mercoledì 18 giugno 2025

"Rilke ritorna a Viareggio" -30 giugno alla GAMC, piazza Mazzini, AUSER presenta "Il diario fiorentino di Rilke per Lou Salomé" di R. Mosi - Renato Campinoti introduce


 

Roberto Mosi, Il diario fiorentino di Rainer M. Rilke per Lou Salomé”, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 2025

 

Sinossi

 

La fama di Rainer Maria Rilke, il maggiore poeta lirico di lingua tedesca, è legata in modo particolare a due opere composte nel 1922, Elegie Duinesi e Sonetti a Orfeo, capolavori universali. Le elegie cantano l’orgogliosa sfida al divino e il lamento esistenziale dell’uomo nel confronto-scontro con l’angelo, simbolo di una inesauribile energia cosmica. È proprio durante il soggiorno del poeta, nel 1898, prima a Firenze e poi a Viareggio, che maturano i primi elementi significativi di questo percorso poetico, descritti da Il diario fiorentino. Il progetto fu ispirato e sostenuto dalla donna amata, Lou Salomé, celebre intellettuale nell’epoca di passaggio fra l’Ottocento e il Novecento. Dalle pagine del Diario emerge come l’Italia, e in particolare Firenze con la sua storia e la sua arte, abbiano influito sul pensiero e la scrittura del poeta, tanto da diventare il laboratorio creativo dove poter affinare il suo linguaggio e approfondire la sua visione esistenziale. Firenze è per lui una metafora della capacità umana di creare bellezza immortale in contrasto con l’effimero della vita. Queste tematiche tornano successivamente nelle sue opere in cui le immagini fissate nel viaggio in Toscana, si trasformano in simboli universali nella ricerca di un nuovo linguaggio poetico. A far rivivere questa esperienza è un gruppo di lettori di una storica biblioteca del centro di Firenze – Biblioteca Palagio di Parte Guelfa - che decide di dedicare una serie di incontri alla lettura e all’analisi del Diario, compie escursioni nelle strade e per le colline fiorentine, lungo le rive del mare di Viareggio, seguendo i passi e lo sguardo del giovane Rilke. Il frutto finale di questo impegno, pieno di curiosità e di passione, è la mappa di un percorso letterario e culturale, preziosa per comprendere come spuntarono le ali al giovane poeta.







27 giugno- La CAMERATA DEI POETI alla Sala di Testimonianze, via Ghibellina (Le Murate) con la Fotografia, le canzoni di Rainero, il libro "Il diario fiorentino di Rilke per Lou Salomé", di R. Mosi





 Roberto Mosi, Il diario fiorentino di Rainer M. Rilke per Lou Salomé”, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 2025

 

Sinossi

 

La fama di Rainer Maria Rilke, il maggiore poeta lirico di lingua tedesca, è legata in modo particolare a due opere composte nel 1922, Elegie Duinesi e Sonetti a Orfeo, capolavori universali. Le elegie cantano l’orgogliosa sfida al divino e il lamento esistenziale dell’uomo nel confronto-scontro con l’angelo, simbolo di una inesauribile energia cosmica. È proprio durante il soggiorno del poeta, nel 1898, prima a Firenze e poi a Viareggio, che maturano i primi elementi significativi di questo percorso poetico, descritti da Il diario fiorentino. Il progetto fu ispirato e sostenuto dalla donna amata, Lou Salomé, celebre intellettuale nell’epoca di passaggio fra l’Ottocento e il Novecento. Dalle pagine del Diario emerge come l’Italia, e in particolare Firenze con la sua storia e la sua arte, abbiano influito sul pensiero e la scrittura del poeta, tanto da diventare il laboratorio creativo dove poter affinare il suo linguaggio e approfondire la sua visione esistenziale. Firenze è per lui una metafora della capacità umana di creare bellezza immortale in contrasto con l’effimero della vita. Queste tematiche tornano successivamente nelle sue opere in cui le immagini fissate nel viaggio in Toscana, si trasformano in simboli universali nella ricerca di un nuovo linguaggio poetico. A far rivivere questa esperienza è un gruppo di lettori di una storica biblioteca del centro di Firenze – Biblioteca Palagio di Parte Guelfa - che decide di dedicare una serie di incontri alla lettura e all’analisi del Diario, compie escursioni nelle strade e per le colline fiorentine, lungo le rive del mare di Viareggio, seguendo i passi e lo sguardo del giovane Rilke. Il frutto finale di questo impegno, pieno di curiosità e di passione, è la mappa di un percorso letterario e culturale, preziosa per comprendere come spuntarono le ali al giovane poeta. 




