tecnologia. Allora sbarcheremo sulla luna della liberté, comunicheremo con apparecchi intelligenti il nostro ideale di egalité, cureremo coloro i quali si ammaleranno per la mancanza di fraternité. E magari, chissà, dopo oltre duecento anni vedremo germogliare la straordinaria pianta del 1789 sulle ali di un secolo di led, che poi dovrebbero essere i lumi della ragione dei giorni nostri! Firenze può e deve essere piattaforma di lancio per un nuovo rinascimento politico, culturale, sociale: la sua università è pronta a ossigenare convintamente chiunque si riconosca in questa insopprimibile esigenza di una grande e rinnovata apertura ideale.
*L’autore è il rettore dell’Università di Firenze


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