“Le case di ferro e di legno di Firenze Capitale,
al Campo di Marte”
Dalla
mia finestra vedo la Stazione del Campo di Marte. Ogni dieci minuti passa una
freccia rossa, in una direzione o nell’altra, di solito in corsa per recuperare
il ritardo. Penso ad una scena di 155 anni fa, in un paesaggio del quartiere di
case sparse aggrappate alle chiese delle varie pievi, da qui passo il convoglio
reale del re Vittorio Emanuele, anno 1870, che lasciava Firenze per raggiungere
Roma, dove era stabilita la nuova residenza reale al palazzo del Quirinale.
Mi
sembra di vedere il fumo della grossa locomotiva che invade la stazione e
prosegue per la campagna. A un tratto il fumo della locomotiva si confonde con
il fumo di un grosso incendio: va a fuoco il villaggio di baracche di ferro e
di legno costruito dal Comune per cercare di rispondere almeno in parte, alla
fame di case che era esplosa quando Firenze era diventata capitale d’Italia,
con l’arrivo di tanto forestiero e con gli affitti schizzati alle stelle. Ma
l’incendio come era scoppiato? Era forse doloso?
Le case erano state acquistate dal Comune in Inghilterra da una ditta che le esportava in tutto il mondo, sui giornali era apparsa la pubblicità con una famigliola sorridente, contenta, affacciata alle finestre piene di fiori. Il promotore del progetto, l’imprenditore Giacomo Servadio, era diventato presto deputato.
Le
case si erano, però, rivelate presto una delusione, per raggiungerle c’erano
degli stradelli, senza fanali la sera, tutti pozze e fango e, soprattutto, ci
pioveva dentro, dal tetto scendevano rigagnoli d’acqua e le assi del pavimento
erano impregnate d’acqua. Sui giornali era scoppiata una grossa polemica ed era
rimasta celebre la vignetta apparsa sul periodico La scossa elettrica del
marzo 1866 nella quale si vede il capofamiglia ammalato, a letto, che regge un
ombrello per ripararsi dall’acqua e il sindaco che dice:” Coraggio, domani vi
manderò i pompieri” e la moglie che interviene: “Che ci faccio delle guardie
del fuoco! Per riparare l’acqua? Queste case bisognava farle alla fiorentina,
di roba bona!”.
Il protagonista del racconto è Felice che ai bei tempi era un bravo artigiano ebanista, sposato con due figli, e una serie di vicissitudini nel periodo di Firenze Capitale, l’avevano segnato. Aveva ottenuto una delle case di ferro e di legno ma l’aveva dovuta lasciare per gli interventi di restauro che c’erano da fare. Prima si era sistemato con altre centinaia di famiglie negli edifici che erano stati conventi e aveva trovato un impiego come manovale ai lavori per l’abbattimento delle mura lungo i viali. Il momento più disgraziato, però, era stato quel maledetto giorno, il 3 febbraio 1865, proprio il giorno dell’arrivo del re Vittorio Emanuele a Firenze, da Torino. La sera aveva bussato alla porta il padrone di casa: gli dette la notizia di lasciare la casa e la bottega entro 15 giorni, si doveva fare lavori urgenti all’intero edificio per accogliere le famiglie dei nuovi impiegati in arrivo da Torino.
E
pensare che era tornato a casa veramente contento, aveva partecipato alla
manifestazione in piazza Santa Croce e aveva sfilato dietro il vessillo
dell’Associazione Artigiana davanti al palco delle autorità, fra il suono delle
bande militari e lo sventolio delle bandiere. Tutto gli faceva sperare in
futuro prospero per lui e per la città con la nuova pagina di storia che si
apriva.
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