mercoledì 11 giugno 2025

Michela Landi recensisce "Tre principesse francesi a Firenze". "Rivista di Letterature Moderne" - 14 giugno: Nicoletta Manetti presenta alla Casa della Poesia





La recensione di Michela Landi (Università di Firenze) 

in: "Rivista di Letterature Moderne e Comparate e Storia delle arti", Fas. 2, aprile-giugno 2025, pp. 222-226

Roberto Mosi, Tre principesse francesi a Firenze. Sylvia Boucot e le sorelle di Napoleone, Elisa Baciocchi, Paolina Borghese e Carolina Murat, Firenze, Angelo Pontecorboli Editore, 2024, pp.172.

In occasione dei duecentocinquant’anni dalla nascita di Napoleone Bonaparte (1769), l’Università di Firenze ha organizzato nel 2019, in collaborazione con la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, un convegno dal titolo di sapore manzoniano: “Fu vera gloria? Napoleone tra sacralità e parodia”.  Il convegno ambiva a ricostruire, ripercorrendone la ricezione in Francia, la discussa figura del condottiero in particolar modo laddove fioriscono da lunga tradizione le parodie dei potenti e, a maggior ragione, di personalità non autoctone. Di origini italiane (Sarzana e San Miniato), ma còrso di nascita in una fase storica in cui la Corsica, terra povera e sediziosa, difficilmente governabile dalla Repubblica di Genova, fu ceduta alla Francia in cambio dell’aiuto francese durante le rivolte corse per l’indipendenza capeggiate da Pasquale Paoli, il Bonaparte seppe approfittare dello strascico della Rivoluzione per auto-proclamarsi, come è noto, Imperatore dei Francesi con il nome di Napoleone I. L’auto-incoronazione a Notre-Dame del 2 dicembre 1804 inaugura così un decennio unico nella storia di Francia e d’Europa che, conclusosi nel 1814, con la breve appendice che va  dal 20 marzo al 22 giugno 1815, lascia in Europa un segno indelebile, instaurandovi quella che chiameremmo con buona approssimazione la politica capitalistico-borghese, nata dal compromesso tra il familismo e il liberalismo economico. Incoronato Re d’Italia nel 1805 a Milano, Napoleone sa che la gloria si costruisce anche con quel potere simbolico e suggestivo che è l’arte; a Firenze  individua, ricorda Mosi, le opere artistiche atte a glorificare  il regno di Francia (p. 22). Nasce così, in Italia, il mito revanscista della Gioconda leonardesca sottratta da Napoleone durante queste sue razzie mentre, come è noto, essa fu venduta a Francesco I di Francia dallo stesso Leonardo a caro prezzo.

Il mito di Napoleone, in Francia come in Italia, è un mito romantico; e,  in Francia in come in Italia il Romanticismo è, come Napoleone stesso, un fenomeno non autoctono: ha, per questo, una durata storica limitata sebbene i suoi strascichi giungano, attraverso la tradizione scolastica e la cultura di massa, fino a noi. Se il mito romantico di Napoleone ha alimentato in Francia tanta grande letteratura –  da Chateaubriand a Lamartine;  da Stendhal e Balzac, a Hugo – tutto questo repertorio è segnato, appunto,  dall’ambivalenza. L’oriundo  che acclimata  in Francia, interpretando in forma autonoma ed eccentrica una inveterata tradizione politica organica alla nazione; che esibisce un virilismo marziale talvolta anche brutale in un paese dove la nobiltà era cortigiana da secoli;  che procede al ripristino delle leggi marziali e all’abolizione di molte conquiste etico-sociali della Rivoluzione, tra cui la scuola laica e repubblicana, la schiavitù e la libertà di stampa, è e resta un personaggio scomodo e ingombrante.  Di eccentrico, vi è anche il fatto che la Francia non avendo in stima, per consuetudine morale,  alcun pathos, né bellico né sentimentale, né alcun eccesso autocelebrativo, Napoleone  finì per incarnare, tra i più sciovinisti, l’ennesima immagine folklorica dell’Italia. Resta il fatto che Napoleone servì da modello ai novelli borghesi di Francia, diseredati dalla Rivoluzione o di nuova ascensione sociale,  ai cosiddetti “parvenus” che popoleranno i romanzi realisti dell’Ottocento.

Come ricorda l’Autore nella sua postfazione, questo libro costituisce il coronamento di un percorso iniziato nel 2013 con il saggio Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone. Storie francesi da Piombino a Parigi. Già allora il riflettore era posto sulla granduchessa di Toscana, la quale resta la protagonista indiscussa anche di questo lavoro. Il particolare di copertina del volume, tratto dall’Incoronazione di Napoleone (Le sacre de l’Empereur) di Jacques-Louis David (1805-1807) esposto al Louvre e in copia a Versailles, rende conto in modo esemplare dell’intenzione dell’autore: attraverso lo spostamento del riflettore su un dettaglio del dipinto ritraente  le tre sorelle, si mostra come esse possano godere di luce mitica propria, acquisendo in un contesto storico e familiare certo non loro favorevole, doti politiche, umane ed imprenditoriali del tutto personali.

La cornice narrativa è rappresentata dalla figura di Sylvia Boucot de Hautmesnil, la cui prerogativa è quella di aver svolto il ruolo di dama di compagnia delle tre sorelle nei tre momenti successivi della loro vita fiorentina. La funzione della Boucot è duplice: testimone oculare nella storia reale, essa funge da catalizzatrice della narrazione. Essa costituisce insomma il prisma attraverso il quale le tre figure rivelano al narratore la loro dimensione intima, domestica, mentre al narratore è dato in prima persona il compito di osservarle nella vita sociale. Attraverso la   figura di garanzia che è Sylvia Boucot e del suo resoconto che va sotto il titolo di  Diario Fiorentino, il narratore spalanca i polverosi armadi-archivi della storia tentando di  classificare la mole invadente e caotica dei ricordi pubblici e privati. Emissaria della voce di Sylvia Boucot è la voce seconda del Narratore, la quale, in apparenza tributaria di tutte le voci di cui Sylvia è testimone aurale, tira le fila del passato e del presente legandoli fra loro inscindibilmente, così come lega fra loro i luoghi attraversati a fasi alterne dalle tre sorelle (Austria, Francia, Italia, Corsica, Inghilterra), ponendo appunto il riflettore sui loro soggiorni fiorentini.

Elisa giunge in Toscana come principessa sovrana otto mesi dopo l’Incoronazione di Napoleone, avvenuta il 2 dicembre 1804: entra a Lucca, trionfalmente, il  14 luglio 1805. Quando è acclamata Granduchessa di Toscana, nel 1809, la corte si sposta a Palazzo Pitti; Paganini suona per lei. Ma ecco che deve lasciare rapidamente Firenze nel 1814 con la caduta di Napoleone e, dopo un breve soggiorno in Moldavia, si trasferisce a Trieste, dove muore per un’infezione contratta durante un bagno termale.

Paolina, principessa Borghese ritratta da Canova, artista da lei protetto, come Venere Vincitrice, approda a Firenze nell’ultima fase della sua vita per ricongiungersi con il marito che risiedeva presso il Palazzo Borghese-Salviati in Via Ghibellina. Si trasferisce poi a Villa Strozzi, a Montughi, oggi nota come Villa Fabbricotti, dove muore. Mosi si arresta sul drammatico effetto di una donna guastata dalla malattia che si rivede all’apice della sua bellezza, resa immortale dallo scultore. 

Moglie di Gioacchino Murat, re di Napoli, e reggente per conto del marito,  Carolina Murat chiama a sé Sylvia Boucot prima in Austria, poi a Trieste, e Napoli, infine a Firenze. Anche per lei, come per Paolina, Firenze è l’ultima dimora. Risiederà nel palazzo Bonaparte, che accoglie oggi l’Hotel Excelsior di piazza Ognissanti, di fronte a quel palazzo che sarebbe divenuto la sede del più antico Istituto di cultura al mondo: l’Istituto Francese di Firenze. Scomparsa nel 1839, Carolina è sepolta a pochi metri dalla sua residenza, nella cappella Murat della chiesa di Ognissanti, dove riposano Sandro Botticelli e Amerigo Vespucci.

Questa, in sintesi, la trama delle tre vite, che si snodano come in una sequenza filmica sotto gli occhi della longeva Sylvia Boucot e, per procura, sotto quelli del narratore. Questi propone, delle tre trame succedentisi storicamente, un intreccio suggestivo che segue il filo immaginario dei ricordi della dama di compagnia. Grazie alla abile tessitura narrativa di Mosi, infatti, diversi tempi  e diversi luoghi vengono a convergere in modo centripeto intorno alla città di Firenze, punto focale della rimemorazione. La cartografia urbana del capoluogo toscano, i palazzi nobiliari abitati dalle tre donne e la vita che ruota intorno ad esse ci permette di ripercorrere la città con un doppio sguardo, al contempo diacronico e sincronico, storico-archivistico, e topologico.  Una rimemorazione che ha spesso un  carattere onirico, quello di una “città sognata”, nella misura in cui certi “temi”,  certi “eventi” o certi “luoghi” si ripropongono periodicamente alla memoria sotto più angolazioni e punti di vista: veri e propri “motivi musicali”, leitmotive alla Wagner che ritroviamo, variati, in fasi diverse della narrazione. Forse il modello Proust, l’amato autore di Mosi, affiora  attraverso l’effetto sgranato del racconto, imprimendo alle cose la forma del ricordo che gli fu congeniale.

E, proprio come in Proust, il fasto immaginifico dello sguardo d’infanzia si profila attraverso la descrizione di figure principesche magnificenti,  belle di fama e di sventura, che avvivano il nostro atavico desiderio di immedesimazione: Sylvia impersona  allora, catalizzandola intorno a sé, tutta la nostra segreta ammirazione fanciullesca. Il realismo del dato storico viene, infatti, continuamente passato al setaccio del suo ricordo, che polverizza la continuità del dettato e la fa turbinare intorno ad una topografia magica: la Firenze dei primi anni dell’Ottocento, punto di fuga, appunto, su cui convergono tutte le linee narrative. Ed è Firenze che elegge come protagonista del volume ancora una volta Elisa Baciocchi, Granduchessa di Toscana dal 1809 al 1814. A lei infatti si deve in larga parte la Firenze attuale, urbanisticamente improntata al modello parigino in fase anch’esso di accelerata modernizzazione sotto il segno di Napoleone I. La Baciocchi acclimata in Toscana i modi di vita della corte francese e, come a compensare l’assenza di un terreno di coltura e una certa italica refrattarietà al codice comportamentale, potenzia l’etichetta, che si avvale di ben duecentocinquantatré articoli. Mentre la Toscana, divenuta parte integrante dell’Impero napoleonico, si divide in tre dipartimenti – Arno, Ombrone (Siena), Mediterraneo (Livorno) – e la legislazione leopoldina è sostituita dalla legislazione francese, Firenze, “la belle ville”, si trasforma nella “Mairie de Florence”, con un “maire” nominato dall’Imperatore e un Consiglio con funzioni consultive, sovraordinato da un prefetto  (p. 53). Così, Firenze, sotto il governo di colei che il fratello considerava “la migliore dei suoi ministri”,  costituisce un caso esemplare degli effetti del buongoverno francese in Italia, frutto della recente Rivoluzione. I sei anni in cui la Toscana fu annessa all’Impero napoleonico (nel 1814 la Baciocchi dovette lasciare la Toscana, ritornata nelle mani del Granduca Ferdinando III) furono infatti gli anni dei più grandi mutamenti politico-urbanistici per Firenze: dalla nascita del catasto e del regolamento edilizio, all’anagrafe, che richiese l’assegnazione di un nome alle vie e un numero civico. Tra le grandi opere progettate dalla Baiocchi merita almeno ricordarne due: il Foro Napoleone, che prevedeva un corridoio tra San Marco e Porta San Gallo, e la porta sul Mare di Firenze, con un canale navigabile aperto sulla riva destra dell’Arno, da piazza Ognissanti: qui un arco monumentale avrebbe significato che Firenze era la porta verso il mondo. Un ruolo preponderante in questi progetti “illuminati” doveva avere avuto la massoneria: del Grande Oriente d’Italia, fondato nel 1805 a Milano sul modello francese, il Gran Maestro era Eugenio de Beauharnais, viceré del Regno d’Italia. La stessa Elisa aprì nel 1809 una loggia a lei intitolata presso l’attuale Chiesa di San Pancrazio. E, così come i Lumi della Rivoluzione nacquero dalle inquietanti ombre dell’esoterismo massone,  non  mancano elementi anche macabri  legati alla principessa come il prelievo, in punto di morte, del suo cuore,  conservato nella cappella Baciocchi a San Petronio a Bologna.

I  documenti qui convocati (scambi epistolari, decreti, annunci) funzionano come un primo piano storico, mentre intorno aleggia la forza disgregante della morte e lo sfumato della lontananza. Dovessimo ricondurre questo lavoro ad un qualche genere di riferimento lo ascriveremmo alla “mitobiografia”, dove la lacuna storica è colmata appunto dalla forza poietica del ricordo o dell’immaginazione. Non solo vi è qui polifonia (la voce narratoriale interna o esterna, la voce di Sylvia, narratrice delegata…), ma vi è ibridazione di modi enunciativi: romanzo, romanzo epistolare, saggio storico, diario intimo.

L’Autore si concede talvolta il lusso di togliersi la maschera, e di assumere lui medesimo lo sguardo panoramico dell’onniscienza: si situa, ad esempio, in quello che Northrop Frye definisce il “punto di epifania” fornitogli dall’elevazione del palazzo nobiliare. Dalla terrazza dell’Hotel Excelsior, già Palazzo Bonaparte, egli gode, ad esempio,  della magnifica vista su Firenze: panoramica storica e topografica al contempo restituita in tempo scenico.  In questa fusione di sacralità e mondanità Firenze è, in fondo, la grande protagonista; è, al contempo, una Chiesa e un palcoscenico. Certo è che la passione di Elisa Baciocchi per il teatro (si veda il capitolo: “Il teatro allo specchio”), e in particolare la sua vocazione attoriale tragica  (amava Racine e aveva  interpretato Fedra in più luoghi suggestivi della Toscana), la sua frequentazione, in parallelo all’attività politica, del “salotto buono” di Firenze, il mondano Teatro della Pergola, fa di lei la protagonista indiscussa del sogno imperiale.

 

Corredano il lavoro le quattro sinossi biografiche che riassumono cronologicamente i fatti storici,  mentre le magnifiche riproduzioni di immagini  su carta rigata avorio aggiungono eleganza e la patina del tempo a questo gioiello storico e narrativo.

 

                                                                     Michela Landi           

                                                                 (Università di Firenze)

                                                                 michela.landi@unifi.it




 

domenica 8 giugno 2025

Con il mio cane, Gilda, sul sentiero di Dino e Sibilla - Camminare i paesaggi dei poeti

 


Con il mio cane, Gilda, sul sentiero di Dino e Sibilla

 

Mercoledì 3 novembre una bella passeggiata sull’Appennino tra la Toscana e la Romagna, ci ha portato a scoprire, con un gruppo di amici e il mio cane Gilda, i luoghi e il sentiero del celebre incontro che avvenne nel 1916 fra la scrittrice Sibilla Aleramo e il poeta Dino Campana.

Nel ricordo di quell’avvenimento, siamo saliti da Scarperia, antico Borgo del Mugello, al passo del Giogo per scendere poco dopo al Barco dove la mattina di giovedì 3 agosto 1916 Sibilla Aleramo scese dal postale per incontrare il poeta di Marradi.



        Fra Dino e Sibilla vi era stato uno scambio di lettere, fra queste troviamola poesia della scrittrice:

 

Chiudo il tuo libro,

snodo le mie trecce,

o cuor selvaggio,

musico cuore…

con la tua vita intera

sei nei miei canti

come un addio a me.

 

Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,

meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,

liberi singhiozzando, senza mai vederci,

né mai saperci, con notturni occhi.

 

Or nei tuoi canti

la tua vita intera

è come un addio a me.

 

Cuor selvaggio,

musico cuore,

chiudo il tuo libro,

le mie trecce snodo.

 

Dopo tre giorni passati al Barco, il successivo incontro fu venti giorni dopo a Casetta di Tiara, un paese sperduto nei boschi oltre Moscheta e la vicina Valle dell’Inferno (un’aspra gola incastrata fra i monti, attraversata dal torrente Veccione), un soggiorno che vede la coppia alla scoperta dei luoghi immersi fra i castagni.



Nella recente passeggiata del 3 novembre, siamo arrivati con l’auto fino alla Badia di Moscheta, passando vicino all’imponente struttura costruita recentemente come presa d’aria per il lunghissimo tratto di galleria ferroviaria, che in tempi recenti è stata realizzato sulla linea direttissima Firenze – Bologna.

La Badia di Moscheta è del secolo XI.  Sopra il portone d’ingresso risalta l’insegna in pietra della Badia, con l’immagine di San Pietro, patrono del Monastero, la quercia e l’istrice come simbolo della solitudine e del silenzio che circonda l’edificio. Fatti pochi passi siamo arrivati al punto di accesso alla Valle dell’Inferno, in località il Mulino, dove è presente un piccolo edificio, abitato alcuni anni orsono dal poeta – ed amico - Ivo Morini che ha dedicato molto del suo impegno al ricordo di Dino Campana. Una sua poesia descrive bene il paesaggio selvaggio (si veda: Ivo Morini, Il monte della quercia dolce, Pacini Editore 2006):

 

La Valle è di pietra

 

La roccia incombe

la serpe striscia

e grotte scavate dall’acqua

e vette spazzate al vento.

La Valle è di pietra.

 

Alta di massi               

la rupe sgretola

se viene l’estate

esplode colori

La Valle fiorisce. …

 

         Un sentiero a mezza costa fra il torrente Veccione (dove è tornata, felicemente, a scorrere l’acqua dopo gli imponenti lavori nel sottosuolo per la costruzione della galleria ferroviaria, che avevano portato al prosciugamento del torrente) e la cima dei monti, fra secolari piante di castagni, in un serpeggiare della valle, porta a Casetta di Tiara, all’incontro con le memorie dei due famosi personaggi.




          Il mio cane, Gilda, è stato il protagonista della passeggiata, che felice si è lanciato in un perenne andirivieni fra le acque del torrente, in basso, e il sentiero davanti a noi, comparendo e scomparendo nella vegetazione. Il pensiero è andato, naturalmente, alla presenza in questi luoghi di Sibilla e di Dino nel mese di settembre del 1916, all’immagine della copertina del libro che li ritrae durante una passeggiata, con un magnifico cane, in posa, davanti a loro, che, si dà il caso, rassomiglia a Gilda.



           In questo tratto la passeggiata è di grande suggestione, come si può vedere dalle foto, in un ambiente isolato dal mondo, invaso dal silenzio, mitigato dal lontano scorrere delle acque del torrente e dal fruscio del vento fra le foglie dei castagni, luminose, accese di rosso fuoco, in questa stagione autunnale. 


             In questi luoghi, ci piace ricordare, abbiamo ambientato la prima parte del nostro poemetto L’invasione degli storni, Edizioni Gazebo, 2012, che riporta, appunto, il titolo Valle dell’Inferno ( VIDEO). Prendiamo due, fra le prime strofe del poemetto:

 

L’occhio del campanile

di Casetta di Tiara si affaccia

sopra i miasmi della valle.

La macchina cattura immagini

a misura dell’occhio digitale.

Il treno attraversa la galleria

nel pulsare delle vene d’acqua,

tremano le radici del bosco.

Il cervo scappa spaventato

sul fianco la ferita di uno sparo.

 

L’acqua canta tra il muschio

dei massi, si scompone in rapide

correnti, si ricompone in pozze

sommerse da morti rami.

Nella radura Gabriella, coronata

di luce, mostra la strada

che dalla valle sale a spirale

per i fianchi della montagna.

Sopra la cima dei castagni

 la vertigine delle rocce,

colonne aeree di una cattedrale

aperta sul candeggiare del cielo.

“Mi perdo in questi boschi

- le parole di Dino - ritrovo

il centro di me stesso tra i fumi

della Follia. Casetta di Tiara

oltre i fianchi della valle,

approdo per l’incendio d’amore.”

 

Le rocce parlano dell’essere

le acque giocano con l’apparire.

Le piene dell’inverno trascinano

pupazzi bianchi caduti dal cielo.

Sulle camicie ricamate, Libertà

Uguaglianza Fraternità

si disfano, approdano sui massi.

Immagini di pietra alle pareti,

ideologie sedimentate:

ora il volo libero del gabbiano

ora colonne fino alle guglie

della cattedrale attraversate

da oriente a occidente

da armenti ricamati di nuvole,

guidati dal fantasma della Ragione.

 

           Le immagini di questi luoghi, evocati dalla poesia, sono stati ripresi, in maniera magistrale dal pittore Enrico Guerrini, nell’e-book n. 152 del 2014 delle edizioni www.larecherche.it L’invasione degli storni (indirizzo: https://www.larecherche.it/public/librolibero/L_invasione_degli_storni_di_Roberto_Mosi.pdf ). 



Il testo del poemetto L’invasione degli storni è riportato anche nell’Antologia Poesie2009 – 2016, Ladolfi Editore, 2016, p. 145 – 164; il video di presentazione del libro è all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=FuSecM_Ox8E 



            Ci siamo avventurati sul sentiero di Dino e Sibilla, insieme a Gilda, fino al momento in cui, dopo una curva, è apparso in lontananza il paese di Casetta di Tiara, raggomitolato intorno all’aguzzo campanile, una piccola isola nel mare verde dei boschi di castagno. Siamo tornati indietro per il sentiero, fino alla Badia di Moscheta.




        Nel ritorno sono usciti dai nostri zaini vari libri, dai Canti Orfici ad Un viaggio chiamato amore e sul sentiero, fra le alte pareti della Valle dell’Inferno abbiamo declamato, a piena voce, con l’eco che si alzava dalle acque del ruscello allo scampolo di cielo azzurro, in alto, versi memorabili, che evocano il ricordo di Dino Campana e di Sibilla Aleramo.

 

Dino Campana: In un momento.

 

In un momento

Sono sfiorite le rose

I petali caduti

Perché io non potevo dimenticare le rose

Le cercavamo insieme

Abbiamo trovato delle rose

Erano le sue rose erano le mie rose

Questo viaggio chiamavamo amore

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose

Che brillavano un momento al sole del mattino

Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi

Le rose che non erano le nostre rose

Le mie rose le sue rose

 

P. S. E così dimenticammo le rose.

***

 


Dino Campana: L’invetriata (Canti Orfici)

 

La sera fumosa d’estate

Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra

E mi lascia nel cuore un suggello ardente.

Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha

A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada?

Nella stanza un odor di putredine: c’è

Nella stanza una piaga rossa languente.

Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:

E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è,

Nel cuore della sera c’è

Sempre una piaga rossa languente.